“A dire il vero, non riesco a credere che la gente tenga in così alta considerazione cose che ho fatto al tavolo di cucina di mia madre quando avevo 16 o 17 anni”, e giù una delle molte e rumorosissime risate con cui Mark Stewart farcisce l’ora abbondante di intervista con Soundwall. Come punteggiatura di un flusso di coscienza travolgente, insieme agli altrettanto numerosi “Blah blah blah”, usati per tagliare corto quando il pensiero viaggia troppo veloce per le parole ma il senso è chiaro, e ci sono altri quattro o cinque aneddoti, o concetti, da mettere in fila. Insieme alle mille divagazioni che saltando di palo in frasca paiono portare il discorso troppo lontano, ma alla fine tornano sempre. Un tornado, entusiasta ed entusiasmante, per nulla scontato da parte di un uomo di 56 anni che ha cominciato quando ne aveva appunto 16 o 17, e che ancora pare tutt’altro che seduto, pacificato.
L’occasione per la chiacchierata è fornita da Honeymoon on Mars, il nuovo album di quel Pop Group di cui Stewart è cantante e autore dei testi, il secondo lavoro pubblicato dalla storica band di Bristol dopo la riunione del 2010. Prodotto per sette decimi dal maestro dub britannico Dennis Bovell e per i restanti tre da Hank Shocklee (vedere alla voce Public Enemy/Bomb Squad). Un disco che prende spunto dall’originale miscela di rumore chitarristico e suoni neri di vario genere che scosse nel 1977 una scena punk intorpiditasi prestissimo, e che da allora caratterizza la carriera di Mark (con i New Age Steppers, come solista alla guida dei formidabili Maffia e come figura di spicco nel giro dub sporco della On-U Sound, con un lato elettronico sempre più presente) e dei suoi soci di allora (che andranno a comporre con Pigbag, Maximum Joy, Rip Rig + Panic, Glaxo Babies e Float Up CP uno degli alberi genealogici cruciali per la musica del ventesimo secolo). Un disco che forse non farà la storia come quelle cose fatte al tavolo di cucina si sua madre, come gli eterni Y o For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder? ad esempio, ma che pare tutt’ora figlio di quelle stesse esigenze creative, politiche, vitali. E della stessa libertà da costrizioni di moda e genere, un po’ involontaria (vedi incipit) e un po’ invece ostinatamente cercata.
Siete tornati a lavorare con Dennis Bovell, a 18 anni di distanza dal vostro primo singolo e a 17 da Y. Come è andata?
È stato meraviglioso, come essere di nuovo a bordo dell’astronave. Lui è il capitano Kirk del mixer. Il mio problema è che devo avere tutto sotto controllo, posso passare dei mesi a giocherellare con un beat o un suono, il diavolo è nei dettagli. Anche con Adrian Sherwood (collaboratore storico di Stewart, fondatore della On-U Sound e fra i massimi produttori della scena dub evoluta mondiale – ndr) sono abbastanza hands on the desk. Dennis invece è uno dei pochissimi di cui ho fiducia, da lui mi farei pure operare al cuore. Siamo stati i primi a farlo uscire dalla sua comunità e a fargli fare mix dub per gruppi punk, entrai io per primo in contatto con lui, grazie al mio amore per il reggae. Per Honeymoon on Mars stavamo lavorando a canzoni abbastanza moderne, con influenze trap e crunk, ispirate a gente come Powell o Hanz, o altre cose nuove urban che ascolto e che voglio inserire nella mia tavolozza, come ho fatto in passato con punk, funk e dub. Ho pensato che Dennis potesse metterle insieme e sperimentare nuovamente, come facemmo con Y. Con il Pop Group non puoi mai davvero aspettarti un altro album del Pop Group: dobbiamo sperimentare sempre, è il nostro stato mentale. Altrimenti saremmo in un ospedale psichiatrico, non riusciamo ad essere normali.
Ti vedo molto attento a quello che succede nel mondo dance/elettronico…
È divertente, qualche tempo fa su Noisey un giornalista molto bravo ha scritto un pezzo intitolato Noise-hop, che in qualche modo ha tracciato i miei esperimenti con Pop Group e On-U Sound, quello che hanno chiamato industrial hip hop, fino a Hank Shocklee e fino ad oggi, a questa dance molto rumorosa che sta uscendo dall’Inghilterra. È strano e interessante, essere influenzati dalle cose che hai influenzato.
Altre cose che ti sono piaciute ultimamente?
Powell, come ti ho detto. Il footwork, che nell’ultimo anno si è sviluppato mutando in qualcosa d’altro, molto interessante. Un produttore di Bristol molto bravo, Ekoplekz. Stiamo pensando di far remixare un po’ di cose, da Goth Trad magari, da Vessel o qualcun altro del collettivo Young Echo, per stare in città. Stanno arrivando anche un sacco di dj interessanti dal Portogallo, il giro della Principe Discos ad esempio.
Hai nominato Hank Shocklee, artefice del suono classico dei Public Enemy e altro produttore che ha lavorato al vostro nuovo album. Come siete entrati in contatto?
Nel 2010, appena riuniti, siamo andati a suonare al South By Southwest. Il mio vecchio amico Dave Allen dei Gang Of Four mi ha contattato, mi ha detto che sarebbe passato e che avrebbe portato anche Hank Shocklee. Mi sono sentito come uno scolaretto che sta per farsela addosso, ho provato a far finta di niente ma ero emozionatissimo, non sapevo come gestire l’incontro con una persona così importante per me. Comunque sia, iniziamo a suonare e a un certo punto vedo questo tizio nero che fa headbanging, e che all’improvviso sale sul palco e comincia a stringermi la mano e ad abbracciarmi, “ragazzi siete grandi” e cose del genere. Era Hank. Siamo rimasti in contatto da allora, e ho pensato a lui per alcuni beat a cui stavamo lavorando. Ma di nuovo: non volevamo che riproducesse le stesse cose che faceva quando era ragazzo, e quello che ha fatto con quei beat per me è davvero… mi sono messo a fare headbanging pure io, anche solo con le strumentali. Se le senti in un bell’impianto… voglio che la roba del Pop Group regga il confronto in posti come il Berghain di Berlino, anche se… è un tipo diverso di musica, ma ha gli stessi bassi e gli stessi suoni della techno più pesante.
Vai molto a ballare?
Non sono moltissimo a Londra, ma la cosa bella dell’essere in giro a suonare è che… ricordo quando tanto tempo fa coi Maffia suonai a un grosso evento industrial a Chicago, con Ministry e Revolting Cocks. Dopo il concerto ero ancora gasatissimo, presi un taxi e chiesi di essere portato in qualche posto aperto fino a tardi. Finii in un bar piccolissimo dove c’erano tre persone, e stava suonando DJ Pierre!
Quando vi ho visti a Torino nel primo tour dopo la riunione, ricordo che a fine concerto ti sei precipitato in pista a ballare, e ci sei rimasto a lungo.
Per me è nutrimento, come quando al mattino per cominciare la giornata mangi una banana e dei cereali. Sono un beat freak, voglio sentire un ritmo, ci faccio Tae Bo e aerobica! Ogni musica è dance, non capisco come la si possa dividere fra dance e non dance. Elvis era dance! Alcuni dei migliori esperimenti attuali, comunque, vengono da quel mondo. Le cose su Diagonal ad esempio. Il bello è che appena contatto su Twitter qualcuno che mi piace, questo mi risponde “Oh, sono un tuo grande fan!”: in qualche modo, la gente sta prendendo spunto dagli esperimenti che facevamo con Pop Group e On-U Sound. Viviamo in un periodo molto simile: quello che provavamo a fare quando eravamo ragazzi nei tardi ’70, noi e una manciata di gruppi gruppi come Wire, Magazine, Gang Of Four o This Heat… ora c’è una scena mondiale di gente che fa esperimenti simili.
Pensi anche che la scena dance underground abbia dei valori artistici, sociali e politici in comune con quelli che furono i valori del punk?
Esattamente! Per come analizzo io la questione, specialmente nel controllo dei mezzi di produzione. Ho rivisto DJ Krust di recente, e mi sono ricordato di quando quei ragazzi avevano 16 o 17 anni e la drum’n’bass è esplosa: all’improvviso, l’etica do it yourself che cercavamo di applicare noi era alla portata di tutti, grazie agli sviluppi della tecnologia, si poteva fare tutto in casa con un laptop economico. Questo è il lato punk, controllare i mezzi di produzione, non dover cambiare ciò che vuoi fare per compiacere qualche corporation. La prima volta che andai a una serata techno, quando la cosa stava nascendo, pensai di essere capitato in un libro di William Gibson. Sentire quelle batterie meccaniche a volume così alto, vedere la gente… era strabiliante.
La scena dei primi rave in Gran Bretagna ha persino avuto delle leggi scritte apposta per fermarla. Cosa che il tanto ribelle punk non ha mai avuto…
Non solo qui, dappertutto. Non amano che la gente si riunisca e metta in discussione le cose. La cosa interessante nella Gran Bretagna dei rave, ma anche dei primi tempi della scena hip hop, a Bristol con Massive, Tricky e tutti gli altri, è che era una cosa di classe, era una guerra di classe. Prima del punk, solo i fighetti pieni di soldi potevano comprarsi un sintetizzatore. Dopo i Clash, tutti potevano comprarsi una chitarra usata da dieci sterline. O due giradischi e un microfono. Gli inizi dell’hip hop nel Regno Unito sono stati molto più egualitari anche di quelli del punk, e oggi abbiamo questi rapper eccezionali che arrivano dalle case popolari più toste di Parigi, o della Germania, della Spagna, che usano il rap come lingua franca per comunicare nel proprio linguaggio.
Immagino tu segua il grime, quindi.
Certo, seguo ogni genere di roba bassline, Stormzy è pazzesco! Penso che le radici di tutta quella roba tornino comunque indietro fino al dub: MC, microfono, soundsystem.
Tornando all’album: Dennis Bovell e Hank Shocklee, il dub e noise, il ritmo e il rumore, due stelle polari del vostro suono oggi come agli inizi. Perché avete scelto di fonderli, formando il Pop Group? Il punk stava diventando noioso e formulaico, e avete deciso di dirigervi altrove?
Siamo di una città abbastanza piccola, Bristol. Quando avevo 14 o 15 anni andavo a Londra, andavo nei negozi e vedevo i punk. Un mio vicino di casa aveva formato un gruppo, i Cortinas, e noi andavamo con loro quando suonavano al Roxy o in posti simili. Ma io ascoltavo un sacco di altre cose. A Bristol c’è una grandissima comunità giamaicana, andavo a ballare alle loro blues dance e nei club funk, ascoltavo James Brown e mi vestivo in maniera assurda, da primi anni ’50. Un giorno vidi una foto dei Sex Pistols, e notai che indossavano gli stessi maglioni in mohair e gli stessi pantaloni rosa che mettevamo noi per andare nei club funk. Pensai: “Hey, c’è un gruppo che si veste un po’ come noi ragazzini, non hanno la barba, non suonano sintetizzatori vestiti da Re Artù!” Ci ritrovammo in loro innanzitutto per ragioni tribali, estetiche. C’erano i Pistols, i Clash e i nostri preferiti Subway Sect, ma molto velocemente tanti altri cominciarono a suonarne una brutta copia, e la cosa era davvero non punk. Per noi il punto centrale del punk erano il cambiamento, lo sperimentare, il dubitare della politica, non potevamo essere un’altra di quelle band che copiavano. Decidemmo di buttare nel nostro suono ciò che sentivamo per strada a Bristol, il funk e il dub, ma non eravamo capaci a suonarli. Un giornalista di Londra scrisse che sembravamo i Can o Captain Beefheart, o un gruppo free jazz… senza capire che andavamo fuori tempo perché non sapevamo suonare!
Del nuovo album hai detto che “è una presa di posizione contro l’odio prefabbricato”. Cosa intendi?
Il discorso è legato all’idea di Noam Chomsky di manufactured consent. È il modo in cui il potere prova a banalizzare tutto e a nutrirsi di odio. Guarda la Brexit: non è un problema della gente normale, della working class, ma la si usa comunque, si tratta di divide et impera. Se le persone si incolpano reciprocamente, non guarderanno a quelli che realmente stanno cercando di fregarli e sfruttarli. È il concetto chiave di tutto l’album, e del suo titolo: ti svegli, guardi il mondo e ti chiedi se è davvero il tuo pianeta. E che cazzo sta succedendo. Volevo intitolarlo Wide Eyed in Babylon.
Come è stato rimettersi a lavorare insieme a quasi trent’anni dallo scioglimento?
Abbiamo avuto molto tempo per affilare i coltelli! La gente spesso non capisce che nei primissimi giorni del punk inglese era tutto molto conflittuale, andavi da uno e gli gridavi in faccia, come i bambini al parco giochi: “Le tue scarpe fanno cagare”, “Hai le orecchie enormi”, cose del genere. Io e Gareth siamo ancora cosi, quando ci vediamo ci gridiamo addosso, tipo cortile della scuola! Ecco, quel genere di umorismo è come se fosse rimasto surgelato per tutto questo tempo, e all’improvviso, quando siamo tutti nella stessa stanza, ritorna come un’esplosione. Il che non rende le cose piu facili, ma questa conflittualità e questi spigoli fanno parte di noi e di quello che facciamo. La cosa interessante è che non sai mai cosa succederà.
Avete sentito la necessità di reinventarvi, oppure avete capito che il vostro discorso classico era ancora rilevante, attuale?
È stato strano. L’idea di riformare una vecchia band non è proprio da Pop Group. Negli anni ce lo hanno chiesto in molti, ma abbiamo sempre riso e risposto che era un’idea stupida. Anche se siamo sempre stati amici e ci siamo sempre visti, a Bristol, con le nostre famiglie. All’improvviso Matt Groening, il tipo dei Simpson, che cura questo grosso festival, chiede a Iggy di riunire gli Stooges e a me di riformare il Pop Group. All’epoca stavo lavorando a un progetto su commissione con Kenneth Anger, Keith Levene e altri, e ho pensato: che c’è di male nel fare con Gareth e gli altri quello che sto facendo con questa gente? Perché penso che sia male? Perché invece non trattarlo come un nuovo lavoro su commissione? Ne ho parlato con Gareth, e lui mi ha detto di avere avuto delle idee per fare qualcosa di completamente diverso insieme a noi… è come un nuovo gruppo, insomma. Continuo a fare cose da solo, e cose con tanta altra gente, ma per me il Pop Group è come una radio pirata, ha quella integrità: abbiamo sempre fatto la musica che avremmo voluto sentire, e che non riuscivamo a sentire da nessuna altra parte. In realtà non andiamo d’accordo, ma non siamo mai andati d’accordo! Nel punk funzionava così. Il mio amico dei Cortinas mi chiese se conoscevo qualcuno che suonasse la chitarra, io gli parlai del mio compagno di scuola Nick Sheppard, che poi sarebbe andato anche nei Clash, e Nick entrò nel gruppo. Non c’erano altri musicisti in città. Chiesi a un amico di un’altra scuola se conoscesse un chitarrista e lui nominò Gareth, che era nella sua classe e sapeva suonare. Così venne alle prove, ma non lo avevo mai incontrato prima. L’altro chitarrista era l’unico chitarrista nella nostra area che avesse i pantaloni a zampa d’elefante… prendevi le persone nel gruppo per le scarpe che avevano, non perché ti piacessero! E niente barbe! Ma poi prendemmo Dan, il nostro secondo bassista, proprio perché aveva la barba. Pensammo che la barba sarebbe stata strana. Ma ora si è rasato.
Nel 2017 saranno passati quarant’anni dalla vostra formazione. Cos’altro ricordi del Pop Group del 1977?
Saltare su e giù, ballare, mi dà un’enorme energia. Un bel disco di James Brown, o del primo David Bowie… quando lo metto su è come cibo. Volevo riuscire a ottenere la stessa energia con qualcosa di interessante sopra, non solo auto e ragazze. Non cosa è giusto o sbagliato, ma argomenti a cui sono interessato, altri nutrienti per il cervello. Pensavo di poter fare il giornalista, o lo scrittore, ma che con la musica le idee potessero essere trasmesse meglio. E ora il Pop Group nel mondo è diventato una sorta di chiesa per i freak. Da giovane per me era lo stesso, quando andavo a vedere i Throbbing Gristle: forse non erano la mia band preferita, o non li ascoltavo ogni giorno, ma sapevo che là ci sarebbe stata della gente interessante, sarebbe stato come un rifugio. Ricordo nostri concerti dell’epoca negli Stati Uniti, nel Midwest, con ragazzi che venivano a dirmi: “Sai Mark, ascoltare le vostre canzoni ci fa sentire come se non fossimo gli unici freak in città.
Questo è il valore più importante del punk, l’essere un porto sicuro per i freak, che lì possono essere liberi di esserlo. Quando diventa un insieme di regole, allora qualcosa non va. Ed è anche la ragione per cui, per me, il punk siete voi e le band vostre contemporanee che hai citato, anche se siete state etichettati come post punk. Perché siete andati avanti, mentre i gruppi punk restavano fermi.
Vero, anche perché la roba punk originale in Gran Bretagna era molto simile al pub rock, le band suonavano lo stesso tipo di roba alla Chuck Berry che suonavano i gruppi pub rock. E non lo dico in senso negativo, perché era roba piena di energia. In America invece Patti Smith, Richard Hell, Suicide… quella era roba veramente out there.
Era così comune, crescendo in una citta inglese di media grandezza, venire in contatto con i suoni della comunità nera?
La famiglia di mia madre era originaria della campagna, si era trasferita in città da un piccolo paese. Non avevano molti soldi, e avevano trovato casa a St Pauls, un quartiere dove gli affitti costavano di meno, una specie di ghetto bianco. Poi arrivarono i giamaicani: la compagnia degli autobus urbani di Bristol aprì addirittura un ufficio per le assunzioni a Kingston, perché da noi c’era carenza di manodopera nei primi anni ’50, a causa della guerra. Quando arrivarono erano molto eleganti, vestivano zoot suits degli anni ’50 e si lucidavano le scarpe, e mio nonno li considerava dei gentiluomini. Andava a stringere loro la mano, perché la gente che conosceva lui non si lucidava le scarpe! Anche le scuole in città erano molto miste, e la cosa bella di Bristol è che c’erano solo uno o due locali notturni, tutti dovevano andarci: neri, bianchi, asiatici, giovani, vecchi. Il nostro suono non è un ideale utopico: a Bristol non vedevo la razza, non vedevo uno come nero o asiatico, e non vedevo nemmeno troppe differenze di classe, perché è tutto misto, si cresce tutti insieme in un misto di gente molto diversa. Non ho nemmeno mai visto la cosa in termini di ragazzi e ragazze.
Dopo lo scioglimento del Pop Group, nel 1981, avete tutti suonato in progetti e gruppi diversi. Hai seguito quello che facevano gli altri? Ti piaceva?
C’è un problema con il telefono, non ti sento! (risate) È interessante la maniera organica in cui ci siamo sparsi, e dove l’energia sia andata. Eravamo a New York a suonare con i Gang Of Four, al Danceteria. Sentii l’hip hop e immediatamente decisi che avrei voluto fare qualcosa con musicisti del genere, quindi cercai Keith LeBlanc e gli altri. Non lo vedevo come un progetto diverso, per me fare qualcosa è fare qualcosa, non importa con che nome. Tutti pensano che una band sia sacra, per me è solo fare qualcosa, l’importante è quello che dico.
Hai citato i musicisti che sono diventati la house band della On-U di Adrian Sherwood, e il cuore del suo suono. Ritengo che non siano considerati come dovrebbero, avendo creato qualcosa di completamente nuovo. Di loro che mi dici?
Quando ero piccolo c’era un gruppo strumentale giamaicano chiamato The Revolutionaries, che poi diventarono i Roots Radics, e il loro batterista era Style Scott. Andai a sentirli in un club a Bristol quando avevo 16 o 17 anni, accompagnavano Tappa Zukie, e sentire Style suonare fu per me fu come deve essere per i buddisti quando fanno i mantra, era ipnotizzante, potente. A New York risentii quel drumming alla radio, dovetti trovarlo e lavorarci insieme, ero come in pellegrinaggio, e lo stesso vale per Keith LeBlanc e gli altri. Sono dei maestri, dei maestri. Poter lavorare con loro è per me una benedizione. Ma posso farlo con tanta altra gente interessante che incontro quando vado in tour: c’è una band italiana con cui ho fatto amicizia ad esempio, i Tribuna Ludu, faremo anche dei concerti insieme in Italia. Per me è un piacere, è come quando la gente va nella giungla e scopre degli animali strani. È come un esplorazione, e mi nutre, nutre l’anima.
È bello che per te una band italiana quasi sconosciuta e Keith LeBlanc o Style Scott siano sullo stesso livello…
Esatto, esatto! Una delle migliori esperienze della mia vita fu quando, da ragazzo, finita la sucola, incassai un paio di assegni della Social Security e con degli amici comprammo un furgone usato. Guidammo fino a Joujouka, in Marocco, per andare a sentire i Master Musicians. Senza soldi, con diesel agricolo nel serbatoio e vivendo di pane. Fermi ai bordi del deserto, a un certo punto arriva questo tipo senza denti con la sua capra. Aveva visto il furgone fermarsi e si era avvicinato, per offrirci un pezzo del suo melone. Io me ne stavo lì in pantaloncini sotto un sole micidiale, lui non disse nulla.