Tra il 16 e il 23 ottobre siamo stati a Cracovia per Unsound 2016. Ne siamo rimasti assolutamente affascinati.
A dieci anni dalla sua prima edizione, Unsound è uno dei più interessanti e multidisciplinari festival presenti in Europa, oltre ad aver offerto a Cracovia la possibilità di emanciparsi e di divenire una città europea con la “E” maiuscola. Una città dall’anima forte che ha dovuto attraversare invasioni, nazismi e comunismi, una città che oggi ci offre l’opportunità di scoprire l’avanguardia sonora della scena sperimentale internazionale, ma anche diversi approcci e visioni di sguardi provenienti da capi opposti del mondo.
“Dislocation”, il tema di quest’anno, è portatore di diversi significati, in primis il rapporto fra centro e periferia. Un rapporto contorto, problematico ma motore per nuovi landscape artistici e movimenti culturali. E in un momento storico nel quale il sistema vuol renderci ancora divisi come comunità (vedi la Brexit) e dove si ergono muri su muri (come a Calais), l’importanza della potenzialità di dislocazione umana e della congiunzione dell’essere te stesso e tutti nel mondo. Non etnocentrismi, non egoismi ma cultura a trecentosessanta gradi.
Questo è il motivo delle varie collaborazioni che hanno attraversato, superato confini e dogane culturali. Unsound 2016 è un incontro pan globale. Un patto di sangue fra paesi lontanissimi, senza confini e barriere di genere.
I diversi lavori commissionati quest’anno a molti artisti della scena inglese fanno capire lo stretto rapporto fra quest’ultima e la scena polacca. Un Inghilterra che deve molto alla Polonia. Buona parte degli inglesi di oggi sono di origine polacca. Una Gran Bretagna che si è sempre travestita da libertà, ma che ad oggi nel 2016 ci ha mostrato il suo lato più conservatore e xenofobo.
Un’interconnessione fra Africa, Asia e Europa. O forse ciò che resta dell’Europa. Ormai impaurita, unita solo nel rivendicare i propri confini e la propria porzione di terra.
Unsound è un terreno fertile di concatenazione sonica e culturale. Si attraversa l’arte, la politica, si parla di costruzione dell’identità e dalle nuove connessioni create dalla rete, una molteplicità di possibilità di apprendimento. Dalle giornaliere e mattutine conferenze ai workshop, dalle proiezioni di film, alle listening station presenti nei vari caffé e ristoranti sparsi per la città. I live pomeridiani spesso gratuiti e in venue meravigliosamente assurde, come la vecchia fabbrica di tabacco situata nel quartiere ebraico fra vecchie botteghe di merceria e second-hand shop. O come l’89, vecchio club che durante il regime comunista porta il nome di Crazy Dragon e che più tardi prende il nome di Paradise, divenendo poi uno strip club chiuso nel 2002 e riaperto solo ora che nasce nei sotterranei dell’hotel Forum, albergo abbandonato costruito nel 1976 accanto al fiume Vistola. Edificio di un brutalismo alienante. Lampadari futuristici, moquette con pattern fine anni settanta e pannelli di legno su i muri. Luogo dove la notte si esibiscono la maggior parte degli artisti. Nel lato esterno di questo immenso edificio un enorme cartellone pubblicitario promuove uno spazio polifunzionale per la creazione di star up al motto: ”Don’t be a corporate slave”. Impossibile da non notare e commentare. Devo dire un buon promemoria per ogni inizio serata, ma a dir la verità anche per la vita.
Il martedì sera al Manggha Museum inizia la serata “Rapture” aperta da Xylorius con la collaborazione del batterista dei Dirty Three, Jim White. Un live dalla sonorità post punk accompagnato dalla voce profonda del maestro cretese del Liuto: George Xilorius. A permeare l’atmosfera di rituale spiritualità la performance di Stara Rezka con la band tajika di Samo creando un legame sonico fra Tajikistan e Polonia. Un incontro fra la musica tradizionale delle Pamir Mountains ed elementi di sperimentazioni acustiche con strumenti a corda.
Aisha Devi con il suo accelerazionismo e magnetismo affascina e rapisce a livello visivo. Ma superando il primo stupore del tuo occhio ti accorgi immediatamente dei forti influssi pop e dub-step troppo mainstrem e scontati.
Dislocated Visions propone vari film durante gli umidi e piovosi pomeriggi. In pieno centro, all’interno di un austero ed elegante edificio del Novecento si trova il cinema: Kino Pod Baranami. ”Bight of the Twin”, diretto da Hazel Hill Mc Carthy, è un documentario sul percorso intrapreso da Genesis Breyer P-orridge fondatore di Throbbling Gristle e Psychic TV e il regista ed artista Americano Hazel Hill Mc Carthy. Un viaggio che narra l’esperienza di ricerca di Genesis P Orridge sul tema del gender che, immergendosi nella religione del Voduun, cerca di contestualizzare la sua sessualità o per meglio dire Pandrogenia, il progetto attuato con la seconda defunta moglie Jacqueline Breyer, “Lady Jaye”. Il Pandrogeny Project prevedeva la creazione di un solo ed unico essere trascendendo i due gender, un essere in grado di nascere tramite i numerosi interventi chirurgici. Così Genesis e la moglie hanno cercato di rendersi identici, mossi dalla unica e sola volontà di coesistere in una sola identità.
Il documentario si espande in un racconto della festa dei gemelli a Ouhida nel Benin, luogo statisticamente con la maggiore coincidenza di nascite di gemelli al mondo e dove vengono venerati come divinità. Genesis si immerge in un culto spiritico di invocazione del morto che oltrepassa la separazione fra il mondo dei vivi e il mondo altro.
Un altro film degno di nota è il ”Negus” starring Lee Scratch Perry, prodotto dalle interessanti menti di Invernomuto, duo di artisti italiani composto da Simone Trabucchi e Simone Bertuzzi. Il film interpreta il legame tra Italia e Etiopia attraverso le vicende della guerra d’Abissinia e dell’ultimo imperatore etiope Haile Selassie: Negus Neghesti. Imperatore che vede il suo territorio invaso dai fascisti nel 1935. Una storia assurda di invasioni e violenze, di militari fascisti italiani che tornati sconfitti dalla guerra in Etiopia usano il termine Negus negativamente, indicando il nemico negro africano. Storia e magia si incontrano intrecciandosi in un documentario affascinante, quasi onirico. Ancora dislocati ci si muove tra Vernasca in Lombardia, luogo di origine dei due autori, Etiopia patria del rastafarianesimo, fede religiosa che si pone come erede del cristianesimo e Jamaica dove i sound system sono nati e con essi anche la fede per le basse frequenze.
Il siriano Rashad Becker è riuscito a fare diventare l’Ice Congress Center un sogno di stridenti corde. Solo lui le macchine e una nuvola di fumo sul palco. Profondo, un suono che arriva dritto dentro, ti stritola il cuore mentre scende nelle tue viscere. Sinapsi rapite da una giungla di suoni tormentati. Una storia di animali immaginari che comunicano fra loro con suoni cacofonici e angusti. Gli arti storditi riescono solo a percepire a livello dell’epidermide le vibrazioni insinuatesi densamente tramite le armoniche multisonanti. La struttura ritmica a tratti astratta si frantuma per poi ricostruirsi attraverso ripetitivi battiti di organi a quaranta hertz.
Il mercoledì sera la cucina dell’Hotel Forum si è tinta di un rosa sensuale. Per la prima volta ha aperto le sue porte, spogliata di tutta la sua mobilia per dare il benvenuto a The Cloud, serata all’insegna dell’escursione guidata dal collettivo underground Messicano NAAFI della scena berlinese post-genere. Fausto Bahia, Mexican Jihad e Mobile girl. Divertenti e curiosi. Un continuo spaziare fra condombe, R’n’B, reggaeton e kuduro con accenni breakcore quasi gabber.
Kafr, progetto che vede il musicista libanese Rabih Beaini manipolare la sua 808 e il duo indonesiano Senyawa Rully Shabara e Wukir Suryadi con i loro strumenti tradizionali preparati. Un set fatto di improvvise dissonanze, voci strazianti intarsiate da suoni black metal e harsh-noise. Striduli e acerbi, duri e nudi. Un improvvisazione disperata, uno scontro fra le sonorità indonesiane e le illogiche destrutturazioni ritmiche di Rabih.
In the Mouth of the Wolf, il nuovo progetto formato da Ancient Methods e CindyTalk, è un vero pugno nello stomaco. Una commistione abrasiva, industriale fredda e acciosa. Hanno contribuito a rendere i giochi di luci dei lampadari futuristici dell’Hotel ancora più alienanti e distaccati. Come in una festa delirante dentro la hall di un vecchio albergo. Una mano ghiacciata sulla tua calda schiena.
Nella Room 2 il dj giapponese Fulltono con Traxxmann, uno dei maggiori esponenti della Chicago Juke. Un back-to-back veloce tra la ghetto house, natural funk e ghetto tech.
Venerdì pomeriggio. Piove. Nella ex fabbrica di tabacco l’atmosfera è crepuscolare e conturbante. Lo stanzone oscuro diviso da varie colonne viene vagamente illuminato da una luce proveniente dall’esterno. La luce fucsia disegna un’aurora boreale. Mesh lì, impegnato con le sue amate macchine. Un live destrutturato e destrutturante. Talmente astratto da perdersi in mille frammenti di particelle sonore. Il suono traghettato da atmosfere cinematiche e campionamenti shi-fi si interseca con bassi subacquei. Lamiere e car crash come nel film di Cronenmberg.
Demdike Stare, duo inglese composto da Sean Canty e Miles Whittaker uno dei migliori produttori dub in circolazione. Sono stati capaci di tenere la tensione altissima con un set potente in grado di far volare i tuoi piedi da terra. Una miscela esplosiva di bass-music scurissima, tratti acidi e forti connotazioni jungle.
Miss Red e The Bug rendono la Room 2 una nuvola rossa esponendoci alle loro bass frequency più oscene. Siamo in uno scantinato a Tokyo, perduti e danzanti. Bassi da farti rigirare le budella, dub, bashment, noise sonic weapons. L’incontro di questi due artisti è così perfetto da essere innaturale. Uno sposalizio raro fatto di ritmi bassi e pesanti.
Venerdì sera a Londra vuol dire D’n’B e Micachu, da brava inglese, lo sa bene. Raw D’n’B, jungle e R’n’B. La giovane cantante dj e producer ha fatto letteralmente vibrare la folla della terza sala.
Sabato pomeriggio l’Ice ospita Fracture: performances che attraversano il tema delle barriere e dei confini geografici attraverso suono, corpo, luce e video. L’artista della PC Music, Felicita, performa con l’acclamato gruppo di danza polacco ”Śląsk” guidato da Stanislaw Hadyna presentando ”Soft Power” con un ligth show della scozzese visual artist Florian To. Una performance cross border che crea un’esperienza ipnotica attraverso il corpo e il suono. Esploriamo le culture folcloristiche le identità nazionali, il branding e la farsa.
Forest Sword la sera del sabato presenta il suo nuovo album. Già sentito all’Atonal e anche lì, nell’immensa sala del Kraftwerk, mi aveva lasciato un po’ di amaro in bocca (e non è quello che state pensando). Mi aveva vagamente affascinato con i suoi visual romantici e floreali e con quella colonna luminosa che tracciava e delineava il perimetro di ascolto. Morale? Il mio pensiero non è mutato. Le mie orecchie si trovano dentro ad un live insensato e mellifluo, con suoni inutili triti e ritriti. Un bicchiere di vodka liscia al bar, mentre ascolto la giovane Toxe e i suoi beat hip hop e house, è di gran lunga più preferibile. Ma anche lei non convince pienamente, così corro a sentire i Raime, questa volta in tre sul palco. Ad accompagnarli una batteria acustica ipnogena. Un live siderale scarno, essenziale ma potente e il tutto amplificato da sound system grossi come case.
J. D. Twich (Optimo) con il suo live tributo a Muslimgauze ci ha catapultato nel 1996. Overdub, noise e medioriente. Ritmiche ipnotiche e disorientanti. Un set quasi commuovente.
E ora arriviamo a lei. Paula Temple. Un’ora di set tutto sotto i quaranta hertz, roba che con un impianto qualsiasi sarebbe stato impossibile l’ascolto. Un esperimento sonico ad infrasuoni, il suo nuovo album ”DIS.INTEGRATION”. Infrasuoni capaci di farti vibrare lo sterno e le tempie. Il suono diventa fisico e tattile tanto da avere la capacità di spostare i corpi. Non tutti ce la fanno, a fatica riusciamo a percepire ancora le alte frequenze, i sub sgretolano gli high hats rendendone polvere.
”Paleta”di Kamixlo risuona altisonante nei corridoi dell’hotel. La traccia più seria del produttore di origine messicana fondatore del collettivo Bala Club, una bella novità dalla scena underground londinese. Kindomba sporca di accenni industrial, break-core, reggaeton latina.
Sette giorni di scoperte, nuovi mondi e piani da esplorare. Lecture estremamente interessanti a prova di hangover, sound system capaci di scaldare i corpi.
È incredibile come sia reale ed immediata la volontà di Unsound di mostrare, spiegare, condividere. Spazi usati intelligentemente a favore della conoscenza e per la musica.
Uscendo dalla narrativa convenzionale, Unsound riesce ancora una volta a raccontare il proprio mondo sonico accostando progetti transfrontalieri provenienti dai poli opposti della terra. Una piattaforma culturale, un punto di riferimento per la musica sperimentale espansa che viaggia verso confini transnazionali. Il senso di comunità e le emozioni condivise sono alla base di questo progetto che non si chiude in Polonia. Aggregazione, cultura, curiosità e forza di volontà vanno oltre qualsiasi barriera socio culturale. Si stringono legami che si rafforzano nel tempo diventando solidi in un mondo ormai liquido. Dislocazione, oltrepassare i propri confini e condividere con l’altro lo spazio che ci circonda creando connessioni cerebrali, culturali e sociali.