“La varietà di ascolti è la nostra forza, perché ci permette di non rimanere influenzati esclusivamente da un preciso genere ma da una miriade di suoni.”
Gli Elektro Guzzi sono tornati! I viennesi Bernhard Breuer, Bernhard Hammer e Jakob Schneidewind in questo 2016 hanno dato alle stampe il loro quinto album in studio chiamato “Clones” mantenendo fede alla formula, singolare quanto efficace, di “live techno” o, meglio, di musica elettronica suonata dal vivo con il solo ausilio di chitarra elettrica-basso-batteria. Ma c’è dell’altro, perché i tre austriaci hanno recentemente mutato il loro approccio alla composizione, proseguendo in un’evoluzione stilistica che non smette di affascinare. Abbiamo avuto l’occasione di intervistare Jakob a tre anni di distanza dall’ultima volta riannodando i fili del tempo ma anche riflettendo sul loro preciso qui e ora.
L’ultima volta che vi abbiamo intervistato era il 2013, prima dell’uscita del vostro terzo disco “Circling Above”. Quante cose sono cambiate da allora?
Il nostro è un percorso in continuo divenire, intendo anche tra il primo e il secondo album, così come tra “Parquet” e “Circling Above” e così via. E’ come se avvenisse una sorta di crescita che riguarda sia noi tre come gruppo che a livello di singoli musicisti alle prese con il proprio strumento. Ma non si tratta di un percorso a tappe quanto piuttosto di un’evoluzione progressiva. Il nostro passato musicale viene assimilato e rielaborato di continuo, come se guardassimo la nostra musica ogni volta da un’angolatura diversa. Nel caso dell’ultimo disco, “Clones”, ci siamo concentrati sulla composizione vera e propria dei pezzi e quindi per la prima volta nella nostra storia l’album non è nato dall’improvvisazione. Ognuno di noi ha buttato giù le proprie idee su carta e poi le abbiamo confrontate, trovando una mediazione in fase di scrittura musicale. E’ stata un’esperienza magnifica, che ci ha permesso di chiudere l’album in anticipo rispetto ai tempi ai quali eravamo abituati.
Come mai pur provenendo dall’ambiente del conservatorio avete deciso solo ora di lavorare compiutamente sulla scrittura dei pezzi?
Per via del nostro percorso artistico, sapevamo già scrivere un brano sul pentagramma ma i nostri studi hanno riguardato principalmente la musica jazz e l’improvvisazione, anche legata ai nuovi modi di fare musica. Quando ci siamo conosciuti avevamo voglia di sperimentare e di lasciarci andare completamente all’improvvisazione. Anche dal vivo ci presentavamo senza alcun settaggio prestabilito, in modo del tutto libero. Certe volte andava bene, altre eravamo meno soddisfatti. Pian piano ci siamo accorti che avere una traccia più definita, con appunti anche minimi sul “dove” condurre la nostra musica, era assai utile. Quindi, gradualmente, abbiamo inserito elementi pre-stabiliti e settati secondo necessità sia per le esibizioni dal vivo che in studio. Ed eccoci arrivati al nostro ultimo album in cui la scrittura dei pezzi è stata la vera sfida.
Da dove traete ispirazione per la vostra musica?
Dalla vita in generale e poi da ciò che ascoltiamo tutti i giorni. I nostri gusti sono estremamente vari, negli ultimi tempi siamo molto dentro alla discografia di Barry White ma ci siamo appassionati anche alla musica africana. In particolare i suoni tradizionali dell’Africa ci hanno ispirato nella composizione dei nostri ultimi due album in studio. Nel caso di “Clones” queste influenze possono essere percepite dal timbro della batteria, volevamo ricreare quel particolare senso ritmico che hanno le produzioni suonate con strumenti tradizionali. Inoltre continuiamo ad ascoltare molto la musica elettronica, techno principalmente, ma anche altre sonorità connesse al blues oppure a quella che oggi viene definita “modern classical music”. Questa varietà di ascolti è la nostra forza, perché ci permette di non rimanere influenzati esclusivamente da un preciso genere ma da una miriade di suoni.
C’è stato un momento in cui avete compreso che come band le cose stavano davvero andando per il verso giusto?
Suoniamo in questa formazione dal 2007, quindi l’anno prossimo festeggeremo i dieci anni assieme. Abbiamo capito che le cose stavano funzionando proprio nel 2010, quando uscì il nostro debutto discografico, che fu anche il frutto della nostra prima collaborazione con il produttore Patrick Pulsinger, al quale siamo molto legati. Lui riesce a mettere bene a fuoco tutte nostre idee. Ricevemmo ottimi riscontri sia da artisti e dj che dal pubblico. Fu il nostro momento cruciale, quello in cui prendemmo coraggio e consapevolezza sui mezzi a nostra disposizione.
Nella precedente intervista ci avete detto di non essere interessati al “come” certe sonorità vengano prodotte ma piuttosto al risultato finale. E’ ancora così?
Sì, oggi possiamo aggiungere che badiamo a più aspetti connessi al delicato equilibrio tra intrattenimento e forma d’espressione. Cerchiamo di bilanciare le diverse componenti del nostro suono per far in modo da non risultare né noiosi e né troppo tecnici. Allo stesso tempo vogliamo esprimerci nel modo che riteniamo artisticamente più valido. Poi un ragionamento vero e proprio non può essere fatto, quando per esempio saliamo su un palco molto dipende dalle nostre sensazioni, dal set-up, dal pubblico, quindi ci si lascia andare e via.
Nel 2015 è stato dato alle stampe un disco dove voi remixate un pezzo di Kink e viceversa. Com’è andata?
E’ stato molto stimolante lavorare su un pezzo già edito, “Vodolaz” di Kink, ed è stato un onore essere a nostra volta remixati da lui. Ci piace l’idea di realizzare dei remix, dovremmo impegnarci a farne altri in futuro. Comunque abbiamo intenzione di collaborare ancora con Kink o perlomeno di suonarci assieme in occasione di prossimi concerti della nostra label.
La vostra etichetta è la “Macro” di Stefan Goldmann e Finn Johannsen, che consideriamo uno degli scrigni più preziosi nella musica elettronica oggi. Ci raccontate com’è vissuta dall’interno?
E’ fantastica! Ci sentiamo molto fortunati a stare con loro fin dai tempi del nostro debutto. Oltre ad essere un ambiente stimolante ci ritroviamo spesso a suonare assieme a nostri colleghi oppure con gli stessi Stefan e Finn. Poi ci lasciano molta libertà nel percorso artistico e questa è una cosa importante per ogni produttore. Il loro sostegno arriva in fase di masterizzazione e poi in quello successivo di promozione. Naturalmente sono anche disponibili a supportarci su specifiche richieste, quest’anno per esempio avevamo molte più canzoni rispetto a quelle poi finite sull’album. Ci hanno aiutato a scegliere le più adatte, in alcuni casi un orecchio esterno è fondamentale.
Mi parlate di “Clones”? Dentro ci sento più dub del solito.
Sai, potresti avere ragione. Oltre che scrivere tutti i pezzi e improvvisare meno abbiamo anche lavorato maggiormente in fase di post-produzione, dando in studio quel senso di spazio ai brani che solitamente si sente nel dub. E’ una cosa che facevamo anche prima, ma magari questa volta è meno in secondo piano. Poi c’è questo senso ritmico del quale ti parlavo prima, che rimane techno ma si rifà anche ai suoni tradizionali. L’amore per l’Africa credo si senta più che in passato.
Cosa ne pensate della scena elettronica contemporanea?
Per noi è fonte di continua scoperta, più si cerca affondo e più affiorano progetti interessanti. Credo che ci sia anche più varietà di suoni rispetto al passato. Ci affascinano le micro-scene connesse ai diversi luoghi d’Europa e del mondo, cerchiamo quei suoni che possano allargare i nostri orizzonti, quando orecchio e mente captano nuove vibrazioni accade qualcosa di unico. Per farti un esempio nella sola scena inglese abbiamo trovato irresistibili le ultime produzioni di Randomer, Floating Points e James Holden.
E per quanto riguarda la scena austriaca?
Seguiamo con interesse Koenig, Sixtus Preiss, Raidan e Fennesz.
Vivete ancora a Vienna?
Sì, abbiamo valutato la possibilità di trasferirci altrove, magari a Londra o Berlino, ma preferiamo vivere in un contesto familiare, con i nostri cari, anziché in città più grandi dove avremmo sicuramente più distrazioni. Vivere a Vienna è ok, la vita non costa molto ed è un contesto che comunque ci stimola, c’è una buona scena culturale.
Cosa vi piace oltre la musica?
Nulla (ride ndr). Ci sentiamo fortunati perché riusciamo a vivere con la musica che facciamo e quindi non siamo assorbiti da altro se non dalle nostre famiglie. Suoniamo tanto, comunque, e questo ci permette di pagare le bollette.
Tornerete anche in Italia. Ci dite le date?
Il prossimo 30 novembre saremo a Bolzano al Sudwerkclub, poi faremo altre cinque tappe italiane: 1 dicembre – Circolo Magnolia, Milano; 2 dicembre – Deposito Pontecorvo, Pisa; 3 dicembre – Lanificio 25, Napoli; 4 dicembre – I’m Lab, Abano Terme (PD); 17 dicembre – Urban Club, Perugia.
Ci lasciate con una manciata di vostri pezzi che sentite di suggerire a chi non vi conosce?
Solitamente i primi pezzi dei nostri album sono quelli che sintetizzano al meglio l’umore dell’intero disco. Quindi posso consigliare a chi non ci conosce l’ascolto di “Room” tratta da “Clones”, ma anche di “Affumicato” da “Parquet” o “Hexenschuss” dal disco di debutto “Elektro Guzzi”. Quando dobbiamo scegliere i singoli dei nostri album impieghiamo sempre molto tempo ma poi la scelta spesso ricade proprio sulla traccia di apertura o comunque su una delle prime in scaletta. Auguriamo ai vostri lettori un buon ascolto!