Lo ha annunciato un web impazzito e assatanato, che ha regalato clamorose sviste e la solita concomitanza di news sbalorditive, accompagnate dagli immancabili fake del pezzo. Con le prime luminarie natalizie ecco, ancora una volta, anche la nuova uscita “corta” di Burial.
Due pezzi che continuano ad indagare la svolta o, se vogliamo, il cambiamento intrapreso con “Rival Dealer” di cui faceva parte l’eterea “Come Down To Us”.
Del vecchio Burial, in questa nuova uscita, rimangono solo i campioni vocali manipolati e quella sensazione di ruvidità e sporcizia che è da sempre il suo marchio di fabbrica. Le ritmiche 2-step sono solo ormai un lontano ricordo, accantonate forse perché abusate, a favore di situazioni no-beat (“Nightmarket” soprattutto) e colpi techno (“Young Death”) vicini all’ultimo Jon Hopkins.
Il lato melodico della faccenda (se di melodie vogliamo parlare) è invece di fatto terreno di esplorazione e ispirazione (propria e verso gli altri); i campioni, come detto prima, rimangono sporchi e allo stato grezzo in quanto praticamente non lavorati, ma suonano come spilloni appuntiti e dolorosissimi andando a creare quell’atmosfera tra il reale e l’incubo: urbano e urbanistico, severo e spezzato, sacrale in qualche modo, per il quale come immagine potrebbe funzionare il convento di Santa Maria de la Tourette, capolavoro architettonico di Le Corbusier, il più etereo e celebrale degli incubi, un sogno oscuro ormai perfettamente porzionato da decine di video games giapponesi di cui Bevan fa largo uso.
In questo ragionamento, l’uso del sample di Mike Oldfield (genio assoluto che è andato ben oltre “Tubular Bells”) è assolutamente magnifico; geniale quello del volatile preso da “Legend Of Zelda” che va a tracciare un forte senso di appartenenza e di stile di vita.
Due tracce per un totale di meno di quindici minuti di emozioni che, è vero, forse non aggiungono molto alle uscite precedenti, ma che possono dire tantissimo per due ragioni. Il primo: Burial non comunica in modo “convenzionale”, non concede interviste non usa i social (Dio lo benedica), ma lascia che siano la musica e un semplice titolo a fornire le spiegazioni che ricerchiamo. Il secondo: per quanto in molti ci provino, questa suo modo di trattare semplici sample e cucirli tra loro in una traccia che, nel giro di pochissimi minuti nasce, si evolve, muore, rinasce per poi morire definitivamente, viene bene esclusivamente a lui; non c’è imitazione o comparazione che tenga.
Piacevole o meno, Bevan riesce sempre a non essere scontato e soprattutto ad essere discutibile come ogni forma d’arte. Inutile dire che aspettiamo con trepidante attesa l’uscita di un eventuale album; hype e isterie che lo procedono un po’ meno, ma temiamo sia parte di un personaggio che sembra sempre più votato ad oracolo più che a un normale produttore di musica elettronica.