Musicare le scene di un film non è mai facile, soprattutto se il film in questione è “Solaris” di Andrej Tarkovsky.
Commissionato dall’Unsound Festival nel 2010, ha visto Ben Frost e Daniel Bjarson esibirsi su i palchi di mezzo mondo accompagnati dalle varie orchestre e sinfoniette; presentato a New York, Berlino, Reykjsvik, Brussels, l’Aia, Krems e Adelaide, domenica scorsa è giunto infine all’Auditorium Parco della Musica di Roma.
I due artisti con il progetto “Music For Solaris” hanno dimostrato come il loro musicale mondo interiore sia ancora più flessibile e completo. Performance nata dall’insoddisfazione della colonna sonora di Eduard Artemyev e aiutati dal contributo artistico di due grandi sound-artist: Brian Eno e Nick Robertson con le loro manipolazioni, trasmutamenti e rielaborazione di immagini hanno contribuito ad incarnare il peso emotivo del film, dove elementi futuristici si contrappongono ad una narrativa familiare. Il mondo interiore che prende voce dispiegandosi all’interno dei tuoi occhi. Il lavoro, creato tramite un software per la correzione della musica, è nato da una serie sequenziale di processi per mezzo di crivellazioni ed orchestrando errori umani.
Viscerale e fragile, una delicatezza quasi inumana data da ventinove archi, mentre il tamburo militare limita e scandisce il tempo ansiogeno. La cassa armonica della chitarra fa spazio ai suoni grezzi del computer di Frost mentre il piano di Bjarson dà un tocco umano e frangibile al suono che muore e rinasce nelle corde degli archi del Santa Cecilia. Un attenzione spasmodica per struttura armonica e tonale; quando l’estetica classica fa all’amore con la modernità. Le calde sonorità si assemblano mediante suoni siderali, rincorrendosi attraverso le onde sonore delle chitarre elettriche si incontrano nell’armonia visiva e cromatica delle immagini.
La perfomance prende vita tramite le immagini ritratti di tre volti, mutando e ricreando l’un l’altro dalle proprie ceneri grafiche. Il volto del protagonista Kelvin, si fonde con quello del pilota Burton, che man mano si vanifica per delimitare i tratti somatici di un bambino. La prima persona che incontra prima di recarsi sul pianeta Solaris è proprio l’ex pilota Burton, che lo informa delle condizioni del pianeta. Racconta di aver incontrato un bambino, personaggio chiave in questo progetto.
Il bambino rappresenta la purezza della conoscenza, ma soprattutto rappresenta appieno la coscienza di Kelvin: il ragazzino che nelle ultime scene del film accende un fuoco sulla nave facendo dei suoi ricordi un falò; come all’inizio del film quando il protagonista in casa paterna prende tutti i suoi ricordi raccolti, foto, libri e lettere e se ne disfa bruciandoli.
Materializzare in musica le angosce dei protagonisti, conferendo vitalità ai loro fantasmi alle loro paure rendendoli tangibili e materiali ed è proprio questo che quest’ensemble di artisti ci ha donato.
Il tocco distintivo di Brian Eno rapisce e affascina con i giochi di colori con cui si diletta spesso nei suoi progetti visivi. Flussi continui di colore vivo dal rosso sovietico al giallo acido al verde dell’ultima scena. La fluente rincorsa cromatica rende le immagini vivide e fluide, il ritmo quasi immobile delle scene del film vengono spogliate della loro reale essenza conferendogli dinamismo e dando un input emozionale alle singole immagini. L’isolare i singoli elementi sottraendoli ad una vera e propria sequenza narrativa di volti umani criogenizzati e raccolti dalla tua retina.
È stato il colore verde lisergico a chiudere questa performance, un colore che rimanda subito ad una moderna concezione di alieno ma anche di virtuale, ormai unico elemento permeante e collante della nostra società liquido moderna.
Solaris non è il pappone filosofico a cui molti di voi hanno paura di assistere, ma un racconto dell’uomo, una giustapposizione fra arte e tecnologia, fra umanità e ferocia, infinità e limitatezza, il dolore e l’amore, dove l’arte diventa simbolo universale per arrivare alla conoscenza. “Attraverso l’arte l’uomo si appropria della verità tramite l’esperienza soggettiva“, sosteneva Tarkovsky, e penso che anche i due produttori hanno fatto tesoro di ogni singola parola di questa frase.
Un racconto di fantacoscienza, dove i due produttori hanno dato un valore aggiunto ad uno dei film che ad oggi risulta essere uno dei più belli e controversi fantascientifici colossal della storia del cinema. Con Solaris si mette a nudo la natura dell’uomo la sua fragilità davanti a scienza e conoscenza, quasi una materializzazione dell’inconscio freudiano in continua ricerca della verità, la memoria e la perdita si esplicano in un processo di mirroring su cui questo ensemble artistico ha posto il loro punto di incontro: “non abbiamo bisogno di altri mondi, abbiamo bisogni di specchi“, così recita il sottotitolo di “Music For Solaris”.
I corpi di Solaris non sono reali, sono composti da neutrini; Solaris non conosce atomi ma di certo conosce bene le paure, le ossessioni, le angustie dei suoi “abitanti”. Kelvin il protagonista in una scena del film si chiede: “Perché andare a frugare nell’Universo quando di noi non sappiamo niente?“.
Eh chissà, rispondo. Sono ventotto anni che me lo chiedo, ma tu Kelvin molti di più.