Abbiamo già avuto modo di raccontarvi di che posto speciale sia Terraforma, il festival che da qualche anno si svolge alle porte di Milano, nella splendida cornice del parco di Villa Arconati. Siamo felicissimi di poter annunciare le date in anteprima per l’edizione 2017: 23, 24 e 25 giugno 2017. Siamo ancora più felici di poter pubblicare, per celebrare questo annuncio, una trascrizione parziale del momento in cui più le strade di Soundwall e Terraforma si sono incrociate l’edizione scorsa: quando abbiamo cioè curato assieme il talk che ha visto come ospiti Donato Dozzy e Claudio Fabrianesi (…a condurre il tutto e fare le domande, chi vi scrive queste righe). Mancano le domande dal pubblico finali, manca la bellezza del luogo (una struttura circolare in tela e legno, come se fosse un grande accampamento indiano proiettato però nell’ultrafuturo techno, il tutto calato nella pace pomeridiana del parco); abbiamo però provato a far rivivere anche via parola scritta l’atmosfera di grande rilassatezza ed amicizia che aleggiava. Un centinaio di persone disposte lungo un ampio cerchio ad ascoltare i racconti di Claudio e Donato, le loro visioni del mondo e della musica, i loro ricordi, i loro progetti per il futuro. E’ stato veramente bello.
Donato, potremmo iniziare parlando del Brancaleone, a Roma, un posto credo molto importante nella tua vita…
DD: Eccome. E lo era prima ancora che iniziassi a lavorarci regolarmente: era il posto dove andavo sempre a ballare, il posto dove avrei amato poter suonare, quando ancora non pensavo sarebbe successo davvero.
Come lo descriveresti, per chi non c’è mai stato?
DD: Beh, partiamo dal presupposto che era un posto occupato. Il che significa che chi lo abitava ne ha costruito e modellato ogni singolo centimetro. Poi, era in ogni caso un posto molto speciale: un luogo dove la gente era libera di esprimere se stessa, senza forzature. Una specie di laboratorio sociale. Laboratorio che arrivava ad ospitare ogni fine settimana qualcosa come 5000 persone: una cifra enorme. Per me tutto è iniziato organizzando qualche party lì, poi sono diventato resident…
Un resident tenacissimo: oh, c’eri sempre!
DD: Vero! (ride, NdI) …undici anni della mia vita. Molti dei miei amici più importanti li ho conosciuti lì. Ma al di là di questo fattore personale, la cosa bella è che il pubblico del Brancaleone era molto preparato, molto acculturato, molto esigente – insomma per durare lì dovevi essere bravo per davvero. Ho visto guest stranieri anche piuttosto conosciuti arrivare lì e vedere che la sala gli si svuotava davanti, se la gente non li riteneva quella sera all’altezza… Insomma, gestire la sala del dancefloor vero e proprio lì al Brancaleone – coi suoi 600/700 di capienza – era una responsabilità non da poco. Poi di spazi ce n’erano anche altri, una grande chill out room esterna, un giardino dove si faceva molta visual art… in generale poi è sempre stato un posto dove si poteva fumare tranquillamente ovunque, e questo di sicuro ha aiutato (Ride, NdI). Comunque, anno dopo anno ho iniziato a rapportarmi con questo spazio sempre più come se fosse casa mia. E’ stato fondamentale nella mia formazione. Ero il dj dei warm up: non solo ho incontrato tanti guest stranieri, ma è stata proprio la necessità di “studiarli” prima che iniziasse la serata – mi preparavo infatti con attenzione, per essere sicuro di poterli introdurre al meglio – ha arricchito tantissimo la mia formazione musicale. A questo aggiungi anche che almeno per quattro, cinque anni quello del Brancaleone era davvero il miglior sound system d’Italia: una responsabilità in più insomma poterlo usare, almeno fino a quando non ha iniziato un po’ a perdere colpi. Comunque ecco: sono stati anni fondamentali, per sviluppare il mio gusto e la mia estetica. Anche perché comunque avevo sempre massima libertà, potevo suonare quello che volevo.
Claudio, con te invece vorrei iniziare quando a diciannove anni hai ricevuto una telefonata a casa da un certo Lory D…
CF: Sì. Facevo già il dj: avevo iniziato a quindici anni, nel 1992, ora di anni ne ho quaranta e continuo a fare la stessa cosa. Venendo a Lory: lui già da tempo era un gigante, un maestro per tutti. Tanto per farti capire, da quel che ne so quando nel 1991 venne a suonare a New York Richie Hawtin lo approcciò per farsi autografare la maglietta, tanto per farti capire… Ma un maestro è un maestro anche quando vuole vedere gli altri crescere, quando dà fiducia. Ci incontrammo per la prima volta ad un rave illegale, nel 1995, io suonavo prima di lui. Ci siamo parlati, ci siamo scambiati il numero di telefono. Non c’erano cellulari, all’epoca: quindi qualche giorno dopo quando ero tranquillamente a casa ad un certo punto arriva mia madre e mi fa “Oh, c’è al telefono un tizo di nome Lorenzo che chiede di te…”. Prendo la cornetta in mano, lui mi fa “Vuoi suonare prima di me agli Ex Magazzini, fra qualche giorno?”. Da lì siamo diventati amici. Dopo tutti questi anni, Lory è ancora un artista eccezionale.
Ma quanto è corretto parlare di specifica “scena romana”, per quanto riguarda la techno? Una scena tra l’altro che molti considerano, ai massimi del suo splendore, ai vertici assoluti europei.
CF: E’ corretto al cento per cento. Pensa a dischi come “Muta” di Leo Anibaldi o “Antisystem” di Lory D. Dischi che per valore ed importanza storica per me stanno allo stesso livello di “Incunabula” degli Autechre, “Substrata” di Biosphere, dei “Selected Ambient Works” di Aphex. Ma come cito loro, ci sarebbero tantissime altre persone da citare, gli eroi di “quella” Roma sono molti. Se la techno è nata a Detroit alla fine degli anni ’80, ma negli anni ’90 ha preso ad esplodere ovunque. A partire dall’Italia. Roma poi ha un ruolo particolare: lì la techno regnava davvero. In Toscana, per dire, l’approccio era un po’ diverso: lì i dj suonavano techno e house, ma anche afro, cosmic, rock psichedelico – tutto insieme. A Roma invece o suonavi techno, o suonavi house. Io comunque mi sento fortunatissimo ad essere stato giovane, entusiasta ed aperto proprio quando sono arrivati artisti pazzeschi come Lory e Leo, hanno avuto un impatto grandissimo su di me, non ci fossero stati loro oggi sarei molto più limitato nella musica che suono: e dico questo pur essendo di mio molto più “toscano” come approccio, per me la musica è tutta, non riesco a limitarmi a techno o house. Nella mia formazione è stato fondamentale il Jaiss di Empoli, per dire, e quello che faceva Miki, uno che ha fatto la storia di quel club.
(continua sotto)
(Claudio Fabrianesi. Foto di Michela Di Savino)
Che poi, a proposito di techno, mi pare Donato che negli anni la tua musica sia cambiata: ora è prima di tutto alla techno che ti si lega, ma di techno non me ne ricordo poi così tanta nei tuoi set al Brancaleone – almeno le volte che ti ho sentito io.
DD: Ero in fasi diverse della mia vita, semplicemente. Negli anni del Brancaleone ero in un periodo di scoperte musicali e ogni scoperta musicale mi eccitava tantissimo, tanto da volerla subito mettere in pratica nei miei dj set. Io poi all’epoca non ero direttamente connesso alla scena techno romana storica. Chiaro, gente come Lory e Leo non potevo non amarla artisticamente, ma di persona non li conoscevo. Quello che accadeva, in quella scena lì e in quegli anni lì quando c’è stata la prima esplosione, lo seguivo dalla mia cameretta. E le mie influenze erano varie, molteplici. Sono stati i casi della vita che mi hanno poi via via spinto verso un suono più preciso, più definito, ma per arrivare a questo c’ho impiegato quindici, vent’anni, è stato un vero e proprio percorso. Ora di anni ne ho quarantacinque e ho la consapevolezza che il mio suono attuale è perfettamente confacente a quello che vivo e sono adesso. Negli anni del Brancaleone mi facevo affascinare da tutte le novità, immancabilmente, erano tantissime: ma è giusto, ci sta, ero più giovane, e quando si è più giovani si è più portati all’entusiasmo immediato.
Ci stai dando un ritratto molto affascinante dei tuoi anni al Brancaleone, sta di fatto che ad un certo punto hai detto “Basta, me ne vado” e hai lasciato Roma per Berlino…
DD: Me ne sono andato non perché non fossi contento di come andavano le cose al Brancaleone, attenzione; tant’è che anche una volta trasferito a Berlino ho continuato a mantenere la dj residency almeno una volta al mese ed ero costantemente in contatto con tutti. No, è che era dall’Italia che me ne dovevo andare, era un’esigenza personale, non un’esigenza artistica o di carriera: sentivo che avevo il bisogno di abbracciare una cultura aperta al mondo, uscire cioè dagli usi, costumi ed abitudini del contesto in cui sono cresciuto. Usi, costumi ed abitudini che io amo, ma se restano sempre gli stessi dopo un po’ impazzisci. Io di mio ho proprio bisogno di entrare in contatto con persone e culture diverse. Arrivato a Berlino, sono diventato infatti amico di persone che provenivano dai quattro angoli del globo – e tutti ci trovavamo ad affrontare problemi simili, i problemi di chi è immigrato in una nazione che non è la propria. Osservando gli altri ho imparato come di fronte a certi problemi – che a me per mia attitudine e cultura potevano sembrare enormi ed insormontabili – ci si possa invece porre in modo molto armonioso e tranquillo. Di questa nuova consapevolezza è stata ovviamente influenzata anche la mia musica. Inevitabile. Io vedo sempre una precisa connessione tra le strade della vita e la musica che fai.
Tu Claudio invece non hai voluto lasciare l’Italia.
CF: No, ma ho vissuto una situazione simile a quella di Donato. Proprio dopo la release che abbiamo fatto insieme io e lui (“Disco Infecta”, NdI) avevo smesso di essere produttivo: ecco, avevo bisogno di andare via. E’ così che mi sono trasferito in riva al mare, per concentrarmi sulla mia attività da studio. Non credo di essere un caso strano: ci sono molte persone che si trovano meglio in un posto che non sia per forza una città. E’ quattro anni che ho fatto questa scelta, continuo a trovarmi molto bene.
Ma hai mai accarezzato l’idea di trasferirti a Berlino?
CF: Ci andrò di sicuro, anzi, forse è una cosa imminente. Ho un figlio di cinque anni, studia alla scuola tedesca, sto seriamente pensando di spostarmi a Berlino per un periodo piuttosto lungo, l’anno prossimo. Ma questo non significa che mi trasferirò definitivamente là. Voglio continuare a vivere sul mare, fuori Roma.
Donato, tu arrivi da anni come resident, col compito di sfornare il warm up, ora invece viaggi per lo più come main guest nelle varie serate. Quando è profondo il gap tra questi due contesti?
DD: Direi abbastanza. Avere la responsabilità del warm up è un impegno sotto certi punti di vista legato anche alla psicologia, non solo alla conoscenza musicale. Come accennavo prima, trovo fondamentale essere preparati sull’artista per cui tu devi aprire la serata. E’ un lavoro a sé. Devi conoscere lui, conoscere che tipo di pubblico ha, capire come mettere tutti a proprio agio. Una scuola fondamentale. Non puoi arrivare a fare lo sbruffone, “Ora arrivo e suono la roba mia, e vi deve andare bene per forza”. In questo, proprio Claudio è assolutamente eccezionale: gli ho visto aprire tantissime serate in un modo assolutamente fantastico, al Vicious.
CF: Io? Veramente?
DD: Sì, proprio tu! (Ride, NdI) Comunque anche quando vai in giro come main guest, questa esperienza maturata in anni di warm up ti viene utile, sta con te. Perché spesso comunque c’è chi ha suonato prima di te e c’è anche chi suonerà dopo di te: lì devi imparare a crare un flow continuo, non devi pensare solo a te stesso. In molti casi, quando torno scontento da una data, la scontentezza nasce proprio dal fatto che il dj in apertura di serata ha pensato solo a se stesso e non all’economia musicale ed emotiva dell’intera nottata.
Accade spesso?
DD: Sfortunatamente, sì. Ma altrettanto spesso accade di essere favorevolmente sorpresi.
Donato prima ha menzionato il Vicious, Claudio. Credo per te sia stata un’esperienza importante.
CF: Assolutamente sì. Per cinque anni di fila ho suonato lì, ogni sabato. Ho aperto per gente come Theo Parrish, Carl Craig… Tutto questo in un club molto intimo, dalla capienza di duecento persone o giù di lì.
Piccolo, soffitto basso, scuro, grande impianto…
CF: Una versione ridotta dell’Heaven a Londra, uno dei club dove si è fatta la storia dell’acid house. Solo che lì il soffitto era alto, gli spazi ampi: ma l’oscurità, il fumo, i laser erano simili.
Domanda per entrambi: quando avete iniziato, la musica elettronica era qualcosa di avanguardistico, alieno, pionieristico. Oggi non è più così. Quanto è cambiato il pubblico di fronte a voi?
DD: Dobbiamo tornare di nuovo alla questione dell’età: ogni generazione prende le cose a modo suo, e fra i venti/venticinquenni l’elettronica in effetti si sta diffondendo in modo veramente forte…
…forte sì, ma anche corretto?
DD: Credo che comunque ci sia una buona consapevolezza e conoscenza. Poi chiaro, a venti, venticinque anni sei in un’età particolare, hai la voglia e anche il diritto di andare fino in fondo nelle tue esperienze. Non bisogna giudicare. Tutti l’abbiamo fatto. Che poi, molta gente con cui sono cresciuto, gente con cui ci si trovava ogni weekend al Brancaleone, ora non esce più: hanno messo su famiglia, eccetera. Ci sta. Ma tra i non molti di noi che ancora sono qui, è bello guardarsi indietro e vedere come negli anni si sono sviluppate le cose. Tra la gente incontrata successivamente, nel mio viaggio artistico, ho incontrato molte amicizie importanti, molte nuove energie, idee, speranze, molte cose che sono state fondamentali per sviluppare la mia etichetta e la mia musica. Insomma, c’è un flusso naturale che continua, ininterrotto.
Vale anche per te, Claudio?
CF: Assolutamente sì. Guardati qua attorno: siamo qua perché a Terraforma hanno deciso di costruire qualcosa di magico, di speciale. Riuscendoci. E come mai ci sono riusciti? Perché è un festival fatto da persone che crede nella musica. E’ una cosa indipendente dall’età. Poi, le cose vanno a cicli, è normale. Roma, Firenze, Pisa, Milano… Il punto è semplice: devi giusto decidere se quando c’è di mezzo il deejaying vuoi semplicemente “la discoteca”, o se vuoi sentire musica in un modo più adulto, più elaborato.
DD: Fatemi aggiungere una cosa: puoi avere venti, trenta, quaranta, cinquant’anni, ma se semplicemente hai un grande interesse e un profondo rispetto per chi hai attorno e per chi sta suonando di fronte a te allora, beh, allora l’età non conta, non è un fattore. E’ questione di avere attorno persone positive, che sanno provare piacere in una determinata esperienza. E se anche per una volta sei preso male, perché può succedere, il rispetto lo devi comunque mantenere. Se il contesto in cui mi muovo è questo e resta questo, posso suonare e andare a serate fino a ottant’anni – non vedo il problema.
Ma quando ascoltato musica popolare diciamo fra i diciottenni di oggi, vi capita di pensare “Ma questo non è musica”…?
DD: Beh, lo dicevano anche della techno i nostri genitori. Non tutti, magari: perché uno dei meccanismi fondamentali della techno, l’iterazione, era anche alla base delle avanguardie colte del minimalismo degli anni ’70. Chi aveva quel tipo di conoscenza e preparazione, magari poi con l’arrivo della techno si è trovato meno sorpreso e non ha rilasciato giudizi troppo superficiali e frettolosi. Come opinione personale, mi pare ci sia una grande massificazione, perché elettronica e techno sono entrati nei circuiti mediatici ed industriali di un certo tipo, lì insomma dove si fanno i grandi numeri. Qualcosa non da combattere, ma con cui scendere a patti. Decenni fa il rock era sperimentazione e psichedelia; poi sono arrivate le major sul fenomeno, ed è cambiato un po’ tutto. Chi investe, si aspetta dei ritorni: è sempre stato e sempre sarà così. Devo però dire che i ragazzi di oggi sono esposti a molta musica-spazzatura, fenomeno che dipende dai tempi in cui viviamo, dove tutto è approntato per favorire un consumo che sia veloce ed immediato: prendo una cosa, la bevo, la butto. Io ho l’impressione che negli anni ’70 e in parte anche negli anni ’80 le cose fossero un po’ diverse. Cos’era musicale commerciale negli anni ’80? I Simple Minds, i Duran Duran… gente con produzioni coi controcazzi, in grado di costruire melodie notevoli e che magari si prendevano pure dei rischi a livello di arrangiamento, con scelte strane, strumenti strani. Oggi ascolto la radio e, onestamente, mi pare che le canzoni si assomiglino un po’ tutte. Insomma, mi pare che la cultura del fast food abbia un po’ influenzato anche il modo in cui si consuma la musica.
Stiamo parlando come i nostri genitori, ecco.
DD: (Ride, NdI) E’ la conseguenza dei tempi in cui viviamo…
(continua sotto)
(Donato Dozzy. Foto di Michela Di Savino)
Ok ragazzi, è il momento di confessare i vostri “guilty pleasure” musicali di quando eravate ragazzini. Fuori le vostre passioni più compromettenti!
DD: (Ride, NdI) No, veramente?
CF: (Serissimo, NdI) Gli Wham.
Davvero?
CF: Certo. Anche se il primo disco che ho comprato è “The Number Of The Beast” degli Iron Maiden.
Wham ed Iron Maiden assieme? Sul serio?
CF: Certo! Quando sei teenager devi ancora costruirti un gusto ben codificato, all’inizio segui semplicemente l’istinto. Ascolti “Last Christmas” mille volte perché ti fa pensare alla tua fidanzatina: era esattamente quello che facevo. Poi però è arrivata l’acid house…
DD: E lì le cose sono un po’ cambiate, vero?
CF: Eccome. Ore spese a mixare e scratchare. Sai, io ero imbevuto di cultura hip hop, mi chiudevo in camera a scratchare… Mi ricordo che mia madre ma pure il mio vicino iniziavano ad urlare “Cos’è ‘sta cosa, ‘sta musica infernale!”, erano stravolti. Oggi se suoni al tuo vicino, ti apre la figlia diciottenne che ascolta techno. Comunque ho risposto alla domanda, no? Ora però dicci i tuoi, caro Damir. Ricchi E Poveri?
No, dai. Mmmmmmh… E se dicessi Venditti, come passione più bizzarra e compromettente?
CF: Ma io l’ho sempre rispettato un sacco! Ha delle parti ritmiche che… ma anche Vasco, ti dirò…
DD: No beh, Vasco no, smettetela, davvero, state esagerando! (Ride, NdI)
CF: Ma fammi parlare! (Ride, NdI) Guarda che nei primi album di Vasco ci sono alcune fra le migliori parti di chitarra mai incise negli anni ’80, Maurizio Solieri era un musicista della madonna. E comunque in generale in quel decennio c’erano musicisti con le palle.
E tu Donato? I tuoi anni ’80?
DD: Ah, ho ricordi pessimi. Le persone che frequentavo nel mio quartiere, nel giro della parrocchia di quartiere, avevano tutte dei gusti musicali molto convenzionali, non gliene fregava nulla del deejaying. Per loro il massimo della gioia e dell’espressione musicale era mettersi in cerchio, così come siamo seduti noi ora, aspettare che qualcuno tirasse fuori una chitarra ed iniziare a cantare le canzoni di Vasco. Ecco perché non sopporto Vasco Rossi!
Di Vasco, o di Battisti…
DD: Ma magari! No, c’era solo Vasco. E lo odiavo. Non per la sua musica, in fondo, ma perché lo collegavo a quella situazione, a quei momenti, a quelle facce, alla noia che vivevo – e questo succede ancora oggi, mi fa ripensare a tutto questo, ecco perché non lo posso soffrire. In realtà quel ritrovarsi al pomeriggio con gli altri ragazzi di quartiere non era solo una cosa negativa, anzi, impari a socializzare, poi abbiamo fatto insieme molte cose utili e profondamente formative per quell’età, come andare a fare volontariato negli ospedali. Però ecco, lì ho iniziato a rendermi conto che avevo proprio dei desideri e degli interessi completamente diversi rispetto a quelli “normali”, ho iniziato a sentirmi ad un certo punto un vero e proprio freak, uno scherzo della natura… non era per nulla piacevole. Quindi ecco, quando sento musica di quel periodo lì, di quando ero adolescente… Vale anche per te?
Ma ti dirò, io certe cose di Nik Kershaw e Howard Jones le riascolto ancora molto volentieri, anche se in effetti si portano dietro proprio il tipo di sensazioni e di esperienze di cui parli tu. Che poi Nik Kershaw è risalito in superficie qualche anno fa pensa un po’ proprio con Gigi D’Agostino, che ha fatto un rifacimento di “The Riddle”…
CF: Guardate che Gigi D’Agostino non è uno scemo. Ha una grande cultura musicale. Dico sul serio. Lo rispetto: è onesto. Perché non dice che quello che fa non è commerciale: lo è, non ha problemi ad ammetterlo. Io personalmente non ho il minimo problema se vuoi essere commerciale, se vuoi fare i soldi: ho problemi se invece vuoi fare i soldi, ma pretendi anche che stai facendo pure un discorso di spessore, culturale. Vuoi fare le cose commerciali? Va benissimo. Ma non venirmi a raccontare che c’è vera sostanza artistica in quello che fai.
Donato, non hai ancora risposto.
DD: Sono abbastanza un collezionista di manga e di robot anni ’70, e di tutte le cose che sono legate a questa sfera. Ho quindi una grande collezione di 45 giri di sigle di cartoni animati, 45 giri che ho ascoltato fino allo sfinimento. Però ecco, mica me ne vergogno – anzi, ne sono piuttosto orgoglioso. (Ride, NdI) Se ci pensi, è il modo in cui mi sono avvicinato alla cultura del vinile, al piacere di poterti relazionare con una cosa tattile, quando c’è di mezzo la musica. La mia collezione è ancora lì, intatta, tenuta benissimo, credo abbia anche un certo valore economico. Con la consapevolezza di oggi, posso dire anche che è musica fatta veramente bene: d’altro canto molta gente della scena prog italiana ha finito per lavorare su quelle canzoni, portando anche soluzioni notevoli – pensa ai vocoder, a certi synth, allo Jupiter-8. Ogni tanto ancora oggi, quando sono da solo, apro YouTube e certe cose me le vado a riascoltare, proprio per piacere personale…
Non vai a riascoltarti “Last Christmas” degli Wham.
DD: Mmmmh, preferivo la b side: “Everything She Wants”. Avevo il 45 giri, ovvio!
Se oggi non foste così immersi nel mondo della musica, cosa fareste?
DD: Tecnicamente dovrei fare il diplomatico, visto gli studi che ho fatto – laureato in Scienze Politiche. Oppure insegnerei ai ragazzi. Ogni tanto provo ad immaginarmi in questo ruolo: beh, non sono sicuro che sarei un buon insegnante… (Ride, NdI)
Tu, Claudio?
CF: Io ho studiato Economia del Turismo, ma non è che mi piacesse granché. Avrei dovuto scegliere altro, forse. Però davvero: non ci fosse la musica, non so cosa ci sarebbe ora per me. Davvero difficile rispondere a questa domanda.
Che poi Donato, rischiavi di fare il diplomatico, ok, ma di tuo sei abbastanza poco diplomatico nelle interviste e proprio con gli intervistatori… sbaglio? Qual è la tua opinione sui media?
DD: Non voglio parlarne! (Ride, NdI)
Dai, su.
DD: Mi deludono spesso. Il fatto che io mi mostri disponibile a parlare con te, non significa che hai la libertà di deformare quello ti dico e quello che ti sto raccontando. Questa è una cosa che mi secca molto. Poi mi secca anche quando vedo gente, che in teoria dovrebbe essere preparata su determinati argomenti visto che fa parte della stampa specializzata, non saperne granché. Essere giornalista è una cosa seria. Ci vuole preparazione. E bisogna anche saper essere un po’ psicologi. Devi capire cosa va detto, e come. Mark Smith che mi ha intervistato per Electronic Beats ad esempio è bravissimo, soprattutto è uno che quando deve fare un’intervista si prepara davvero, la avverti in modo tangibile questa cosa, lo avverti che a dedicato tempo ed attenzione a preparare al meglio l’incontro con te, studiando, documentandosi. Il risultato? Sono passati tre anni, e ancora ho un ricordo vivissimo e meraviglioso dell’intervista che mi ha fatto, è stato un grande momento di condivisione. Oggi, quando vedo troppa informazione veloce, superficiale, informazione fast food insomma, impazzisco. Io sono il primo, durante un’intervista, che tenta di mettere in campo massima attenzione: se dall’altra parte vedo superficialità, la cosa mi dà davvero ai nervi.