Quest’anno, durante la cinque giorni torinese del “Club To Club” festival, abbiamo avuto l’occasione di parlare con Oscar Powell. E’ stato un confronto prezioso considerato che di interviste non ne rilascia molte ma soprattutto perché sono emersi parecchi spunti di riflessione. Alcuni di essi necessari visto che si parla di un talentuoso produttore depositario di un verbo sonoro già personale e riconoscibile – libertà artistica; voglia di sperimentare; attitudine punk – e altri molto meno scontati in quanto connessi al suo personale modo di sentire la musica, tra inquietudine verso il futuro e audacia rispetto al presente. Alcune interviste vanno avanti con il pilota automatico, questa che vi apprestate a leggere è di tutt’altro genere.
In un momento storico in cui “i migliori dischi del punk” escono in edicola a cadenza settimanale, tu dai alle stampe un lavoro, “Sport”, che si pone come un nuovo punto di rottura rispetto alla musica contemporanea. Sto prendendo la tua musica troppo seriamente?
Assolutamente no (ride ndr). Nell’immaginario comune il punk viene associato alla musica oppure all’abbigliamento eccentrico invece è solo una questione di attitudine, o almeno lo è per me. Mentre producevo “Sport” ero totalmente sgombro da pensieri di sorta, non volevo fare un disco punk ma semplicemente esprimere me stesso, lasciarmi andare e registrare il risultato. Però ho capito quello che dici, io stesso sento che c’è questa libertà punk nel disco ma ti assicuro che non c’è nulla di premeditato. Quando ho davanti a me un sintetizzatore sento che posso fare ciò che voglio, nel modo più assoluto, e questo mi fa pensare alla scena punk di fine anni settanta. C’erano questi ragazzi che con i loro strumenti suonavano anche in modo stupido o pazzo e non aveva alcuna importanza perché a contare era il messaggio, l’essere contro la musica che c’era intorno a quei tempi. Trovo che molta elettronica oggi sia abbastanza noiosa, corre lungo binari prestabiliti, si sente che non c’è il rischio, la voglia di provare a fare qualcosa di personale. Quando a me vengono in mente idee stupide o pazze le registro, non mi sforzo di andare verso una direzione sicura. Mi sento libero, anzi direi selvaggio, quando produco.
Riesci a identificare alcune tappe importanti nel tuo percorso senza le quali non saresti il Powell di oggi?
A livello di influenze è stato importante vivere l’energia che trasmette la musica jungle e la drum and bass; intendo come fruitore della scena; recepire quell’attitudine sfrenata che mi piace e che sento scorrere anche nelle mie vene. Inoltre se oggi faccio questo mestiere è perché credo che attraverso la musica elettronica si possa fare arte; produrre qualcosa che sia espressione di libertà ma anche di sperimentazione. Tutti possono fare i produttori oggigiorno ma solo in pochi escono davvero dalle righe. Se la musica elettronica dovesse perdere la sua libertà e la sua componente di ricerca, allora sarebbe finita; io lotto per questo, lotto per la libertà della mia musica, lotto per ciò che ritengo importante.
Mi piace questa tua riflessione: la musica elettronica come espressione di libertà e di sperimentazione. Mi fa pensare all’etichetta “raster-noton”.
Amo la “raster-noton”, avrei dovuta citarla anche prima! Le frequenze che usano per i loro pezzi, la loro visione e come la portano avanti; trovo che siano il perfetto esempio di etichetta che va dritta per la sua strada.
Parlami invece della “Diagonal”, l’etichetta che gestisci assieme a Jaime Williams.
E’ l’etichetta che stiamo portando avanti dal 2011. Inizialmente a guidarci nella scelta degli artisti da produrre era la sensazione del momento, poi con il passare del tempo tutto è divenuto più strutturato e complesso e anche il ventaglio delle proposte tra cui scegliere è aumentato di numero; ogni giorno riceviamo moltissime demo da ascoltare, sia da parte di amici che di sconosciuti che vogliono farsi conoscere. Comunque la scelta ricade sempre su artisti che hanno qualcosa da dire, che ci emozionano oppure affascinano nei suoni o nell’attitudine, insomma ci deve essere qualcosa che ci colpisca.
In occasione del lancio di “Sport” hai diffuso la tua e-mail attraverso cartelloni pubblicitari disseminati per Londra, incoraggiando chiunque a prendere contatto con te. Com’è andata?
Ho avuto circa mille riscontri ed è stato molto divertente. Alcuni di loro mi hanno scritto cose stupide, altri cose divertenti, qualcuno mi ha intervistato mentre qualcun altro mi ha semplicemente mandato una foto o dato dei consigli. E’ stata un’esperienza davvero singolare ma fantastica. Ho anche sentito qualcuno lamentarsi di questa cosa oppure additarmi come un ragazzo interessato solo al marketing. Chi ha sostenuto questo o continua a sostenerlo è in errore. A me piace l’interazione con la gente, non hanno risposto altre persone se non io a ogni singola e-mail; credo che ascoltare cosa abbia da dire la gente sia molto importante per chiunque ma ancora di più per un produttore di musica che è concentrato sul proprio tempo, che si esprime tenendo in considerazione quello che succede attorno a lui proprio nel momento in cui esprime la sua arte.
Come vivi la tua musica? Intendo a livello interiore.
Credo che sia fottutamente difficile produrre qualcosa che abbia davvero un senso per sé stessi e per gli altri. Però non fraintendermi, certe volte è anche facilissimo. La stessa cosa vale anche per le esibizioni dal vivo, certe volte fai il set perfetto, altre volte non riesci ad entrare in risonanza con il pubblico. Ogni giorno si ha a che fare con l’insicurezza, l’ansia; è una lotta interna per convincersi che si stia facendo la cosa giusta. Passo settimane o mesi a pensare di odiare la mia musica ma poi magari salgo sul palco e mi sento Dio. Non è una vita facile come molti potrebbero pensare, eppure vale la pena di farla anche solo per quei momenti in cui tutto va come deve andare.
Come ti rapporti con la tua musica già edita?
Deve passare del tempo affinché io apprezzi la mia musica; magari la riascolto a distanza di mesi e la trovo migliore rispetto al momento in cui l’ho registrata. Comunque sono fiero di ciò che ho fatto e delle persone con le quali ho collaborato. Mi ritrovo ad essere più inquieto rispetto al futuro. Quando chiudo un disco è anche per lasciarmi una fase artistica alle spalle e potermi concentrare su qualcosa di nuovo.
Dopo dieci EP è uscito “Sport”. Come mai proprio quest’anno? Per quello che mi hai detto dovrei intenderlo come sublimazione del tuo presente artistico.
Sì, credo che sia così; tra qualche tempo avrò le idee più chiare in merito ma intanto posso dirti che nel disco c’è la mia visione attuale su tutto quello che mi piace in musica. Inoltre ho anche avuto una buona offerta da parte dell’etichetta “XL Recordings”. Te lo dico perché tanti si sono lamentati del fatto che il disco uscisse per loro, che sono una realtà grande e quindi io mi sarei svenduto. Odio questo atteggiamento. Non mi sono svenduto ma ho realizzato esattamente il disco che avevo in testa. E’ stato un onore essere contattato da qualcuno che crede nella tua arte e che ti supporta per realizzarla e distribuirla.
Sei un perfezionista del suono?
Sono ossessivo, una singola registrazione con me può durare anche mesi. Poi le cose nascono con spontaneità ma sono davvero un perfezionista sui suoni, devono essere esattamente come ho in mente. Mi piace lavorare continuamente su un pezzo che giorno dopo giorno si trasforma e si avvicina sempre di più a ciò che desidero. Quando faccio ascoltare un brano abbozzato agli amici e poi magari sentono anche la versione definitiva stentano quasi a riconoscerlo, mentre per me è solo una naturale evoluzione.
Ed è con questo lungo processo in studio che dai ai tuoi beat una veste che è sia “sporca” che in alta definizione?
Esatto, mi piacciono i suoni sporchi, quelli industriali per esempio, ma mi affascina anche l’alta definizione del beat. Cerco inoltre di dare all’ascoltatore quel senso di vibrazione o di ronzio dell’intera matassa sonora. Una volta un giornalista inglese ha definito la mia musica “non-psichedelica” e io stesso non avrei mai potuto trovare un’espressione più calzante. Tutta la musica dance, in maniera più o meno evidente, può essere intesa come psichedelica, nel senso che cerca di farti vivere esperienze “altre”, ti fa fantasticare e viaggiare con la mente. La mia musica invece non è progettata per portarti da un’altra parte ma per farti vivere esattamente il momento in cui l’ascolti, proprio quel presente lì.
Hai tempo di creare nuova musica mentre sei in tour oppure alterni periodi di produzione ad altri di live?
Tra una data e l’altra, quando non sono troppo ravvicinate, torno a casa e quindi trovo il tempo per buttare giù nuove idee. La fase di produzione sostanzialmente non si ferma mai. Più in generale cerco di sfruttare i periodi buoni; ci sono dei momenti sì e momento no, cerco di capitalizzare i momenti sì per mettermi seduto davanti alle macchine o al pc. Inoltre mi piace alternare esibizioni dal vivo a dj-set in modo da essere stimolato su più fronti. Fare il dj vuol dire anche essere sempre aggiornati sulla musica che gira intorno; è un lavoro di ricerca che trovo molto stimolante. Ho avuto parecchie discussioni con il mio manager perché lui era contrario e pretendeva che io scindessi le due attività. Gli ho dato retta per un anno, non di più! Immagino non sia facile avere a che fare con me (ride ndr).
Cosa ti piace al di fuori della musica? Per ricollegarsi al titolo dell’album probabilmente ti piace fare sport.
Sì, amo fare sport; ho scelto quel titolo per il mio debutto sulla lunga distanza perché è un termine al quale ognuno da un significato preciso, che è differente da quello degli altri. Mi piace la versatilità di questa parola. Facevo un sacco di sport ma è da un po’ che la musica è diventata la priorità. Sento che tutto il resto sia diventato meno importante. Amo anche l’arte ma certe volte sento che per me non esiste nulla oltre alla musica. Quando produco possono passare anche ventiquattro ore in un attimo, dimentico tutto il resto che mi circonda.
Sostanzialmente tu sei la tua musica.
Esattamente, credo sia una cosa bella, ma è anche un po’ inquietante, perché la domanda che mi viene da pormi a questo punto è che cosa succederà quando la mia musica non sarà più apprezzata dal pubblico? Io vorrei evolvermi sempre, di continuo, non smettere mai la ricerca che sta dietro ai miei dischi.
Il segreto probabilmente è continuare ad esprimersi con sincerità.
Hai ragione, è proprio questo il segreto!