Inizialmente si doveva parlare solo di Roov: decisamente una delle realtà emergenti nel panorama del clubbing di casa nostra. Parlare della line up, degli ospiti in programma, e così via. Una cosa che di sicuro faremo, finché il livello continua ad essere alto (e lo sarà anche nel primo appuntamento del 2017, con in line up un’accoppiata notevolissima come quella rappresentata da San Proper e Carola Pisaturo: mica male davvero), ma visto che con Max D. Blas – il lider maximo di questa operazione che ha visto (ri)nascere un club piazzato nella parte più estrema verso sud di Mestre/Marghera, oltre il Rivolta per intenderci – ci si conosce da tempo è scattata una conversazione a trecentosessanta gradi, una ricognizione più ampia del semplice elenco di nomi sul come e perché intendere l’esperienza del clubbing in Italia oggi.
Quando nasce precisamente l’esperienza Roov?
L’esperienza Roov nasce nell’ottobre del 2015 (la scorsa stagione, quindi), ma l’idea girava in realtà da alcuni anni. Organizzavo insieme ad altre persone AltaVoz già da tempo, cosa che continuo a fare tutt’ora, ma sentivo il desiderio di vivere l’esperienza di gestire un club, con le dinamiche e la continuità che gli eventi solo mensili che facevano parte del mio bagaglio del momento non potevano invece avere. Inoltre volevamo avere uno spazio dove ospitare artisti che, per dimensioni e periodicità, ad AltaVoz sarebbe stato difficile sistemare.
Non è un club che nasce ex novo: precedentemente se non sbaglio fra le stesse mura c’erano state altre esperienze. Quanto è difficile e quanto è lungo dare una nuova “identità” al posto, cancellando la precedente o le precedenti?
In effetti il Roov fino a quattro o cinque anni prima si chiamava Fucina Controvento: era un locale parecchio conosciuto in città ed aveva una identità molto diversa, che andava dal reggae al rock con puntatine nell’elettronica che erano alquanto sporadiche. La differenza di generi proposti, oltre ad un gap temporale/generazionale sufficiente a far sì che molta parte del nostro pubblico non frequentasse la vecchia Fucina, ci ha facilitato a non essere considerati “una realtà che ne sostituiva un’altra” ma ad essere, invece, da subito considerati per quello che siamo e per quello che proponiamo. E anche noi per primi ci siamo sempre proposti come un club nuovo in un posto nuovo, evitando – anche se magari poteva facilitare le persone nel far capire dove eravamo e che club fosse – qualsiasi allusione o solita frase in calce ai flyer tipo ‘ex Fucina Controvento‘.
Parlando di te, ma in generale parlando proprio di quell’area geografica, non si può non menzionare l’esperienza AltaVoz, di cui sei uno dei fondatori e ancora oggi fra i protagonisti assoluti. Quali sono le differenze nell’impostare il lavoro su AltaVoz e quello invece sul Roov? Hai mai avuto paura che le due realtà si togliessero qualcosa a vicenda?
No, non ho mai pensato che le due realtà si potessero togliere qualcosa a vicenda, ma che anzi potessero essere complementari tra di loro, come spiegavo prima. In particolare per le proposte artistiche. Il lavoro organizzativo e promozionale sui due eventi ha degli elementi in comune, certo, ma molte differenze. Innanzitutto per la cadenza degli eventi proposti, come ovvio, ma poi anche per lo staff, anzi, gli staff, che sono in buona parte diversi. Sono due binari che corrono paralleli e che al massimo possono, ogni tanto, aiutarsi a vicenda.
Ad oggi, quali sono i set a Roov che più hanno spaccato? E perché?
In solo un anno e mezzo ne abbiamo fatti già così tanti che è già una domanda difficile. Su due piedi ti direi Robert Hood, Chez Damier, Jeremy Underground, Carola Pisaturo, Phil Weeks, Leon e diversi altri… Sul perché, beh, credo che sia per il calore che il Roov emana, un calore con motivazioni ben precise: un club grande ma non troppo, con un ottimo impianto Funktion One e con un pubblico che viene prima di tutto per ascoltare e ballare la musica.
Se avessi iniziato una esperienza come quella di Roov diciamo dieci anni fa, quali sarebbero differenze rispetto ad oggi? Ce ne sono? Il pubblico è cambiato, nell’arco di un decennio? Avresti dovuto lavorare in un modo diverso?
Molto semplicemente: dieci anni fa penso sarebbe stato impossibile pensare ad un club come il Roov in Veneto. La realtà a quei tempi era molto diversa ed in fase direi embrionale… all’epoca già organizzavamo piccoli eventi a Padova, sì, ma la cosiddetta “club culture” era un fenomeno davvero di nicchia. Tanto è vero che il progetto AltaVoz era nato proprio con lo scopo di riunire i piccoli gruppi che organizzavano eventi nelle provincie del Veneto orientale, con l’obiettivo di creare una realtà che potesse essere il punto di riferimento per gli appassionati in regione e che mettesse una “bandierina” su Venezia nella mappa del clubbing italiano. Nel corso di questo decennio sono nate tante nuove realtà in regione: e penso che AltaVoz abbia contribuito – nel suo piccolo – da un lato ad aver aumentato il numero di clubber ed apassionati, dall’altro ad aver dato ad alcuni promoters la “spinta” per buttarsi in questa avventura e ad aprire club e serate in tutto il Veneto, come poi è successo. Il problema piuttosto è che adesso il fenomeno si sta rovesciando: se prima il clubbing era un fenomeno di nicchia rispetto alle “discoteche” tradizionali, adesso invece è così hype che si assiste ad un fenomeno di commercializzazione del fenomeno. Cosa che si tramuta in serate con magari un artista “underground” e di qualità in line up, ok, però in discoteche dove la distanza dall’ingresso del tuo parcheggio è data dalla marca e cilindrata della tua macchina e dove all’entrata c’è una tipa in tacco dodici che ti aspetta per accompagnarti ad un tavolo dove la soddisfazione non la ottieni per la musica di cui – in fin dei conti – neanche ti interessa granché, ma dall’arrivo della cameriera che ti porta al tavolo una bottiglia con la fontanella luminosa.
Quali sono le realtà in Italia, a livello di club, che più ti piacciono o di cui comunque senti parlare meglio?
Il lato negativo del gestire un club è che purtroppo hai molte meno occasioni di andare in giro. In ogni caso ti direi il Dude Club e il Wall a Milano, We Play The Music We Love a Torino, il Barn a Modena, il Lanificio e il Goa a Roma, solo per dirne alcuni; o, restando nella nostra zona, direi il Cirq a San Donà o il Tag di Mestre, che è una pietra miliare del clubbing in Veneto. Ce ne sono in realtà molti altri, magari meno conosciuti perché in aree fuori dalle “mappe del clubbing” sopra citate, ma che forse meritano anche più rispetto perché hanno il coraggio di proporre determinate serate in città piccole e zero abituate a certi discorsi artistici e di intrattenimento. Come il Milk di Viterbo ad esempio, dove ho suonato poco tempo fa e dove ho trovato dei ragazzi che portano avanti un progetto davvero con passione.
Qual è la più bella nottata che hai mai passato in un club italiano?
Quella in cui sono tornato a casa ridendo… (risate, NdI) A parte gli scherzi: è una domanda alla quale non si può rispondere. Come se ti chiedessi qual è il tuo disco o artista preferito: difficile rispondere subito e a colpo secco.
Quanto ha senso ispirarsi, almeno a parole, a Berlino o Londra o Ibiza e quanto invece bisognerebbe parlare di una “specificità italiana” nel clubbing?
Io credo molto nella scena italiana e penso che sia importante cercare di contrastare questa esterofilia dominante in Italia. Da nord a sud nel nostro paese abbiamo eccezionali produttori e dj che purtroppo devono spesso “cedere il passo” anche qui da noi ad artisti stranieri, perché un nome anglosassone sul flyer (magari con sotto scritto il nome di una label di peso e una città come appunto Berlino o Londra) tira più di un artista italiano. Delle città che tu mi citi, quella che conosco meglio è Berlino. Così come Londra, che è una megalopoli multiculturale che ha permesso l’incontro e il confronto di moltitudini di artisti (in ogni ambito musicale e non solo) creando le premesse per la nascita di generi all’epoca nuovi come acid jazz, 2step, drum’n’bass, breakbeat, oltre a nuove influenze in ambito house e techno, allo stesso modo Berlino, dopo la caduta del Muro, è stata un catalizzatore di artisti da tutto il mondo, come fu Parigi per la pittura a inizio Novecento. Questo dovuto al basso costo della vita e alla carica artistica esplosiva che poteva avere una capitale dopo decenni di repressione sotto la DDR. Un intrecciarsi di cause, eccezionali e forse non ripetibili, che ha fatto di Berlino l’epicentro dell’elettronica europea e di diverse avanguardie artistiche. Penso però che dovremmo trovare la forza anche in Italia di creare dei laboratori, dei network e dei poli che permettano ai nostri giovani artisti di tirar fuori il meglio che è in loro. Dobbiamo imparare ad organizzarci di più. L’esterofilia si sconfigge anche così.