Ricordo essere certamente pomeriggio e che l’info audio/visiva mi arrivò da MTV, che allora trasmetteva ancora solo video. Io in quegli anni orbitavo tra rap, tag e centri sociali, ero ancora in piena infatuazione da Cypress Hill e di musica elettronica ne sentivo poca. A ballare ci andavo ancora meno: dopo alcune frequentazioni al Genux di Lonato sul Garda in fase pre-maturità (e comunque solo in periodo estivo), le mie apparizioni in discoteca si erano fatte sporadiche – per non dire nulle – se non qualche fine serata a Downtown al Leoncavallo (che proprio una discoteca non era), dove comunque non ricordo si suonasse house. Forse qualche volta si andava in Mandragola in Aspromonte a sentire un primissimo Leo Mas, ma potrei aver fatto confusione di un paio d’anni.
Quello che ricordo benissimo, però, è stata la folgorazione già dalle prime note e dalle prime immagini di “Around The World”: è vero, richiamava in maniera impressionante “Pop Corn” di Gershon Kingsley, che nei posti che frequentavo, tipo il Baretto del Leo, girava spesso facendo sbocciare questa associazione. Dicono, ed è vero, ricordasse anche un pezzo degli Chic ma onestamente in quegli anni sentivo altro funk – soprattutto Prince – e la band di Nile Rodgers mi sembrava una cosa troppo commerciale. A quei tempi il concetto di mainstream non era ancora diffuso ma se qualcosa aveva un successo tra il “popolo”, o l’ascoltavano quelli fuori moda, la si bollava come commerciale e chiusa lì.
Errori di gioventù che ho imparato a non ripetere più, anche grazie a questo anonimo duo francese che si presentava al mondo proponendo qualcosa di totalmente nuovo e che dalla mia ignoranza del tempo (non c’era internet) era definibile in una sola parola: ri-vo-lu-zio-na-rio.
Di “Around The World” mi colpì innanzitutto il video e subito dopo il basso, insieme a quella vocina effettata (il termine “pitchata” lo appresi dopo) e la melodia generale del pezzo: il suono di “Around The World” era per me, direi per tutti, qualcosa di veramente nuovo.
Un suono che tra l’altro proveniva da una nazione che musicalmente ai più non aveva dato granché: ha ragione Zingales quando – parlando di “Homework” – definisce vuoto lo spazio della musica francese prima dei Daft Punk, soprattutto se riferito a una musica fruita dai ventenni di allora.
Va detto che nel sottobosco rap, posse e cose così dalla Francia arrivavano cose fighe. “La Haine” era ancora negli intenti di tanti, c’era del buon rap – anzi ottimo rap – ma quello che successe con l’uscita di “Homework” spazzó via tutto, veramente tutto: parliamo del successo planetario di un disco con i suoi singoli trainanti trasmessi in ogni sperduto angolo del mondo. Il cambiamento partì da “Around The World” complice, come detto prima, un video incredibile diretto Michel Gondry, a livello (per coreografie e impatto) almeno di “Thriller” di Michael Jackson. In pochissimo tempo tutti ballavano, mimavano e ascoltavano i Daft Punk. Chi andava oltre e comprava il disco scopriva molto di più nello scorrere delle tracce: scopriva il french touch.
Che vi capiti di prendere un taxi in Francia, o mangiare all’Hotel Amour oppure di entrare in una Brasserie a Pigalle a prendere delle chouquettes, quello che sentirete uscire dalle casse dell’impianto è french touch tutto il giorno, praticamente a tutte le ore: i più cool sono sintonizzati su radio FG (Fréquence Gaie) una radio che in Francia vale quanto Radio Italia – solo musica italiana – e dalla quale sono passati tutti i maggiori dj francesi (Guetta e Sinclar su tutti).
Che ci si creda o meno, a massificare se non addirittura a inventare il french touch almeno nel lato dance della cosa – in Francia si fece molto in fretta a definire, sbagliando, con il termine french touch qualsiasi cosa venisse da lì, da gli Air a Dimitri From Paris – altri non furono che Thomas e Guy. Come e quando è facile definirlo: a parere di chi scrive la responsabilità ricade su “Phoenix”, la #5 di “Homework”. La traccia ha un beat techno, che parte e prosegue insolente fino al minuto 01:23, da quel momento in poi succede l’incredibile: il sample che vi si piazza sopra è un break tagliato e festoso, filtrato all’esasperazione preso da “Don’t Go Breaking My Heart” di Elton John e Kiki Dee. Il risultato è che si capovolse il mondo, i due francesini tabagisti (ho amiche che frequentavano il loro stesso liceo che li ricordano fumare mille sigarette) avevano semplicemente campionato l’impensabile dando il via a un movimento musicale importantissimo, fondamentale per la musica dance ed elettronica di cui “Homework” fu l’asse portante su cui si basava tutto.
La formula con cui settantaquattro minuti di musica riuscirono a proiettare il duo parigino in cima al mondo – e successivamente nella storia – fu dannatamente semplice: nessun paradigma, nessun limite, vale tutto e per tutto s’intende qualsiasi tipo di suono, genere o influenza pronta a creare quello che era un sound scemo, stupido, punk.
In “Homework” entra ed esce di tutto: acid house,techno, funk, Chicago house, musica pop, heavy metal (anche se alla lontana con delle influenze tra kiss ed Eddie Van Halen celebrato meglio molto meglio in “Aerodynamic”) e disco music ovviamente. Da Barry White a Vaugan Mason and Crew a Billy Joel, non ci sono regole di grossa rilevanza né nello scegliere il campione, né nel tagliarlo o riadattarlo, né su cosa cucirlo. L’importante, l’unica regola imposta, era il controllo: del sample, del suono e poi di tutto, in maniera anche destabilizzante, in un gioco vicinissimo alla maniera di produrre hip-hop soprattutto almeno nel lato musicale della produzione.
“Homework” parte e finisce senza un vero e proprio filo logico o conduttore, stando lontano, molto lontano, dal big beat dei Chemical Brothers o dalle influenze rave coatte dei Prodigy, in quella che più che un album va considerata come una raccolta di singoli dei Daft Punk, capace di calamitare l’attenzione per ognuna delle sue tracce: diventando seminale per il ritmo ossessivo-compulsivo di un pezzo come “Da Funk”, ripreso da tutti – Miss Ciccone adorava e implorò i due di produrgli un album, non se ne fece nulla come era logico aspettarsi e allora Madonna qualcosa prese da sé per “Music”; o per il giro di basso di “Burnin’” e per i flanger e per i filtri sparsi qui e là in tutta la raccolta, divenuti poi i marchi di fabbrica del duo; o ancora, infine, per il synth di “Alive” che si può sentire, se non uguale francamente molto simile, in molti banger electro venuti dopo.
Per tutte queste ragioni, “Homework” divenne il disco portabandiera del do-it-yourself, prodotto come fu in una cameretta o poco di più.
A linee generali questo fu “Homework”, ma se ne potrebbe parlare per libri e per trattati. Chiunque, per assurdo veramente chiunque a partire da quel gennaio del ’97, appena si è avvicinato anche solo minimamente al suono dei Daft Punk ci si è dovuto poi confrontare; basti pensare, chi scrive recensioni lo sa, a quante volte si evita di citarli, per non finire a nominarli sempre. Perché è scontato, perché è stucchevole.
“Homework” molto più di “Discovery”, di cui l’approccio era sicuramente più facile, fu il disco dei dischi per chi produce, ascolta, balla o vive di musica elettronica: “Homework” fu un regalo degli dei della musica, un esordio talmente immenso di cui gli stessi Daft sono stati vittime, considerando i detrattori di “RAM” o gli storcinaso di “Human After All” che vorrebbero un “Homework” al giorno in uscita, un disco di cui oggi celebriamo i vent’anni e su cui torneremo ancora e ancora per rendergli omaggio.
Inarrivabile,ineguagliabile nell’Olimpo creatura degli dei tra gli dei: buon compleanno capolavoro!