Gli anni ottanta non stavano finendo in maniera semplicissima per gli U2: il successo planetario di “The Joshua Three”, l’album che festeggia il suo trentesimo compleanno proprio in questi giorni e che durante la prossima estate riempirà lo Stadio Olimpico di Roma per due serate celebrative già praticamente sold out, aveva preso quella che negli anni d’oro del post punk e della new wave era nata a Dublino come una normale “band d’istituto” e l’aveva trasformata in una vera e propria macchina da guerra. La più grande band del mondo, e i suoi componenti erano gli ennesimi salvatori di una patria rock, già all’epoca ritenuta morente sotto un tripudio di sintetizzatori e di lacca per capelli.
Con “Joshua Three” gli U2 avevano scoperto l’America ed erano definitivamente usciti dall’Irlanda, ma “Rattle and Hum”, il disco che documentava proprio questa infatuazione per gli Stati Uniti del roots rock e l’omonimo film a cui l’album fungeva proprio da compendio, non erano andati poi così bene. Fosse uscito al giorno d’oggi probabilmente la critica avrebbe parlato apertamente di cultural appropriaton, ma nel 1988 quel termine non era ancora in voga.
Semplicemente c’era qualcosa che non tornava in quei ragazzetti irlandesi tutti mullet e chiesa e che improvvisamente si erano messi a giocare col rock’n’roll, il blues, e il mito dell’America di frontiera.
Il mondo stava cambiando, la guerra fredda sarebbe finita a breve, e Bono Vox e soci stavano facendo davvero fatica a ritrovare il loro posto nel mondo.
Esaurita la strada del rock sapevano di essere obbligati a un nuovo cambio di marcia ed era chiaro a tutti che il luogo dove guardare sperando di trovare qualche novità in grado di far scattare la scintilla andava ricercato nel mondo delle discoteche e della musica elettronica, quello dell’hip hop e delle drum machine che, in qualche modo, aveva già influenzato la cover di Night & Day di Cole Porter che avevano realizzato per la compilation “Red, Hot + Blue” e che aveva finito per indicare loro la giusta rotta da percorrere.
Per un ipotetico nuovo album avevano però bisogno di qualcuno che potesse aiutarli a fare ordine nell’enorme mole di provini ritenuti papabili e che si prendesse l’onere di dare una forma precisa a un qualcosa che in quel momento stava ancora nascendo. Un lavoro delicato e che poteva svolgere solo qualcuno che avesse una gran confidenza col gruppo ma abbastanza carisma e pelo sullo stomaco per prendere decisioni anche all’apparenza impopolari.
La scelta cadde su un trio di facce note: Daniel Lanois come produttore principale, Flood come ingegnere di studio e Brian Eno nel ruolo di guastatore.
Quello che avrebbe dovuto distruggere ogni certezza, o per dirla con quasi le sue stesse parole: quello che si recava in studio per una settimana ogni paio di mesi solo per ascoltare quanto avessero registrato e poi eliminare tutte quelle parti o canzoni troppo assimilabili ai vecchi U2.
Quello che aveva costretto la band a lasciare le loro belle case di Dubilino, le mogli, le famiglie e le modelle fighe (nel caso di Adam Clayton) per trasferirsi nella più oscura e fredda Berlino solo perché: “La domesticità è nemica del rock’n’roll”.
Come luogo designato per le registrazioni del disco vennero scelti gli storici e gloriosi Hansa Tonstudio dove Brian Eno aveva già lavorato con Bowie e Iggy Pop per tutti gli album realizzati durante il tormentato e delirante periodo berlinese del duo.
Che gli Hansa Tonstudio siano una specie di luogo mitologico è cosa nota anche ai non appassionati di musica: in principio era una sala da ballo che, in epoca nazista, veniva usata per le feste e le celebrazioni delle SS. Un lunghissimo camerone dotato di pavimento a scacchi dall’aria tetra e l’atmosfera unica. Da lì dentro sono passati praticamente tutti: Bowie e Iggy Pop, appunto, ma pure i Tangerine Dream, i Killing Joke, David Sylvian, Nick Cave, i Pixies e i Depeche Mode (e questi escludendo tutti quelli che ci sono andati DOPO gli U2 e che sono anche di più), segno che si tratta proprio di un posto speciale. Un posto dove le cose succedono.
Di quei giorni passati all’Hansa esistono racconti e aneddoti che rasentano il surreale: gli U2 arrivarono in città proprio nei giorni in cui si festeggiava l’anniversario della caduta del Muro e l’unificazione della Germania. Vennero subito catturati dal clima di festa e dalla strana tensione che si respirava a Berlino, al punto che registrare il disco era quasi diventato marginale: in quel momento era più importante uscire, fare tardi, ubriacarsi, drogarsi, frequentare gli squat, andare a ballare la techno. Tutte cose che in qualche modo sono finite per confluire dentro le canzoni di “Achtung Baby” ma che stavano mandando la band a gambe all’aria.
L’idea iniziale era quella di catturare gli stessi impulsi che in Inghilterra stavano influenzando la famosa scena di “Madchester”: utilizzare gli elementi tipici della scrittura rock, ma filtrandoli attraverso un’idea di produzione e arrangiamento più vicina all’universo della dance.
Ma se a Manchester dominava l’ecstasy, la voglia di far festa e la house, a Berlino si respirava un’aria completamente diversa, soprattutto tra gli U2.
Bono Vox negli anni ci ha sempre scherzato su: “Siamo andati in un posto dove tutti festeggiavano perché era stato abbattuto un muro e abbiamo finito per crearne uno nuovo tra noi quattro”.
Le fazioni erano chiare: da una parte proprio Bono e The Edge, entusiasti del nuovo corso, della vita in città e delle sperimentazioni che stavano facendo in studio, dall’altra Adam Clayton e Larry Mullen Jr che non erano praticamente d’accordo su nulla ma che soprattutto non ne potevano più di stare a Berlino, città di cui non sopportavano un bel niente: dal cibo allo stile di vita, solo disagio.
È infatti surreale che quello che viene da tutti storicamente considerato come il disco berlinese degli U2 abbia trovato la sua vera forma proprio grazie al compromesso che ha permesso il ritorno sulla via di casa: “Ok, facciamo il disco che volete voi, coi suoni che volete voi, scartando le canzoni che non piacciono a voi, ma lo facciamo a Dublino. Altrimenti salta tutto”, questo è più o meno quello che la sezione ritmica del quartetto ha imposto agli altri U2 e che, rischiando di far naufragare tutto, ha permesso alla band di trovare la famosa chiave che erano andati a cercare fino in Germania. Un salto nel vuoto da cui è nato un capolavoro.