Ci risiamo. Altro ordine di chiusura, da parte della questura, per la Tipografia a Pescara. Novanta giorni, stavolta, dopo aver riscontrato tutta una serie di irregolarità ma anche dopo aver rinvenuto dosi di stupefacente durante una perquisizione (si parla di marijuana e cocaina rinvenute con unità cinofile). Ora, quello che inizia a diventare un gigantesco punto interrogativo è – ma cosa succede a Pescara? Perché non è certo la prima volta che questo succede alla Tipografia, è l’ennesimo provvedimento di chiusura che la tocca, però lo stesso fuoco di fila di chiusure aveva toccato anche lo Zu::Bar, fino a pregiudicarne definitivamente l’attività (almeno entro le mura fisiche del club).
La domanda è, detto molto seccamente: ma a Pescara è impossibile fare club culture? Solo a Pescara un certo tipo di serate con un certo tipo di artisti sono una minaccia seria e grave per l’ordine pubblico, da reprimere seccamente? O anche: solo a Pescara i gestori sono così avidi e/o incapaci da poter operare solo ed unicamente senza rispettare le legislazioni sui pubblici spettacoli?
Non sono necessariamente domande retoriche, attenzione. Anzi: si tratta veramente di capire dove stia il problema. Tra i rilievi mossi alla Tipografia, a giustificazione del provvedimento di chiusura per novanta giorni, vi è ad esempio anche il fatto che “il tesseramento era effettuato senza alcuna formalità”. Tradotto, visto che l’ingresso era con tessera ARCI, se arrivavi senza, te la facevano lì sul posto. Che è una cosa normale immaginiamo per chiunque di voi abbia avuto a che fare con una tessera ARCI, o AICS, o anche di altro tipo, no?, ma effettivamente a voler applicare alla lettera la legge ogni tesseramento dovrebbe essere valutato, soppesato, approvato dall’intera direzione del circolo in questione, riunito in assemblea per valutare la candidatura di nuovi associati. Questa forse non la sapevate.
Ora, onestamente, visto che appunto nella stragrande maggioranza dei locali in Italia il tesseramento, se necessario, avviene senza problemi alla porta, si tratta di capire dove stia il problema: se nella legge, o se nella sua interpretazione troppo rigorosa e repressiva. Parlando per esperienza personale: quando a Milano la sindaca Moratti aveva deciso di usare la clava contro i circoli ARCI (che chiaramente di loro non avevano granché simpatia verso di lei), il trucchetto più efficace era stato proprio quello del tesseramento che non può avvenire contestualmente all’ingresso. In questo modo alcuni posti strategici per la scena musicale locale sono stati praticamente chiusi (pensiamo ad esempio alla Casa 139, leggete qui perché è istruttivo), ma a Moratti decaduta e non rieletta stranamente non si è più sentito parlare di questo problema. Si sono organizzati tutti in altro modo? E’ stato trovato un escamotage perfettamente legale per aggirare legalmente questo limite? E se è stato trovato, come mai alla Tipografia non lo adottano?
A Tipografia si potrebbe chiedere anche come mai la capienza fosse rimasta ferma a 99 persone. Cioè, in realtà lo sappiamo anche, o almeno lo intuiamo: nei circoli associazionistici, esiste una grande differenza se la capienza è compresa entro le 99 persone o se la supera, a livello prima di tutto di adeguamenti strutturali del locale. Ma possibile che a Tipografia rischiassero scientemente la chiusura ad ogni serata, visto che quasi sempre – vista la qualità della programmazione – arrivano più di 100 persone ai loro eventi? Poi ci sarebbe anche da estendere la visuale all’Italia tutta, scoprendo che le capienze legali spessissimo non sono rispettate anche e soprattutto perché palesemente inadeguate rispetto al buon senso: ci sarebbe da ridere, a svelare la capienza legale di molti club e sale da concerto in Italia. Non è che forse anche in questo caso la legge è troppo restrittiva, diciamo troppo “apprensiva”? Com’è possibile che in un locale che più volte ha ospitato fino 600/700 persone, e dove con 250 persone si sta belli larghi e comodi, la capienza legale fosse 99? I gestori del posto sono dei criminali? La capienza è rimasta a 99 solo ed unicamente perché loro, spilorci, non volevano fare gli adeguamenti necessari a livello di sicurezza pur di tenersi in tasca qualche euro in più da spendere in champagne ed aragoste?
Ragioniamoci, su tutte queste domande. Ragioniamoci non solo per Tipografia – che peraltro, lo ripetiamo, aveva una programmazione di altissimo livello, come ce l’aveva lo Zu::Bar – ma facciamolo per tutte le altre realtà d’Italia e, in generale, per un modo di fare davvero tipico del nostro paese. Le legislazioni sono fatte in modo tale per cui, spesso e volentieri, se le rispetti alla lettera semplicemente non puoi fare nulla: tutto troppo complicato, troppo insostenibile economicamente, quasi per chiunque. E’ sana, questa cosa? E’ ragionevole? L’Italia, che non ha certo una piena occupazione come possono averla Germania ed Olanda – tra l’altro molto più permissive a livello di legislazione logistica sui locali adibiti a pubblico spettacolo – può permettersi di essere così repressiva e depressiva sull’economia dello spettacolo e dell’intrattenimento? Ma al di là di questo: che etica ha uno Stato in cui la possibilità di fare qualcosa pare legata ad una specie di reciproco patto tacito, un “chiudiamo un occhio rispetto alla legge, basta che non fai casini”, che però diventa una formidabile arma per cui – quando ti gira – tu Stato o tu Comune puoi comunque chiudere un posto quando ti pare e piace?
E non è solo un problema lì dove si balla la “musica dei drogati” (…come se la droga fosse solo lì dove ci sono techno e house, lì e solo lì: certo, come no). Questa filosofia malata è pervasiva, la si vede anche nel mondo del lavoro, dove da anni sempre più aziende assumono con contratti atipici o ti spingono ad aprire partite IVA, obbligandoti però ad avere tempi e doveri di un dipendente. Applicando alla lettera la legislazione lavorativa, un numero enorme di attività imprenditoriali sarebbe costretta alla chiusura, perché non più in equilibrio economico (tra contributi, stipendi legati al contratto nazionale, eccetera) o operativo (tra obblighi di presenza ed orario).
Comunque ok, non vogliamo allargare troppo il discorso. Stiamo a Pescara, stiamo a Tipografia, stiamo al fatto che nel capoluogo di provincia abruzzese pare impossibile fare quello che si fa in moltissime altre parti d’Italia senza particolari problemi e senza continue chiusure dei locali: dove sta il problema? Non è una domanda retorica, lo ripetiamo. E, a maggior ragione, la risposta diventa sempre più importante ed urgente. Non solo per ballare e far festa con questo o quel dj, ma per una sana attività imprenditoriale con ricadute profondamente positive sul territorio.