Quando due stimati producer decidono di unire menti ed ispirazioni per un side project, la curiosità è sempre ad alti livelli, così come le aspettative. Poi, però, può facilmente accadere che le aspettative siano troppo alte rispetto ai riscontri reali. Le joint venture tra artisti nascono fondamentalmente per diletto degli artisti stessi, dandogli modo di respirare aria nuova, magari allontanandosi dai propri soliti binari. Ciò non dovrebbe però per forza implicare l’uscita di un album (o più). Oppure no?
Noi, intanto, nell’attesa della sua prossima uscita del 10 febbraio, vi accenniamo qualche nostra impressione al riguardo legata all’imminente, nonché seconda, uscita a firma Vermont, “II”. Il progetto è frutto del duo tedesco composto da Danilo Plessow, meglio noto come Motor City Drum Ensemble (ricordate quando ve ne abbiamo parlato nella nostra monografia?), e Marcus Worgull, stimato dj e producer tedesco membro di Innervisions, label berlinese fondata da Âme e Dixon.
Danilo, (ormai ex) enfant prodige dell’elettronica, dalle conoscenze tecniche sopraffine e ormai da anni sulla scena, col suo progetto è solitamente accostato a sonorità house ballabilissime, sporcate di sample soul e sferzate di synth a renderle fresche e veraci. Marcus rientra altrettanto nel filone house, nel suo caso molto più deep e meno imprevedibile. Quindi, trattasi di due nomi strettamente collegabili ad un genere dancefloor-friendly.
Se due mattatori del dancefloor come i suddetti decidono di dedicarsi ad un progetto parallelo, ci sta assolutamente che virino su territori distanti da quelli danzerecci, perchè no.
Il genere scelto dal nostro duo, sin dalla loro primo Lp omonimo “Vermont”, è collocabile in una nicchia definibile come un mix tra Kosmische Musik, proto – New Age, Ambient, Krautrock e colonne sonore anni ’70 a base di scorpacciate di synth. Ascoltandoli è tutto un fluire di riconoscibili ispirazioni e rimandi, in primis a Cluster, Hans Joachim Roedelius, Popol Vuh. Non mancano gli ospiti speciali, sia nelle tracce che tra la strumentazione utilizzata. Robbert Van Der Bildt aka Kaap compare alla chitarra nel pezzo di apertura “Norderney”, fluido fino a farsi etereo, e in “Ufer”, dove la trama della struttura prende lievi derive d’improvvisazione sonora. I featuring di Dermot O’Mahony e Tadhg Murphy ai sintetizzatori si inseriscono invece in “Dschuna”, intinta di synth e nenie carezzevoli che terminano con violini d’impatto emotivo, “Chanang” – forse la traccia più incisiva dell’album – e “Wenik”, in cui permane questa componente di improvvisazione da jam session in divenire.
Per quanto riguarda invece il gear porn, ne saranno certamente soddisfatti gli estimatori feticisti: in tutto il disco fanno capolino giocattolini come l’Arp Odissey e il Moog Prodigy, passando per altri come Fender Rhodes, svariati Juno e Prophet. Questi trovano culmine in tracce come “Gebirge”, di forte impatto atmosferico, siderale, con adorabili sequenze di arpeggi sintetici ipnotici e suoni tanto morbidi, quanto emotivamente taglienti; oppure in “Demut”, nostalgica e molto cinematografica, sempre con i synth a guidare il tutto, sfumando quasi in una nebbia da toccare con mano. “Ki-Bou” è la prima traccia a portare echi nemmeno troppo lontani di deep house in divenire, famigliare ai due producer, senza però mai acquistare ritmiche o esplodere, lasciando sempre in un limbo tra il rilassante e l’emotivamente teso.
Tutto fila davvero molto liscio, forse troppo, per tutto l’album, mancando in verve rispetto all’album d’esordio. Se, come ha scritto un mio collega, il loro primo lavoro “[…] se ascoltato tutto d’un fiato, non riesce a nascondere un’anima comunque tormentata e capace di sottrarre quei punti di riferimento che, magari frettolosamente, avevamo riconosciuto nelle synthline“, in “II” si ha come l’impressione che il tutto manchi probabilmente di una dose di identità forte rinnovata, nonostante i suoni e le strutture dei pezzi siano curatissime. Spesso la sensazione è quella di stare ascoltando un discreto album tedesco di kosmische musik fine anni ’70. Senza nulla da aggiungere. E si ha pure l’impressione scivoli via troppo leggero, senza lasciare nessuna traccia realmente incisiva. Un po’ come una sorte di elevator music dal sapore space age – ma non troppo.
Ci riesce facile immaginare che i nostri “Vermont” (e gli ospiti della loro seconda uscita) si siano goduti molto la realizzazione in divenire e le improvvisazioni scaturite per “II”. Ma riteniamo anche che si siano fatti trasportare forse un po’ troppo da una forma acuta e nostalgica di “gearpornismo” e meno da una reale volontà di continuare un progetto dall’identità forte.
Ottimo ascolto per rilassarsi, ma non abbastanza incisivo e profondo da risvegliare eccessivi entusiasmi. Alle vostre orecchie, comunque, l’ardua sentenza.