Ci è riuscito di nuovo, Danny Boyle. Esattamente come vent’anni fa, lui – assieme a tutto il team che si è radunato attorno alla saga creata da Irvine Welsh – è riuscito di nuovo a raccontare perfettamente lo spirito dei tempi. O almeno: a raccontarlo, stilizzarlo, interpretarlo precisamente secondo il modo in cui lo vede, interpreta ed agisce chi negli anni ’90 davvero vibrava in perfetta sincronia coi propri tempi, davvero si emozionava, davvero pensava a come fosse possibile raccontare la realtà in tutte le sue sfaccettature, anche quelle più scure e problematiche. E aggiungiamo: esiste una chiave interpretativa attraverso cui con “T2 Trainspotting” si può capire molto, moltissimo di tutto ciò che è club culture oggi, esattamente come il “Trainspotting” originario, pur non essendo un film sui club e la scena della musica elettronica, rendeva perfettamente un certo tipo di vibrazioni che chiunque andasse con serietà e costanza alle serate techno e house non poteva non sentire come proprie. Lo faceva in modo talmente vivido che riusciva, ricordate?, a mandare un pezzo come “Born Slippy” (pesantemente techno nella parte ritmica, completamente privo di ritornello) in cima a tutte le classifiche di vendita e di ascolto. Un miracolo che non si è praticamente più ripetuto. Perché oggi è diverso, oggi la dance che va nelle classifiche è quella geneticamente mutata dell’EDM, ovvero lì dove ci si imbastardisce con le regole del pop, se ne mutuano i capisaldi, se ne assumono le armature (le melodie, certe progressioni armoniche e, appunto, i ritornelli coinvolgenti).
Attenzione, infatti. Guardare “T2 Trainspotting” con un approccio musicologico è profondamente istruttivo. Si dice tanto che questo secondo episodio è un film incentrato sulla nostalgia: verissimo. Lo dicono apertamente gli stessi protagonisti, in alcuni monologhi. Perché non guardano al futuro. Lo fanno poco. Anche quando lo fanno, sono prima di tutto impegnati a fare i conti col passato. Da esso partono, esso è il primo motore di tutte le loro azioni, esso è la radice di ogni loro azione e decisione. Insomma: il “significato” delle cose e ancora di più il loro sapore nasce da ciò che c’è già stato, da ciò che è esistito. Che è esattamente quanto sta accadendo da un po’ di anni nella club culture più autentica (quella che nasce come radicalmente diversa ed opposta rispetto alla galassia pop, anche quando raggiunge vette di popolarità e numeri da buon pop). Quali sono le grandi novità oggi nei macrocosmi techno e house? Onestamente, non ci sono. La techno di stampo berghainiano, i Dettmann e i Klock per intenderci, è una rimasticatura ed un ispessimento di quanto già narrato da un Jeff Mills e un Robert Hood ancora nei primi anni ’90; pure la sua componente più “arty”, da Sandwell District a Vatican Shadow alle uscite Pan in giù, pesca a piene mani da patrimoni sonori noise, industrial, new wave, ambient già codificati ancora decenni e decenni indietro. Per la house? Uguale. Il massimo della sciccheria e dell’autenticità è suonare come negli anni ’90, no? Che sia la declinazione deep o che sia la versione più cruda e “sporca”, in qualche modo si gira sempre attorno a monumenti estetici del passato. Il valore dei dj migliori oggi, quelli più apprezzati dalla critica “intelligente” aspirante tale (noi fra questi), è anche e soprattutto un metadiscorso su come e quanto si cita dal passato, su come siano in grado di farlo bene. Viene premiata più la competenza bibliografica del tirare fuori perle del passato che la capacità folle di inventare il futuro e/o di disegnare il suono del momento, con la sua urgenza, con la sua viralità “selvaggia” e anche antipatica (…perché in quest’ultima disciplina la simpatia se l’è sempre presa e sempre se la prenderà il pop, o la dance purché spuria ed imbastardita dal pop).
Ecco. “T2 Trainspotting” è così. Si autocita. Si autocita apertamente. E fa anche un lavoro meraviglioso nel citarsi: incredibilmente accurato dal punto di vista stilistico, meravigliosamente azzeccato e competente, sì, manco fosse un set di Antal o Hunee, col loro scavare nel passato, nell’archeologia disco più preziosa. Perché non cade mai in una vuota, stanca e retorica magnificazione di sé, ma trova sempre la giusta misura per non cadere in questa trappola. Temevamo infatti che questo seguito potesse essere un gran passo falso, una presuntuosa celebrazione di se stesso: si celebra, sì, si autocita come dicevamo, ma con un’ironia amara e un disincanto che denotano grande intelligenza e competenza cinematografica e sceneggiatoria. In più, usa perfettamente i mezzi che l’estetica e la tecnologia contemporanea declinano; non sa di vecchio infatti, esattamente come un set di Antal e Hunee che suonano funk, soul, disco e house d’antan non suonano mai vecchi, non sono disconostalgia, non sono “Ottantavogliadi”, la differenza la senti eccome.
Eppure, tutta questa competenza tecnica è al servizio del passato. Tocca la nostre corde, quelle di noialtri del clubbing più puro e avvertito, perché anche noi abbiamo in qualche modo deciso, almeno al momento, che certi pilastri fondanti sono quelli già eretti, benedetti e collaudati. Mentre invece negli anni ’90 c’era ancora l’onda lunga dell’acid house: ovvero dello scaraventare via la liturgia del pop e del rock (ma anche quella del punk), del trovarsi in tanti non per guardare gente che suona su un palco ma per ballare, per costruirsi il proprio mondo, il proprio palco dentro la propria testa (…anche senza aiutini chimici, perché lo si può fare volendo anche senza aiutini chimici). Non volevamo citare, negli anni ’90. Eravamo fieri di essere diversi. Eravamo così fieri da poter, voler e dover rendere eroi anche dei loser, dei drop out, dei cavalieri sbrindellati ed imperfetti che però avevano il coraggio di dire no al mondo “normale”. Ci sentivamo anche noi un po’ così, fosse anche solo per un sabato sera. Non volevamo farci fotografare, alle serate; non ci passava neanche per la testa di metterci in posa di fronte ad un obiettivo mentre eravamo su un dancefloor, ci credete? Avevamo altre urgenze, avevamo altri sogni. Ah, e occhio qua: non sentivamo nemmeno l’urgenza di essere esperti, di far vedere che ne sappiamo, di ostentare i nostri gusti e le nostre preferenze. Cosa che invece oggi abbonda un po’ dappertutto.
Attenzione: non stiamo dicendo che si stava meglio quando si stava peggio. La “normalizzazione” del sentimento, anzi, dei sentimenti attorno al clubbing ha portato anche ad un maggiore ordine, ad una migliore informazione, ad un approccio più sistematico considerando la media di tutti i frequentatori di serate e non solo quella dei pochi illuminati ed inscimmiati – e tutto questo è un bene. Oggi vai a sentire Garnier – tanto per citare il migliore di tutti – perché sai che è bravo, o se non lo sai perché te l’ha detto qualcuno di cui ti fidi; un tempo perché era quello che aveva un sapore particolare, diverso dagli altri, ma in realtà nemmeno sapevi bene chi fosse e cosa facesse (né lui si sbracciava per fartelo sapere). La normalità, la sistematicità e la gerarchizzazione hanno insomma vinto, esattamente come nella vita dei protagonisti di “Trainspotting” in questo seguito targato 2017 comunque ha vinto la vita normale, i lavori diurni, lo stare alle regole, perché anche chi si gonfia di cocaina come Sick Boy si ritrova comunque intrappolato in logori giri di piccole truffe o in anonimi pub scalcagnati da gestire, non è in giro per il mondo a fare follie visionarie insufflate dallo stato di alterazione perenne.
La domanda è: riuscirà “T2 Trainspotting” ad essere rilevante per i ventenni di oggi come lo era stato “Trainspotting” per i ventenni di allora? Quasi sicuramente, no. Ma oh, i ventenni di oggi, quelli magari rapiti dalla magia e/o dalle pratiche della club culture, cosa hanno oggi come punto di riferimento cinemtografico? Cos’hanno? Hanno l’onda lunga di un filmetto insulso cinematograficamente ma molto efficace nel rendere una vibrazione come “Berlin Calling”; oppure hanno quella cosa ridicola di “We Are Your Friends”, che doveva essere il Manifesto della generazione EDM e invece l’unica cosa che ha lasciato è la domanda se la bruttura del film è tutta colpa di chi l’ha fatto o se è proprio la generazione EDM che trova tutto ciò di cui ha bisogno nel divertimento, nei colori primari, nei sentimenti semplificati, e non sa che farsene di discorsi un po’ complessi, un po’ più in chiaroscuro, un po’ più ambigui, un po’ più emotivamente destabilizzanti (…come emotivamente destabilizzato è il Kalkbrenner di “Berlin Calling”, per quanto ai limiti della macchietta).
Un lettore più “neutro” potrà dire: “Vabbé, che è questo insistere sul clubbing, mica c’è solo quello nella società, cos’è questo narcisismo clubbaro…”. Il punto è che ancora oggi uscire fuori a ballare è una delle prime forme di socializzazione e di ingresso nel mondo “adulto”, molto di più dell’andare a sentire un concerto (senza che questo significhi per forza che una cosa sia meglio dell’altra: non è questo il nostro discorso, anzi). Quindi ecco, è una chiave interpretativa che secondo noi ci sta. Tanto più che il successo originario di “Trainspotting”, lo ripetiamo, nasceva anche e soprattutto dal modo in cui riusciva ad interpretare le emozioni di una generazione che aveva fatto del clubbing e della club culture (magari anche ballando indie, non solo techno) molto più un proprio segno distintivo che l’andare regolarmente ai live rock di taglio canonico.
E’ finita. Ora è finita. L’impeto del 1996 non torna più. Fissare i treni non è più un’opzione: è un ricordo. Cosa che non impedisce di dare vita oggi a un film bellissimo, recitato in modo assolutamente magistrale dai protagonisti (è una gara di bravura tra Ewan McGregor, Robert Carlyle, Ewen Bremner e Johnny Lee Miller), girato con un controllo stilistico ed una precisione fenomenali. Andatelo assolutamente a vedere, “T2 Trainspotting”: merita. Ma se il “Trainspotting” originario ha cambiato la vita di molti o almeno è entrato nell’immaginario di una generazione (ed è così), quello uscito adesso non cambierà la vita di nessuno e difficilmente diventerà un film generazionale: perché le generazioni nuove non possono essere “investite” da un film che ragiona così tanto sul passato e sulle occasioni perdute, mentre quelle già toccate vent’anni fa non possono eleggere a bandiera un’opera che racconta come il futuro migliore, quello più eccitante, sia già dietro le loro spalle. Andato, dimenticato, bruciato.