Ironico, sfrenato, ordinatamente sconclusionato, di giulivo buonumore. “Drunk” di Thundercat in uscita oggi su Brainfeedeer è la messa in musica di continui sbalzi d’umore, di tanti up – con o senza sbornia annessa – e qualche down – con o senza mal di testa annesso.
Quello che succede in Brainfeeder ci è purtroppo negato saperlo, ma ci piace immaginare questa label come la fabbrica di Willy Wonka dove il suo boss Flylo, Gene Wilder della musica elettronica, è sempre alle prese con un trick o un’ illusione nel creare, supervisionare, ammaliare il proprio pubblico con prodotti incredibili.
Va da sé che il nuovo disco di un bassista che ha il nome preso da un comics, se accasato a tale fabbrica di dolciumi non possa essere da meno, anche perché insomma il buon Stephen Bruner in quanto a manie grottesche non ha nulla da imparare. È un personaggio da prendere con le molle, passato dal suonare con i Suicidal Tendencies (tre album tra il 2008 e il 2013) a Erykah Badu e che, quando intervistato in merito al suo suonare “multi-genere”, dichiara di sentirsi un X-Men per la capacità di adattare all’ambiente e al momento circostante il suono del suo basso. È logico quindi che dare carta bianca a un personaggio simile equivale a creare paradossi come pianeti vivibili a 39000 anni luce.
Di fatto “Drunk” (presentato in un cofanetto imperdibile) è un disco anarchico, senza un vero e proprio filo logico, una dichiarazione d’intenti volutamente spezzati. Ventitré tracce della durata media di due minuti, dove il nostro rispolvera: fusion (un genere che suona ancora freschissimo e che andrebbe sdoganato una volta per tutte), free jazz, jazz e basta; ballate groovy alla Earth Wind and Fire (“After The Love Is Gone” regna fortissima) dove il virtuosismo del suo basso a metà tra Stanley Clarke e Marcus Miller regna incontrastato su una melodia diafana e volubile, umoristica più che festosa, rincorsa da una voce in falsetto che va a posizionarsi in un immaginario collettivo di vecchi jingle pubblicitari, sigle da vecchie comedy di ovvio stampo west coast e che in alcuni momenti scende in un buio quasi prog (i down di cui parlavamo prima).
Tutto veramente figo, ma sorge qualche dubbio perché se da una parte l’ascolto è stimolante con picchi di sorpresa dovuti alla capacità di far suonare moderna una musica sporca e rétro (la produzione – va detto – ci lascia abbastanza basiti) e impolverata per definizione, dall’altra queste tracce così brevi ormai marchio di fabbrica di Brainfeeder non danno il tempo materiale per appassionarsi, per amare o vivere il pezzo.
Anche i featuring di cui il disco è contornato (ma non farcito) si riducono a piccoli cammei con il solito buon Kamasi, Pharrel sempre più un figurante e sessonist vocale, un Kendrick Lamar in buona forma, un Wiz Khalifa da smoking bianco e la coppia Michael McDonald e Kenny Loggins a mettere una ciliegina dentro un cioccolatino, che dura però giusto il tempo di un morso.
“Drunk” è un album che divide gli animi, un buon punto di discussione. Qui da noi c’è chi adora (chi vi scrive) e pazientemente ascolta in loop e chi darebbe due sberle a Thundercat in forma educativa. A voler essere equilibrati diciamo che il giramento di palle con questo genio nero (perché di questo si tratta) è dietro l’angolo ma si sa, nei rapporti d’amore non tutto fila sempre liscio come l’olio e può capitare un appuntamento sbagliato per eccessive aspettative.
Promuoviamo, ma mascheriamo il disagio con un “è fatto così, ha buone capacità ma non si impegna”, del resto è una frase che più o meno a scuola si sono sentiti dire tutti, dai geni, ai mascherati geni, ai caproni, ai mascherati caproni.