Non è un festival come gli altri, il Sónar. Ma stavolta le cose si ingarbugliano: perché nemmeno Istanbul è una destinazione come le altre, in questo periodo. Per motivi completamente differenti. Non musicali. I fatti: il prossimo weekend, il 24 e il 25 marzo, in uno dei suoi ormai abituali spin off extra-catalani durante l’anno, il Sónar sbarca ad Istanbul. Visto che il team del festival sceglie sempre con attenzione le mete, tra spessore musicale e fascino culturale tout court, la capitale turca da un lato ci sta, eccome, dall’altro però è una scelta problematica. Forse è un caso: ma se andate sul sito ufficiale di un altro spin off sónariano, quello di Reykjavik, sono nominate un po’ tutte le città dove il Sónar negli anni è andato a fare un blitz ma non Istanbul. Controllare per credere.
Qual è il problema? Il problema è già emerso durante qualche discussione in rete, negli scorsi mesi. Ovvero: andare ad Istanbul oggi non è come andare in una qualsiasi altra città. Senza voler entrare in complicate analisi politiche, che però altro non hanno e non possono avere una soluzione unica ed univoca, la Turchia di Erdogan è una nazione dove la libertà di stampa e in generale di indirizzo culturale è negli ultimi anni abbastanza, diciamo così, monitorata. Sono state più volte denunciate le epurazioni successive al golpe fallito di un anno fa, con arresti e destituzioni a migliaia tra la classe intellettuale del paese; ora sono su tutti i giornali le schermaglia diplomatiche pesantissime tra governo tedesco e quello turco (con quest’ultimo che ha deciso in modo grossolano e volutamente simbolico di arrestare il corrispondente del quotidiano Die Welt in Turchia, Deniz Yucel, con le “strane” accuse di “Propaganda terroristica” ed “Istigazione all’odio”). Ma gli esempi simili potrebbero essere tanti.
Non vogliamo dire se Erdogan abbia ragione o torto, nello specifico. Non sta a noi. Ma è oggettivo che abbia instaurato nei meccanismi legislativi e di convivenza collettiva della modalità di confronto e dialettica culturale che non sono i nostri, occidentali e pluralisti, o lo sono solo in parte. Una stretta che potrebbe diventare più forte col referendum imminente del 16 aprile, che potrebbe dargli ancora più mano libera, a lui e a tutti coloro che sono allineati con lui. Insomma, a farla breve: più d’uno si sta chiedendo se andare a svolgere come nulla fosse il Sónar in Istanbul sia un atto superficiale, vacuo e cinico, un modo per non considerare la gravità di quanto sta accadendo in Turchia dal punto di vista della libertà d’espressione. Tipo: “Si, andate a ballare e fare fatturato mentre i dissidenti e gli oppositori politici vanno in carcere e il paese sta per sprofondare nella dittatura: bravi”.
Il problema esiste. Ma va affrontato con calma e sangue freddo. Perché se è vero che è sempre più difficile fare finta di nulla su quanto sta accadendo coi media e con la classe intellettuale turca, almeno quelli non allineati ad Erdogan, è altrettanto vero che non sarà certo l’isolamento – leggi: smettere di venire ad organizzare eventi culturali “progressisti” in Turchia – ad aiutare le persone che vorremmo aiutare, ovvero quelle che sostengono la libertà d’espressione e una società che sia il più possibile laica e pluralista. Questa è la prima cosa da tenere a mente. Possibile obiezione: “Ok, puoi andare a fare gli eventi nella Turchia erdoganiana, ma almeno schierati, prendi posizione, dichiara da che parte stai”. Due domande: quanto è facile schierarsi in maniera univoca? E: quanto è giusto farlo?
Sulla prima, non è semplice farlo. Soprattutto se non sei un cittadino turco, che vive ogni giorno la quotidianità turca, che conosce le dinamiche della società turca. “Esportare la democrazia” è una bellissima idea ma, cifre alla mano, in un po’ di posti del mondo ha fatto danni terrificanti (…meglio essere governati da una dittatura o contare decine, centinaia di attentanti dinamitardi all’anno per colpa del caos politico? La risposta non è semplice, no). Quindi ecco, anche in un caso molto soft come la Turchia, dove c’è assolutamente una democrazia e non una dittatura sanguinaria, la prudenza è come minimo d’obbligo. E le voci, ad analizzare bene la situazione sentendo entrambe le campane, non sono così univoche. Sono in molti a stare dalla parte dell’attuale capo del governo turco, o comunque a non essergli così rigidamente ostili. Tanto per non nascondersi, chi vi scrive si è fatto un’idea non del tutto positiva su Erdogan, anzi: a occhio è un Berlusconi molto più in forma, molto più sprezzante, molto più potente – “putinizzato”, insomma. Però già su Berlusconi, in Italia, i pareri sono discordanti. A me il simpatico Silvio ha fatto anche schifo e sono stato molto in disaccordo con lui durante i suoi anni da uomo di stato e non da semplice imprenditore, ma chi sono io per considerare dei perfetti imbecilli a cui andrebbe tolto il diritto voto quelli che invece pensano sia stato un buon politico, o comunque meno peggio dei suoi avversari negli anni? Quindi già nell’Italia che vivo, respiro e conosco per bene le opinioni su un politico italiano sono discordanti, figuratevi quanto può essere problematico condannare senza appello un politico di un paese in cui invece non vivi e che non conosci per bene. In breve: mi piace Erdogan? No. Approvo il suo operato? A occhio, no. Boicotterei qualsiasi cosa si svolga nel paese da lui governato perché lui rappresenta il Male con la “m” maiuscola? No, assolutamente, è ridicolo e semplicistico vederla così. E se la vedo così io, che non conto un cazzo, accetto eccome che il direttivo del Sónar abbia la stessa posizione.
La seconda domanda posta qualche riga più su è comunque importante. Ovvero: quanto è giusto che un evento culturale si schieri politicamente in modo pesante? In realtà: è giusto, è magari anche apprezzato, ma – non è obbligatorio. Questo è il punto. La cultura non va mai tirata per la giacca, mai. Perché così la si strumentalizza. E’ bello che ci siano dei musicisti impegnati, attenzione: noi personalmente ci esaltiamo quando Damon Albarn o 3D dei Massive Attack si spendono per cause importanti invece di pensare solo a far concerti ed incassare assegni, troviamo fantastico che ogni tanto dei dj dimostrino di essere interessanti a quello che succede nel mondo e non solo alle boule di champagne e alle cubiste in console, ma non ci sogneremmo mai e poi mai di discriminare un dj o un producer perché non si è pronunciato sulla Crimea o sulla questione cecena. Discriminiamo solo i dj e producer che dicono qualcosa che va esplicitamente contro le radici della cultura che li sta ospitando e che loro stanno concretamente usando: ogni riferimento a Ten Walls e alle sue dichiarazioni omofobe è intenzionale (…tanto più che le sue successive scuse hanno un sapore un po’ strano, ma non divaghiamo).
La musica è prima di tutto musica. E quella che offre il Sónar in questa due giorni ad Istanbul è di prima qualità: Moderat, Floating Points, Roisin Murphy, Nina Kraviz, Shackleton, Kode9, Clark, Dj Koze, Helena Hauff, Ryoji Ikeda, Tim Hecker, Nosaj Thing, più moltissimi artisti locali. Tutto nell’arco di 48 ore. Tra questi, parecchi li conosciamo di persona e sappiamo che sono molto, molto sensibili a temi di politica ed attualità. Di sicuro qualche domanda se la saranno posta anche loro, almeno alcuni di loro. La soluzione migliore, abbiamo pensato noi come probabilmente avranno pensato loro, è fidarsi del Sónar: contare che abbia selezionati i migliori partner locali possibili, essere certi che non si presti ad alcuna forma di strumentalizzazione politica senza il proprio consenso (né anti-erdoganiana né pro-erdoganiana). Probabilmente una soluzione corretta è proprio andarci ad Istanbul, aiutando in questo modo un circuito che faccia vivere e crescere una cultura aperta, contemporanea, aperta allo scambio e non chiusa in se stessa e in vuoti (ma ostili) tradizionalismi.
Insomma: il problema c’è. E’ giusto ragionarci sopra. Ma siamo contenti che il Sònar ad Istanbul ci sia. E sì, siamo contenti di andarci: il sottoscritto e Federico Raconi fra qualche giorno saranno lì, a provare a vedere com’è il tutto, per poi potervelo raccontare. Prima di poterlo fare, comunque, ci tenevamo a scrivere queste righe. E se siete arrivati fino in fondo a leggerle tutte, siamo molto, molto contenti. Perché occuparsi di clubbing e di festival significa anche questo: porsi delle domande a trecentosessanta gradi, non solo inseguire il PR di turno per farsi allungare il free drink.