Due album per Planet Mu (“Hyper Flux” appena uscito, seguito del “Kila” del 2015), uno anche per Delsin (“Instant Broadcast”): pochi in Italia, in ambito elettronico, possono contare il CV di Herva. Oh sì. Potrebbe tirarsela, potrebbe fare grandi dichiarazioni da caposcuola, potrebbe trattare tutti e tutto dall’alto in basso (…quanti ne vediamo farlo, pur avendo ottenuto un decimo, a livello di prestigio, nella loro carriera), invece la verità è tutt’altra. Quasi sorprendente, quanto si legge in certi passaggi di questa intervista. Quasi sorprendente, ma sempre molto sincero, molto acuto, molto affilato. E, forse, profondamente realista.
E insomma, per l’ennesima volta hai voluto complicarti la vita con un disco tutt’altro che semplice, tutt’altro che immediato. E questo potendo contare, almeno teoricamente, su una visibilità che pochi hanno, perché non a tutti – almeno qua in Italia – capita di uscire su Planet Mu…
Ti dirò semplicemente la verità: non ho proprio ragionato su questo aspetto, ho davvero fatto solo quello che mi andava di fare. Che poi, ad orecchio non mi sembra un disco così complicato: in giro sento altre cose molto più ostiche, no? Posso solo dire che io sono andato in studio e ho fatto esattamente quello che mi sentivo di fare, con naturalezza. Il titolo “Hyper Flux” nasce anche per questo: le mie prime release, anni fa, erano downbeat oppure house, poi progressivamente sono passato ad altre cose, altre sonorità – ma è stata una progressione naturale. Non un cercare di fare le cose strane apposta, o di complicarsi la vita apposta. Quello che senti in “Hyper Flux” è esattamente quello che mi sento di fare ora, in massima libertà.
Ok. E’ sempre bello e poetico sentire “Ho fatto solo quello che mi andava di fare, senza condizionamenti”: ma non trovi che dopo un po’ diventa un modo per non prendersi delle responsabilità? Cioè, in questo modo la musica resterà sempre trattata come se fosse un hobby, uno sfizio da dopolavoro…
Ma io faccio musica a livello di hobby! Parliamoci chiaro: qui, soprattutto qui in Italia, non conta un cazzo nessuno. O quasi. La stragrande maggioranza delle persone che fa musica in Italia non è che con la musica ci vive, e non è che con la musica dà da mangiare anche ad altre persone. Perché bisogna assumersi delle “responsabilità”? Perché? Io alla fine lo faccio per divertimento: esatto. Quello che guadagno, quel poco, lo reinvesto. Magari per certi periodi riesco anche a camparci, ma proprio stando nel minimo-minimo: ho sempre la stessa Peugeot 206 scassata, ho gli stessi vestiti di quindici anni fa. Insomma, la musica la fai per passione. Non per altro.
Che queste parole arrivino da uno arrivato anche ad un certo livello, con uscite su Delsin e Planet Mu…
Sì, sono felice di essere uscito su Delsin e di essere ora al secondo album con Planet Mu, come potrei non esserlo, ma non è che questo fosse un traguardo, non è che avessi fame di chissà quale riconoscimento. Io la musica l’ho sempre fatta e l’avrei fatta comunque: una volta che la facevo, la mandavo in giro, a qualcuno è piaciuta, bene così. Sai qual è la vera cosa bella di avere un’etichetta? Vedere prendere forma fisica quello che hai fatto in studio, magari in formato vinile; poter ragionare su un artwork di accompagnamento; soprattutto, conoscere persone interessantissime. Se ci pensi, è grazie alla musica che ho conosciuto uno come Mike Paradinas, che se solo me l’avessero detto anni che saremmo diventati amici non ci avrei mai creduto. Ecco queste sono le soddisfazioni. E questo è quello che secondo me puoi cavare fuori dal fare musica. Le soddisfazioni. La musica è una passione, e finché resta tale se sei abbastanza sicuro che te la puoi vivere bene. Se diventa invece qualcosa di più legato ad altre dinamiche, quelle del mercato, del dover suonare in giro, delle agenzie, del fatto che la musica è diventato il tuo mezzo per vivere e mangiare, non sei più libero di fare quello che vuoi. E’ automatico. Diventa una bella gabbia. Il mio obiettivo è di vivere con altro e di lasciare la musica come lo sfogo dove poter fare quello che mi piace, senza restrizioni, l’unico mondo in cui poter fare quello che mi pare, esprimendomi in totale libertà, senza nessuno che ti dice come fare.
Beh, bella risposta. Bella di suo, ma ancora più bella pensando a quanto invece il panorama della musica elettronica sia diventato molto “strategico”: ormai ci si approccia a questa scena sapendo fin dal principio che non basta la musica che fai, devi anche essere molto bravo ad essere manager di te stesso, a sapere come muoverti, dove muoverti, quando farlo. O almeno, questa è la mia impressione. Tu come la vedi?
Non mi far parlare.
Eh, vedi tu se parlare o meno. (risate, NdI)
Parlo intanto per me: a me non me ne frega un cazzo di niente (altre risate, NdI). …ok, allora: non per tutti, ma per moltissimi in effetti le cose stanno come dici tu. Tutti i discorsi su siti, classifiche, agenzie… C’è troppa roba sottobanco, troppa. Ormai ho l’impressione che se vuoi andarti a sentire della musica che sia pura, incontaminata da tutte queste dinamiche, ti devi sporcare le mani, te la devi proprio andare a cercare. Se stai a quello che ti arriva dal web in prima battuta, è molto difficile trovare delle cose che siano pure al cento per cento, non influenzate da tutte una serie di fattori collaterali. Ultimamente – parlo per me, sia chiaro – vedo poche cose davvero interessanti. Vedo invece più una baracca che sta diventando satura. Gli artisti sono tantissimi. Bravi, incapaci? Non so. Sicuramente ce ne sono sia di bravi che di incapaci. Ma per tutti ormai è un obbligo apparente andare di qua, fare quello, fare questo… Insomma, il mercato è un po’ pilotato.
Faccio l’avvocato del diavolo: non è che stai dicendo così solo perché finora non sei riuscito a sfruttarlo a tuo favore, questo mercato e questo sistema?
Se devo arrivare al successo, voglio che questo accada grazie alle persone comuni, a quelle che ascoltano la mia musica, non graze a strategie manageriali di mercato. Sia chiaro: a me interessa che più persone possibili sentano la musica che faccio. Poi, magari mi interessa meno il loro parere; non che non mi interessi in assoluto, ma perché ciò che mi interessa di più è avere un minimo di ritorno economico (per poter così migliorare la mia strumentazione) e avere la possibilità di conoscere persone interessanti. Due cose che ottieni se ti ascoltano più persone possibile. Ma non due cose per cui svendersi. Ti faccio un esempio molto concreto: non avessi mai fatto un disco su Delsin, non avrei mai avuto una scusa per entrare in contatto con Dj Stingray: invece il disco c’era, ce l’avevo fra le mani, ho avuto una cosa concreta da mandargli e quindi una scusa per contattarlo, l’ho contattato e, che ti devo dire, è una persona stupenda. Oltre ad essere una leggenda. Ti rendi conto? Ad un certo punto stavo con lui e persone strettamente riconducibili a Drexciya a mangiare hamburger, come se fosse la cosa più normale del mondo. Queste sono le soddisfazioni che mi bastano. Non mi interessa “arrivare” o “non arrivare”. L’unica domanda che mi pongo è: sei contento di quello che fai? Ti fa stare bene? Finché la risposta è “Sì”, vuol dire che va tutto bene. Se sei più incerto sulla risposta, se non ti viene da darla così immediata e secca, forse c’è qualcosa che non va. Anche perché quando inizi a preoccuparti troppo di certe logiche collaterali, non stai più davvero bene manco in studio. Sì, è un paradosso: io più sono sfigato e meno mi cagano, più penso di produrre musica migliore. Quando vieni risucchiato da tutto un sistema di tour, date, in giro, eccetera, perdi molte energie. E più invecchi, più le cose si complicano.
Tornando più nello specifico ad “Hyper Flux”, mi affascina molto il suo equilibrio “instabile”: le tracce sembrano stare a piedi a fatica, sembrano sempre sul punto di implodere ed afflosciarsi, invece non succede mai. Restano sempre in piedi. E ci restano pure bene, alla fine. Come riesci ad arrivare a questo risultato?
E che ne so! Non te lo so dire! (risate, NdI) Io sono molto categorico su quello che faccio: se mi piace bene, se non mi piace fine. Non mi incaponisco mai a concludere tracce che non mi piacciono. Poi, sono uno che varia molto la strumentazione. Il risultato concreto è che non mi capita mai di sedermi a tavolino e dire “Ok, ora creo una traccia che sia così e così”. Non ho dinamiche predeterminate. Dipende tutto dalle macchine che ho sottomano in quel preciso istante. Chi produce musica, lo sa.
Quanto tempo ci metti a completare una traccia?
Dipende. Ce ne sono alcune che sono rimaste in lavorazione anche sei mesi. Restano lì, in loop, perché magari all’inizio non mi convincono del tutto e le lascio un po’ stare, perché non sono paziente, ma poi capita di tornarci sopra, di lavorarci, e si trova la formula che mi torna. Ecco, sì, diciamo che di solito va in questo modo. Ma ci sono anche tracce che termino in uno o due giorni. Non c’è un modus operandi tipico, sempre valido. Dipende da quali macchine sto usando, dal mood che ho. La musica è la mia passione principale, è il primo motore da cui sono scaturite tante altre cose, tra cui lo scegliere di studiare ingegneria. Quando vado in studio stacco il cervello. Può anche capitare che passi qualche amico e si facciano due chiacchiere, se invece c’è la mia ragazza magari mi metto a farle ascoltare quello su cui sto lavorando. E’ come andare a giocare a calcetto la sera, o nel fine settimana: non è che passi i giorni a studiare gli schemi e a prepararti. Vai, giochi, se la partita va bene ottimo, se non va completamente bene pazienza, vai a berti una birra a fine partita e sei contento lo stesso.
Rispetto a “Kila”, il tuo album precedente, si può tracciare una linea evolutiva che porta fino ad “Hyper Flux”?
No, non credo. L’unica linea evolutiva è quella cronologica: il tempo che passa. In un anno e mezzo, il tempo che è trascorso tra i due album, sono cambiato io per primo. Nel periodo in cui facevo “Kila” ero in fissa con la world music. Tanto più che ero andato a trovare i miei parenti in Costa D’Avorio, mia madre è di lì, e lì già che c’ero mi sono messo a fare gran digging: c’è roba incredibile, trovi stampe che sono uscite solo in quelle zone e non sono mai arrivate in Occidente. Ho comprato un sacco di roba. Mi piacevano le sonorità di quelle aree, e in “Kila” avevo provato a ricrearle solo seguendo una via molto più sintetica. “New world music”, a voler abbozzare una definizione. Su “Hyper Flux” mi sono concentrato ancora di più sulla sintesi, ho praticamente abbandonato i campionamenti (che in passato invece mi era capitato di usare molto). Mi piace variare. Così evito di annoiarmi. C’è chi per carattere ama fissarsi su una via ben precisa e definita, e si sente a suo agio a ripercorrere sempre e solamente quella, io invece dopo un po’ arrivo sempre ad annoiarmi. Anche per questo mi piace “distruggere”: terminato “Hyper Flux”, sono quattro mesi che non lavoro in studio. Per un motivo ben preciso: sto smontando tutto, e sto ricostruendo. Perché voglio dimenticarmi tutto quello che ho fatto nell’ultimo periodo e ritrovarmi nella condizione di lavorare con routine completamente diverse, per quanto riguarda l’uso della strumentazione. E’ divertente, sai? Perché hai come l’impressione di lavorare su macchinario completamente nuovo. E la novità e la scoperta per me sono fondamentali. Figurati, uno come me, che si prende bene già a lavorare sui linguaggi di programmazione.
Ma senti, se ti dico Bosconi?
Dici bene di sicuro.
Ma?
Da un punto di vista discografico, non abbiamo più collaborato, vero. Ma per un motivo molto semplice: ho sonorità diverse rispetto a quelle della label. Sì, non sei il primo a chiedermi “Ma Bosconi? Non siete più legati?”. La realtà è che siamo ancora mega amici. Ci becchiamo appena possiamo, anche semplicemente per prendere una birra. Sono loro, il mio giro di amicizie. Fabio (Della Torre, NdI) come me è di Firenze, anche Rufus lo è pure se ora abita fuori, Martino (Mass Prod, NdI) pure lui sta via ma quando passa da queste parti ci vediamo sempre. Bosconi è ancora adesso una famiglia, per me. Il rapporto umano è incredibile. Come musica, Bosconi è da sempre più dancefloor oriented, più legata al clubbing vero e proprio. E’ giusto così: sono queste le sue radici. Quanto ho fatto all’epoca su Bosconi non lo disconosco completamente, anzi, è stato fondamentale per me, ho imparato tantissimo. Tutte le persone che ruotano attorno a Bosconi sono persone con un cervello eccezionale, da loro non puoi che prendere ed imparare, musicalmente parlando. Ma oggi un “Hyper Flux” credo che non avrebbe minimamente senso, nel catalogo dell’etichetta. Chi la segue, la Bosconi, manco potrebbe apprezzarlo. O almeno credo, magari mi sbaglio, che ne so.
Al di là di quello che fai da solista, c’è poi anche Life’s Track, la creatura-a-due a cui hai dato vita assieme a Dukwa. Quanto cambia la musica che fai? Quanto cambiano i tuoi processi creativi quando lavori in collaborazione e non da solo?
Tanto. Io di mio sono lentissimo, finisco col fissarmi per un tempo infinito magari su dei semplici suoni. Ma quando arriva Marco, lavoro un po’ più di impulso. Perché quando siamo insieme lavoriamo molto sulle macchine, in tempo reale, con un approccio da jam. Facciamo così anche perché la vita è complicata: io ho le mie cose da fare, lui pure, magari in una settimana riusciamo a ritagliarci solo tre ore per noi e, insomma, non c’è tempo da perdere. Tanto più che quando lo studio era a casa sua, devi sapere che se si accendava il forno saltava tutto, quindi dovevamo per forza finire prima di cena! Pure con lui comunque approccio al cento per rilassato, anzi, con lui ancora di più. Perché se da solo magari mi fisso nel voler raggiungere certi risultati sonori, con lui può capitare molto facilmente che ci si dica “Massì dai, facciamoci un jam techno, divertiamoci un po’, passiamo il pomeriggio così”. O si fanno due chiacchiere, si portano le Moretti in studio…
…in bottiglie da 66?
Che domande! Le Moretti esistono solo da 66!
(foto di Chiara Sinatti)