Già da qualche tempo, in un angolo remoto della dance music, è nato un movimento artistico, una corrente per così dire, che pian piano sta prendendo coscienza di sé. Non è stato un inizio prefissato e come ogni nascita non è stata decisa deliberatamente. Non ha nome. Nessun manifesto, nessun annuncio pubblico.
Esiste infatti un’anticamera della sempre meno sotterranea scena underground, in cui un insieme di dj dal basso profilo, prevalentemente di base a Berlino, sceglie di fare il proprio mestiere in modo diverso: l’uruguaiano Nicolas Lutz, il nostro Francesco Del Garda, il turco Onur Özer – con un approccio tutto nuovo rispetto al capitolo minimal che l’ha visto protagonista dentro Cocoon – e il suo vecchio amico Binh, solo per citare qualche nome.
Alcuni puristi – quelli che, banalizzo, la techno è solo quella di Detroit e la house solo quella di Chicago – stigmatizzano questi avanguardisti come retaggi della nauseabonda, ripetitiva, “rumena”, minimal techno. Fanno di tutta l’erba un fascio e li accostano a nomi come Zip, Ricardo Villalobos, Raresh: senz’altro grandi pionieri e instancabili professionisti, ma ancorati e radicati da anni nel loro genere preferito, la loro grande scoperta e la loro fortuna. E per certi versi non è del tutto sbagliato, perché molti nomi di riferimento di questa nuova scena vengono proprio da quella o comunque le strizzano l’occhio o lo hanno fatto in passato.
Ma non è questo il luogo per diatribe famigliari o pseudotali, assolutamente.
Sarà forse una coincidenza, ma non è un caso che il Club der Visionaere si chiami proprio così, come è un fatto che siano visionari proprio quei dj cresciuti tra le sue pareti imbrattate e pericolanti e che ora sono gli esempi per un bel po’ di giovani talentuosi con la stessa attitudine.
Questa visione si traduce in uno stile particolare. Sì, stiamo sempre parlando di techno e house, ma di una ricerca ossessiva e sfrenata all’interno di questi generi, di tracce senza tempo, dimenticate, di sonorità futuristiche scavando tra i dischi del passato. I nomi di alcune delle neonate etichette di riferimento derivano da quest’idea e possono essere eloquenti: Seekers, Time Passages, Subsequent, Timeless.
La “cassa dritta” smette di regnare sovrana. Si sposa con l’IDM e l’electro, che ha radici nel funk e nell’hip-hop, e con ritmiche spezzate che derivano dalla musica breaks, breakbeat e future jazz. Ma il groove non ne risente, sono le linee di basso a trasportare, sono gli incastri non convenzionali dei kick e gli snare taglienti come frustate. Il vinile – nemmeno a dirlo – è l’unico supporto contemplato e la tecnica del mixaggio ha lo stesso valore della selezione musicale. Prediligono sessioni di molte ore, a favore di una vera esperienza d’ascolto; i locali sono piccoli e l’attenzione alla definizione e alla qualità dell’impianto audio è massima.
Un ritorno al djing con la “D” maiuscola e senza compromessi in un momento in cui essere al contempo producer – a parte alcuni casi virtuosi – sembra essere l’unica porta per accedere alla fama o alla notorietà. Ed è proprio questo il punto: è la passione che alimenta l’ossessività per la ricerca senza posa, non la brama di successo, di un guadagno facile o il desiderio di agitarsi su un palco al cospetto di una grande folla.
Mentre al Club der Visionaire passano alcuni dei nomi più influenti che portano con sé questi tratti comuni, nascono parallelamente collettivi che hanno ben assimilato la lezione di Nicolas Lutz. A Berlino Slow Life, Sleepers e Libertine; Undersound, Toi Toi e Cartulis a Londra, Concrete a Parigi, Loud-contact a Barcellona e Yay a Milano. La lista è ancora lunga e oltre ad innumerevoli capitali europee ne sono coinvolte altre sparse per il pianeta: da Mosca a Tel Aviv, da New York a Buenos Aires, da Montevideo a Tokyo.
I dj e i promoter di riferimento di queste comunità sono come una grande famiglia. Si spostano in massa per l’Europa da un party all’altro e, non senza una certa ridondanza, i resident dell’uno diventano i guest dell’altro. Ma questo movimento autoreferenziale innesca automaticamente un circolo virtuoso: i dj, tutti amici tra loro, scavando nello sterminato universo di produzioni che ruotano attorno a questo genere inafferrabile, si confrontano di continuo tra sonorità simili e contribuiscono a sviluppare un gusto estremamente definito ed evoluto.
E come la tecnologia applicata alla comunicazione può favorire il progresso culturale (si pensi all’avvento di internet nei paesi in via di sviluppo), così la condivisione musicale all’interno di una cerchia di amici concorre alla crescita della cultura collettiva. L’isolamento è per lo più statico e sterile, escluso il caso di qualche eremita che ha trovato l’illuminazione.