È stato un vero e proprio colpo di fulmine, quello fra me ed il Printworks. Scoccato magari non nell’esatto momento in cui i principali avamposti del web ne avevano annunciato l’apertura in una stamperia abbandonata a Sud del Tamigi alcuni mesi fa – nonostante una discreta dose di curiosità, questo sì – semmai quando si è iniziato a delinearne il palinsesto artistico, capace di racchiudere nel giro di poche settimane tutto (o quasi) quello di cui un appassionato di musica elettronica vorrebbe fruire in una “big room” di quel tipo. E c’è poi un altro aspetto da considerare: il fatto che la venue ospiterà (almeno per quanto è dato sapere attualmente) soltanto eventi diurni. La scelta, a detta degli stessi organizzatori, nasce tra l’altro per favorire la co-operazione con le altre grandi organizzazioni della City invece di creare ulteriore competizione in un momento storico in cui la nightlife londinese – nonostante il neo-eletto sindaco Sadiq Khan abbia dimostrato una sostanziale apertura ed un grande riconoscimento della sua importanza per l’economia cittadina – non vive esattamente il suo momento più roseo, in particolare nei rapporti con la istituzioni (…la vicenda Fabric, seppur con esito positivo, insegna). Se le motivazioni a monte di questo orario non convenzionale fossero invece da attribuire ad un problema legato ad autorizzazioni e lamentele da parte della zona residenziale adiacente alla struttura, beh, la cosa non ci sorprenderebbe affatto; ma, ad oggi, parlano i virgolettati. E dicono quanto già citato poco sopra.
Appurato quindi che, in un modo o nell’altro, un giro a vedere questa venue si sarebbe reso necessario, restava solo da tirare un dado e decidere per quale evento optare. Senza fare troppa fatica, più che altro per una questione di mero gusto personale, la scelta è infine ricaduta sul secondo party organizzato da The Hydra, collettivo relativamente giovane ma con già all’attivo un numero impressionante di eventi (alcuni dei quali mi avevano anche visto fortunato testimone in passato) che in questo caso avrebbe proposto, sotto l’egida di un soleggiato pomeriggio di fine aprile, un avvicendamento fra artisti come DJ Koze, Motor City Drum Ensemble, Jeremy Underground ed Antal. Insomma, poteva anche andare peggio, no?
Dopo aver perso un aereo ed aver fatto una sessione extra-large di montagne russe sul secondo, la sensazione che la mia giornata non potesse che migliorare si stagnava piuttosto saldamente nelle budella. Una volta raggiunta con la metro la fermata di Canada Water, zona commerciale di recente riqualificazione in cui è situata la venue, mi sono subito ritrovato alle prese con indicazioni piuttosto chiare per raggiungere la meta tramite un percorso transennato di breve durata, culminato nella prima hall al chiuso con controlli di sicurezza, casse per i token ed area fumatori. Sulla sinistra una scala in lamiera conduceva ordinatamente verso l’ala dove si trovavano i due dancefloor, mentre per raggiungere bagni e guardaroba (dio benedica i locker) era necessario percorrere un mezzo labirinto di corridoi (tramite indicazioni impeccabili) penetrando a fondo nel cuore della struttura.
Una volta sbrigate le formalità di rito ho raggiunto la tanto attesa sala principale, dove si sarebbero esibiti tutti gli artisti sopracitati. Dal momento della sua inaugurazione avevo cercato di non sbirciare foto o video del Printworks per mantenere un po’ dell’effetto sorpresa, ma sui social lo spoiler è ormai all’ordine del giorno e qualche video-diretta mi era involontariamente passata sotto gli occhi. Ciò nonostante il primo impatto visivo è stato comunque di un certo livello. Se tutto il sistema di corridoi con le tubature e l’ambientazione molto industriale mi aveva ricordato da morire il Maassilo di Rotterdam, appena varcato l’ingresso ho involontariamente pensato “Cazzo, il Trouw!”. Effettivamente per alcuni particolari (e considerato che anche lo storico club di Amsterdam nasceva da una ex-stamperia) lo scenario potrebbe vagamente ricordarne i trascorsi. Ma questo corridoio stretto ed infinito, con due balconate (non aperte al pubblico) a sovrastarne l’intera lunghezza, ha portato alla luce i ricordi sia del Factory 010 (la sala superiore del già menzionato Maassilo, oggi club a se stante) ma anche e soprattutto le tante serate trascorse ai Magazzini Generali di Milano, al netto di una profondità almeno tripla a favore della Perfida Albione.
Alle tre del pomeriggio, con ancora oltre sette ore di festa all’orizzonte, la pista appariva piuttosto desolata, ad eccezione di un paio di centinaia di persone visibilmente indaffarate a scuotere le terga al ritmo esotico dell’olandese Antal, sicuramente uno dei nomi del momento e – da batavo d’adozione quale sono – il mio prediletto fra i talenti di casa nostra. Nonostante ci fossero muri di casse sparsi per tutta la lunghezza della sala, di primo acchito il suono sembrava molto fievole e gracchiante, tanto che il chiacchiericcio della pista ne soverchiava abbondantemente il volume. Mentre raggiungevo le prime file in modo da capirci qualcosa, discernendo fra me e me su come fosse possibile che un locale di questa fama proponesse un soundsystem così scadente, il buon Antal ha deciso di cambiare il disco precedente, probabilmente un po’ “sporco” nel suono, a favore di uno coi livelli in ordine. Tutto questo in concomitanza col mio arrivo di fronte agli speaker, scoperchiandomi simbolicamente la calotta cranica al primo giro di kick. Ok, ora iniziamo a ragionare.
Le sue bordate dal suono caleidoscopico ed imprevedibile hanno ancora una volta confermato che, quando non indulge eccessivamente nella retro-mania, il signor Rush Hour può tranquillamente essere messo al “piano di sopra” coi grandi dj americani come Theo Parrish e Joe Claussell, da cui sicuramente ha tratto grande ispirazione nel corso degli anni. Meno raffinato e più caciarone a seguire Jeremy Underground, che ha raccolto una pista finalmente colma e pronta al decollo dopo l’ottimo lavoro di chi lo aveva preceduto. Eppure, inspiegabilmente, il parigino invece che lasciarsi trasportare dalla corrente ha deciso – mutuando una metafora dello Scopone – di tagliare con l’asso e ripartire con la tavola vuota, piazzando 2-3 pezzi soul come a dire “Adesso cambiamo giro!“. L’impatto sulla pista è stato, mettiamola così, non proprio edificante. Tant’è che, capita l’antifona, ha subito ripiegato sul suono che lo aveva reso celebre sin dai primi vagiti della sua ascesa come artista di fama internazionale: da prima una deep bella corposa dai richiami dei primi ’90, andandola poi ad intersecare con sonorità mano a meno più colorate e selvagge, giungendo fino anche ad un paio di mattoni garage che hanno fatto andare letteralmente fuori di testa tutti gli astanti. Per poi “tagliare” nuovamente i ritmi in chiusura, andando così incontro a chi gli avrebbe succeduto di lì a breve. Un set potente, eclettico e mai banale, che a mio modesto parere è stato – piccola disavventura iniziale a parte – esattamente ció di cui un contesto simile aveva bisogno.
A seguire è stata invece la volta di Motor City Drum Ensemble, uno che invece della retro-mania ha fatto negli ultimi anni un mantra inossidabile – forse anche troppo – ma che ha la sinistra capacità di selezionare e mixare in maniera impeccabile – e solo Dio sa quanto sia difficile con questo tipo di dischi – tracce capaci di far cinguettare gli altoparlanti in maniera tanto sublime da far dimenticare che stia suonando qualcosa di ultradatato. Si balla e basta, senza pensare a niente se non a quanto diamine le frequenze sonore penetrino senza confini nel cervello. Un suono che avvolge il corpo come l’abbraccio di un’amante e che ti porta via con se. E’ tutto lì, ed a fare questo il buon Danilo oggi è davvero uno dei migliori al mondo.
Scorrono così altre due ore culminate poi nel set finale di DJ Koze che, dopo il mezzo flop al Sónar Istanbul e con una notte in bianco e giá tante ore di danza accumulate nelle gambe, mi ha lasciato poche forze per gustarlo a pieno in favore di quattro chiacchiere davanti ad una IPA fresca chiacchierando di musica nell’area ristoro coi simpaticissimi lads anglosassoni, sempre curiosi di conoscere nuove persone e culture. Quando non sono molesti come le zanzare di sera in campeggio, nessuno sa farti amare l’esperienza del clubbing come loro.
Ed in fin dei conti l’esperienza dentro al Printworks si potrebbe riassumere proprio così: il piacere di lasciarsi trasportare ed immergersi in quella gioiosa frivolezza che solo andare a ballare insieme agli inglesi riesce a regalare. In una struttura detentrice di un impianto audio/video davvero arrembante e dall’organizzazione che, persino comparata agli standard olandesi, si è rivelata decisamente di altissimo livello. Non vi è dubbio alcuno, questo è un club che merita altri mille di queste giornate. Nella speranza di tornare ad esserne parte integrante il prima possibile.