La premessa, in questo caso, è davvero d’obbligo: chi scrive al Rashomon Club ha trascorso qualche centinaio di serate, anche solo per passare a bere un paio di birre e vedere che aria tirava, senza la pretesa di fare mattina. C’ha messo i dischi una dozzina di volte, tra Club e Bar, avendo il privilegio più unico che raro di far ballare quel dancefloor su due livelli che contribuiva a rendere tutto più irregolare e magico. Ha pure continuato ad andarci una volta capito che quella del giradischi non sarebbe stata la sua vita, affezionato comunque all’idea e all’attitudine che fin dal primo party l’hanno contraddistinto e che hanno contribuito a renderlo una delle certezze per chi, a Roma, voleva respirare un’aria più che mai internazionale.
Insomma, quelle quattro mura hanno avuto un ascendente enorme su tutti quelli che ne sono entrati in contatto, facendosi amare per quei folli coriandoli che finivano direttamente sulla pelle dei suoi clubber – e a volte nelle mutande – dopo ogni sua festa. Questa è la pure e semplice verità.
Al Rashomon Club per oltre un decennio si è fatto clubbing. A volte bene, a volte meno bene, ma è indubbio che in via degli Argonauti 16, dentro quel bellissimo cortile ai piedi della ciminiera, per lunghi tratti si ha avuto la percezione di non essere a Roma e magari di trovarsi in chissà quale club di Londra o di Berlino. Per questa ragione è difficile, dopo la bellezza di undici stagioni, riuscire a riavvolgere il nastro dei ricordi senza commettere l’errore di romanzare troppo, rendendone probabilmente più amaro l’epilogo e magari finendo per celebrare delle gesta che non gli apparterebbero, ma che per l’idea che ci siamo fatti del club non fatichiamo a far nostre senza la minima obiezione.
Al Rashomon Club hanno suonato Ben Klock, Cassy, Paul Kalkbrenner, Dixon, Nicolas Jaar e i Tale Of Us prima che il mondo dell’elettronica ne decretasse l’ascesa senza possibilità di ritorno. C’abbiamo visto Seth Troxler pisciare dentro a una bottiglia di plastica in consolle, tanta era la fila al bagno a fine set; e ci siamo innamorati della musica dei suoi resident, indubbiamente tra i più talentuosi tra quelli circolati a Roma negli ultimi anni.
Oggi che la sua chiusura – probabilmente definitiva a meno di nuovi, spericolati promoter pronti a riprenderne in mano il timone – non è più un rumor ma un fatto, non possiamo che sentirci tutti più tristi e, perché no?, soli: il clubbing romano, quello che amiamo e che c’ha permesso di crescere settimana dopo settimana perde una delle sue colonne più importanti, certamente quella più coraggiosa.
Sabato 27 maggio è un programma l’ultima danza, per fare mattina ancora una volta come quel dancefloor c’ha insegnato.