Sul fatto che i Paesi Bassi si ergano – con la Perfida Albione nel ruolo di unica vera antagonista – a patria principe dei festival open air di musica elettronica non crediamo ci possa essere alcun tipo di riserva. Per quantitá, qualità, gestione logistica e cura dei particolari la terra orange mantiene standard talmente elevati da aver creato sostanzialmente uno standard da esportare poi (con risultati alterni, ma non divaghiamo) ad altre latitudini. Se dovessimo proprio trovare qualcosa che davvero, ma davvero, esulasse da qualsivoglia previsione e perfezionismo organizzativo, le (eufemisticamente parlando) variabili condizioni meteo che affliggono il Nord Europa nei periodi caldi dell’anno sarebbero per forza di cose in cima alla lista. Scritte in grassetto e sottolineate almeno un paio di volte.
Com’era? Chi ha il pane non ha i denti? Abbastanza calzante, in questo caso. O almeno per noi poveri sud europei, visto che ai nordici frega poco della pioggia, essendoci talmente abituati da non farci neanche troppo caso: un bel poncho (ovviamente regalato all’ingresso come quasi sempre accade in caso di previsioni nefaste), degli stivali (o direttamente scalzi, perchè no?) e via a ballare nel fango come se niente fosse. Gli inglesi in particolare con quest’ultimo elemento hanno un rapporto quasi onirico, trasformando spesso e volentieri gli enormi pozzangheroni che si vanno a formare in autentici riti ancestrali collettivi in cui dare libero sfogo al più animalesco degli istinti: sporcarsi dalla testa ai piedi, tanto prima o poi ci si laverà. Chi ha fatto almeno un Creamfields (mai nome fu più azzeccato) avrà bene in mente fino a che punto questo concetto puó essere portato al suo estremo. Del resto è il Paese dove andare al lavoro con un occhio nero non è niente di insolito, sarà mica un problema rotolarsi un po’ nel fango durante il weekend, no?
Ma torniamo a noi: dicevamo che prenotare un festival open air in Olanda è sempre come una roulette russa. Ci sono buone possibilitá che il cielo decida – come da fantozziana memoria – di scaricare sulla testa degli astanti ore ed ore di pioggia fitta e gelata. Ma se tutte le coincidenze astrali decideranno di volgere a vostro favore vi potrà anche regalare alcune delle giornate più belle che abbiate mai visto. L’altro estremo sarebbero quelle tre/quattro occasioni all’anno in cui il Benelux, in pieno smarrimento geografico credendo di essere il Corno d’Africa, spara giù delle autentiche piallate da quaranta gradi (un paio d’anni fa il Decibel, uno dei più grandi eventi hardcore al mondo, fece impallidire il mezzogiorno del Monegros) ma tendenzialmente le giornate assolate regalano un clima caldo, ventilato ed ideale per godersi un pomeriggio di musica dal vivo. Capirete da voi come un clima di questo tipo possa fare da boost emotivo e rendere indimenticabile un bel festival senza alcuno sforzo ulteriore da parte degli organizzatori. E questo è stato esattamente il caso del Soenda.
Per carità, non vogliamo sminuire in alcun modo l’operato di un’organizzazione che nei suoi oltre dieci anni di vita si è costruita una reputazione granitica nell’affollatissimo calderone olandese, mantenendo tuttora il ruolo di portabandiera della zona di Utrecht per quanto riguarda gli eventi di medio-grande portata. E considerato che chi scrive ora da quelle parti ci vive e se n’è innamorato proprio ad un evento Soenda (questa volta al chiuso ed in inverno) nel lontano 2013, potrete facilmente capire quanto parlare di questa festa possa essere prima di tutto una questione di cuore. Tanto premesso, è inutile negare che il tempo fantastico che sta imperversando nelle ultime settimane da queste parti abbia permesso di godere al 100% di un festival comunque capace di rimanere di nicchia nonostante, smistati nei suoi cinque ambienti, si potesse permettere di proporre nomi come Robert Hood, British Murder Boys, Dave Clarke, Marcel Dettmann, Blawan, Kolsch, Åme e tanti (ma tanti) altri. Diciamo di nicchia ancora una volta non per sottostimarlo ma perchè, vuoi il periodo temporale un po’ periferico rispetto all’alta stagione dei festival, vuoi per la già citata grande proposta musicale delle maggiori aree metropolitane, il Soenda ha ancora una volta avuto la capacità di mantenere quell’atmosfera autoctona e famigliare che si potrebbe paradossalmente percepire nelle nostre sagre di paese. E se da noi un evento di tali dimensioni e spessore artistico avrebbe peró raccolto sostenitori da ogni angolo, in questo caso si aveva la netta sensazione che fosse in ogni caso qualcosa di intimo. Di nostro. E per chi come noi è da qualche tempo fortunato ospite di questa terra fantastica, un moto di orgoglio ed appartenenza senza eguali.
Con una compagnia di amici di ogni nazionalità – dalla Svezia al Giambellino – ci siamo quindi tuffati a capofitto in una dieci ore dal sapore dolcissimo, con un main stage ad anfiteatro posto sotto una collinetta (modello Main Stage del Tomorrowland ma in miniatura) dove, sotto la severa supervisione di un’enorme colonna di container, abbiamo sentito alcune delle note migliori della nostra giornata. In primis un Robert Hood che, esattamente come il panzerottificio Luini a Milano o la pasticceria Pompi a Roma, quando suona fa sempre la stessa cosa da una vita, con gli stessi ingredienti e la stessa messa in opera. Ma gira che ti rigira c’è sempre una fila così ed escono tutti soddisfatti. Sarà questo ció che significa essere una leggenda? Un plauso anche al sempre divertentissimo LIVE di The Advent e Industrialyzer, impegnati a scaldare gli animi nelle prime ore, ed al nostro Sam Paganini (ormai onnipresente nelle line up dei grandi eventi europei) capace, con una tech house diretta e palpitante in puro stile Drumcode, di intrattenere a dovere la folla nelle ore centrali della manifestazione. Leggermente meno bene un altro olandese d’adozione come Dave Clarke, involontariamente costretto dall’ambientazione ad essere un po’ più leggero musicalmente rispetto ai suoi standard andando a perdersi troppo nei giochetti col mixer senza mettere mai davvero la quarta come da sempre è in grado di fare.
Discorso opposto per i British Murder Boys, uno degli act più attesi, impegnati a chiudere i battenti del festival una volta calato il sole all’orizzonte. Il live di Surgeon e Regis ha forse peccato un filo di superbia, andandosi (dopo un grande avvio) ad incastrare in una sostanziale piattezza musicale che ci ha fatto preferire per la chiusura le autentiche spingardate (al limite dell’hardstyle) di due talenti della nuova scena UK come Truss e Randomer nel Komodo, un tendone enorme (e quasi sempre stracolmo) dove le sonorità più ruvide hanno trovato terreno fertile nel corso della giornata. Segnaliamo da quelle parti un grandissimo set del berghainiano Answer Code Request nel primo pomeriggio ed anche prestazioni di buon livello da parte di SNTS e Blawan. Anche se un festival diurno pieno di gente vestita con colori sgargianti ha forse reso, a nostro modo di vedere, le loro esibizioni un filo fuori contesto.
Tra quattro risate davanti ad un gelato sdraiati sull’erba ed una birra (forse qualcuna in più, per onestà intellettuale) la giornata si è quindi conclusa con la sensazione di aver celebrato ancora una volta la nostra musica e (mi permetto di dirlo) la nostra casa con tanti amici, vecchi e nuovi, senza che nulla potesse metterci i bastoni fra le ruote. E c’è poco da fare, quando anche il cielo viene in aiuto dei suoi partecipanti, i festival olandesi rimangono il miglior modo (e di gran lunga) di investire i propri sudati guadagni. Per risparmiare, come al solito, ci sarà la prossima vita.