Se da una parte è vero che i vari festival, per quanto originali nel concept ed allettanti nella line up, alla fine sono abbastanza intercambiabili tra di loro all’interno del paniere delle preferenze degli appassionati, è anche vero, dall’altra, che certi eventi hanno la forza di una vera e propria chiamata alle armi, un richiamo irresistibile. Vuoi per la credibilità marmorea che Eric Prydz è stato in grado di costruirsi negli ultimi dieci anni, vuoi per via delle immagini stupefacenti che i fortunati partecipanti delle edizioni 4.0 e 3.0 di EPIC hanno disseminato per l’internet, vuoi per il fatto che quella di Londra è, ad oggi, l’unica apparizione europea prevista per il format nel corso di quest’anno, fatto sta che la sensazione generale nei confronti di EPIC 5.0 fosse quella di doverci essere. L’hype è alle stelle, insomma, ma non si tratta solo di quello, qui la questione è molto più succosa. Così anche noi, eccitati come bambini a Gardaland, con in mano quel biglietto che guardavamo sospirando da mesi pregustandoci il momento, ci uniamo alla festa con un sorriso a trentadue denti.
Nonostante gli scrupolosi controlli di sicurezza, intensificati dopo i tristi fatti di Manchester di qualche giorno prima, le procedure d’ingresso si rivelano decisamente scorrevoli: l’organizzazione è impeccabile, come impeccabile è la gestione dell’enorme flusso di persone che dalla stazione della metro di Mile End si dirige ordinato verso il Victoria Park, attraversando una tranquilla zona residenziale debitamente attrezzata con punti di raccolta per la spazzatura e toilette mobili lungo il percorso.
All’esterno dell’enorme tensostruttura che ospita il dancefloor ci si stende sul prato e ci si gode il sole caldissimo e la brezza leggera di un pomeriggio londinese troppo bello per essere vero. Il verde della location, l’azzurro del cielo, il profumo di barbecue che viene dai punti ristoro, ogni cosa fa la sua parte e le good vibes, come le chiamano qui, si avvertono eccome. Dentro già dal primo pomeriggio galoppano groove palleggianti ed ipnotici avvolti da quei bei tappeti progressive che tanto piacciono a chi vi scrive, alternati a ritmi più housettoni. Doverosa una menzione di merito per Cristoph, fresco pupillo della Pryda Presents, la nuovissima label della famiglia Prydz, che per noi è una piacevolissima scoperta sia dal punto di vista del sound che sul piano della personalità, al pari di Kölsch, che non ha certo bisogno di presentazioni, al quale spetta il compito non facile di stuzzicarci a dovere l’appetito prima della portata principale.
Alle 20.30 in punto la musica si ferma per consentire il cambio di palco: cala il buio e l’attesa è palpabile, il pubblico freme, la tensione sale, attimi senza fine. Poi un bagliore rosso, dapprima flebile, e un arpeggio di synth appena accennato che si fa sempre più incalzante, più veloce, più alto, accompagnato dal vorticare delle strobo che illuminano a giorno la moltitudine di mani tese. La gabbia si illumina, rullata di snare, “welcome to my house”: siamo in estasi, si comincia! Semi nascosto dietro diversi strati di ledwall, Eric riesce nell’impresa di prenderci all’amo e di portarci a spasso pur mantenendo lo stesso groove per buona parte delle due ore di show. È il suo sound, il suo marchio di fabbrica, e lo sa maneggiare alla grandissima. Prima ci fa sognare con i pad e i synth eterei di Liberate, Liam ed Elements, poi vira deciso su ritmi più serrati e atmosfere più scure: è il momento di Cirez D, di On/Off, hit me with those laser beams, il cielo che diventa verde; poi ancora Backlash, In The Reds, The Glitch, le luci spente, i pugni in aria e le gambe che vanno da sole. Il tutto con una tecnica di mix sopraffina, con passaggi costruiti ad arte attraverso preziosi incastri melodici ed armonici, ma soprattutto con estrema coerenza nell’evoluzione musicale del set. Talmente estrema che a tratti si ha l’impressione che un vero e proprio cambio di marcia non arrivi mai. E invece, proprio sul più bello, nell’ultima, pazzesca mezz’ora ti butta lì alcuni tra i suoi migliori successi, in una sequenza da strapparsi i capelli: Pjanoo, Melo, Everyday, Generate, Sunset At Cafe Mambo, i bassi fanno vibrare lo stomaco, il cuore in gola, ventimila voci seguono la melodie all’unisono, si salta e ci si abbraccia. I visual in 3D, gli ologrammi, i laser e le luci contribuiscono a rendere il tutto ancora più coinvolgente, sono parte integrante dello spettacolo ma non prevaricano la musica, anzi ne sono funzionali all’esperienza. La futuristica scenografia vuole impressionare ma non distrarre, le componenti visuali si fondono con il suono, sottolineandone le caratteristiche con perfetta sincronia. Il crescendo di euforia trova il culmine nell’interminabile climax di Opus, naturale epilogo delle due ore più incredibili che abbiamo mai trascorso sotto il palco di un festival. Sul piano tecnologico EPIC 5.0 rappresenta lo stato dell’arte, uno standard di produzione altissimo al quale, forse, altri cercheranno di uniformarsi nei prossimi anni; la musica, lo stile di Eric Prydz, invece, sono un bellissimo presente, che difficilmente potrà essere imitato.