Un festival arrivato alla sua quindicesima edizione con tre venues immense, programmazione diurna e notturna, due circuiti extra – uno dedicato a Lisbona per omaggiarne tradizioni musicali, culturali, gastronomiche e uno fatto di incontri e conferenze per cinque giorni (entrambi totalmente gratuiti) – e un sold out totale.
Andare nella bella Lione per il Nuits Sonores significa immergersi completamente in una situazione, quindi, che è molto più di un festival di musica elettronica. Il Nuits Sonores è una full-immersion di cultura musicale ma anche di cultura e basta, caratterizzata da un melting pot che vede – ad esempio – dedicare una sala nella serata del venerdì alla musica mediorientale riempiendola fino a farla straboccare. È incredibile vedere come il festival coinvolga totalmente la città con eventi sparsi in ogni quartiere, ristoranti selezionati (non dimentichiamoci l’importanza enogastronomica di Lione) con prezzo più che calmierato, decine di workshop e una cittadinanza totalmente partecipativa nell’accettare di buon grado musica altissima a qualsiasi ora a pochi metri dalle proprie case.
Non si vuole denigrare i festival italiani anzi, sono bellissimi e importantissimi anche i nostri, ma quello che offre in cinque giorni il Nuits Sonores è qualcosa che va oltre il minestrone di mille act diversi: sarà per gli impianti audio di qualità superiore, per le luci in ogni sala studiate da un importante studio di architettura lionese, ma l’approccio culturale e intellettuale alla musica nelle sue diverse declinazioni fa la differenza. A Lione non ci si pone il problema di correre dei rischi nel proporre artisti diametralmente opposti come Pharoah Sanders da una parte e Marie Davidson (che mena come un fabbro) nella sala adiacente: il pubblico si spella le mani in entrambi i casi.
Non si può poi non menzionare l’organizzazione perfetta, che per tutto il tempo ha coccolato sia il pubblico che i vari soggetti coinvolti nel festival (media, relatori, art director di altri festival).
In questo, parte fondamentale la ricopre We Are Europe, un circuito organizzatore che racchiude otto festival di primaria importanza tra cui oltre al Nuits Sonores, anche il Sónar e Reworks. Un’organizzazione che nonostante la frenesia da festival nella giornata di sabato invita a pranzo un po’ di media accreditati nel proprio ristorante, aperto in concomitanza con questa edizione, che serve e servirà come punto di aggregazione e scambio di idee durante tutto l’anno (queste persone con i proventi del festival aprono un ristorante per fare idee e per scambiarsele sì, avete capito bene).
È proprio durante questo pranzo che abbiamo l’occasione di capire meglio quello che c’è dietro, per esempio l’interazione con la città, un processo di mediazione che comincia da luglio e che prevede weekend gratuiti in campagna per chi abita vicino alle due sedi principali del festival, in modo che non debbano essere disturbati dalla musica o anche solo dal traffico.
Infine il capitolo sicurezza: inutile dire che qualche timore soprattutto dopo i fatti di Manchester c’era, ma solo fino al momento di ritirare gli accrediti al meeting point. Quello che abbiamo potuto notare, vivere, sentire sulla nostra pelle è una sensazione di totale pace e tranquillità: la presenza della security, oltre che della polizia (armata fino ai denti, questo sì), è comunque discreta e amichevole, diremmo. Anche le operazioni di entrata al diurno/notturno che inizialmente potevano percepirsi come macchinose (doppia perquisizione personale), sono in realtà liscissime e veloci (grazie anche al pubblico composto, ordinato e proattivo).
Il pubblico: tantissimo, festosissimo, con incursioni davvero da tutto il mondo. C’è chi si presenta in maschera o in costume tipo Sei Nazioni di Rugby (siamo in Francia, no?) c’è gente interessatissima ai live e ci sono i clubbers, come pure gli immancabili party people. Un pubblico a volte irruento ma mai, mai, mai molesto, anche quando gli integratori al luppolo hanno ormai sostituito l’acqua nel sangue e nel cervello.
Personalmente, visto tutto il ben di Dio in programma e onde evitare di arrivare al successivo lunedì lavorativo in condizioni pietose, opto per un integrazione soft a base di Perrier, imponendomi di non toccare alcol prima dell’una di notte e facendo fondo a colpi di baguette e formaggi francesi. Festival come questi richiedono una grossa preparazione fisica e un certo autocontrollo del corpo e dei vizi, non dimenticatelo e prendetelo come consiglio. Diversamente, l’esperienza potrebbe rivelarsi massacrante.
Prima di entrare nel dettaglio, un’unica doverosa premessa: la programmazione del Nuits Sonores è labirintica, spesso ci sono set imperdibili in contemporanea, oppure il posto guadagnato in una sala è talmente prezioso da non volerlo abbandonare fino al set che tanto ci interessa. Questo porterà a scelte dolorose e sofferte ma anche a scoperte interessantissime. Andiamo allora: vediamo come è stato il Nuits Sonores day by day.
Il viaggio in treno da Milano non è dei più semplici ma offre un panorama fantastico. Arrivo in città nel pomeriggio con 30 gradi, accrediti, scorta di formaggi francesi, preparazione e via a piedi (due chilometri piacevolissimi). La notte del festival si svolge in un immenso corpo industriale: tre grandi sale per la musica, una dedicata interamente al cibo e un bar Pro dedicato ai fortunati con l’accredito, che offre divani e relax e che si rivelerà un salvavita. Il programma odierno prevede una sala dedicata a grime, rap e alle sue nuove declinazioni, nelle altre due si pedalerà che è un piacere. Ecco cosa abbiamo visto.
Leaionnaire Mob & Art Wike
Un collettivo dedito a boom bap e trap: sono brutti, sporchi e cattivi ma fanno impazzire tutto il pubblico di giovanissimi, che conosce le canzoni a memoria. Sentiti la mattina successiva in cuffia non hanno la stessa potenza.
Agar Agar
Sono un duo: lui alle macchine, lei al microfono. Considerati dai media locali i nuovi astri nascenti del French pop, sono coinvolgenti al punto giusto. Il loro è un genere che pesca dagli anni ’80 e dal più spaesato dream pop, sanno quello che fanno e lo fanno bene. Sono magnetici e alle 22:30 la sala è già gremita. Con uno dei due parlo all’alba in albergo prima di dormire e scopro che passeranno anche dall’Italia in estate: teniamoli d’occhio.
Kekra
Di questo rapper in Francia parlano tutti, un po’ perché va in giro mascherato (intendo anche la mattina successiva allo show, a colazione, in albergo). Ora devo dire la verità: tolti IAM, Mafia K1 Fry e qualche altro nome sopratutto legato alla colonna sonora del’Odio, non ho seguito tantissimo il rap francese. Kekra è uno dei buoni motivi per cui riprendere a farlo: bravissimo, un flow incredibile, rime arrabbiate taglienti che parlano di disagio e periferie, un rasoio affilatissimo che mi lascia molto molto soddisfatto.
Stormzy
Uno dei motivi per cui non vedevamo l’ora di venire a Lione, Stormzy è uno di quei performer che volevamo proprio sentire dal vivo per vedere come regge il test del live. Di nero vestito con tuta di felpa e Yeezy d’ordinanza, non perde un colpo e versa litri di sudore. Una star che sa fare il suo mestiere e da star incendia la sala nel vero e proprio senso della parola. Le canta tutte polverizzando l’ora che ha a disposizione, compresa la finale “Shape Of You” (sì, quella con Ed Sheeran).
Vitalic
L’unico momento di tutto il festival in cui l’aria condizionata presente in ogni sala (oh yes) non è servita a nulla. Non si muove uno spillo e lo show è paragonabile solo a roba come Alive 2007 – chi mi legge sa quanto pesa questo paragone. Uno spettacolo magnifico di musica e luci, una serie di led a quadrato semoventi ruotano sulla testa di Vitalic creando giochi mai visti. Anche lui – ma sarà un pò il leit motivi del festival – le suona tutte, chiusura con “La Rock01” e “My Friend Dario”. Vince la serata e forse anche tutto il festival.
Talaboman
Male, male, male: speravamo che il live fosse migliore di quanto sentito su disco invece no, sono sbadigli e non per la stanchezza. Sfiorano più volte la noia e il pubblico balla forse più per inerzia che per altro. Singolarmente adoriamo entrambi, ma il risultato di questo progetto personalmente non ci convince, anzi, speriamo si separino presto.
Sarah Farina / Laurent Garnier
Siamo in piedi da troppe ore e cominciamo a sentire il bisogno di ritmi più rilassati invece che martelli da guerra di provenienza britannica. D’impronta più felice lei, più duro lui che suona qualcosa di lontano dai suoi canoni ma con estrema naturalezza. Grime, Bass music e un minimo di trap rumorosi. Tanto. Troppo.
Mind Against
Ne sentiamo un pochino dal bar Pro e mentre guadagno l’uscita, tanto ci basta per addolcire in un arpeggio la strada che ci manca verso l’agognato letto.
Da oggi si raddoppiano gli sforzi, si inizia dal pomeriggio nel quartiere moderno di Lione in una vecchia e bellissima raffineria di zucchero. Ogni pomeriggio prevede un direttore artistico diverso, oggi tocca a The Black Madonna: è lei che ha selezionato la line-up con un taglio prevalentemente house e disco. La sera prevede invece più appuntamenti sparsi tra tutti i locali della città.
Ecco: un errore da non fare a questi festival è quello di sdraiarsi un attimo sul letto per il “disco nap” dopo cena, dopo la doccia. Vi svegliereste intorno alle 6 del mattino in preda allo sconforto, per questo motivo la sera di giovedì facciamo finta non sia esistita shame on me per un retro passaggio da pivello.
Derrick Carter Goes Disco
Primo pezzo e pensi “Oh mio Dio“, secondo pezzo e urli “Oh! Mio! Dio!“, terzo pezzo e chiami la fidanzata per dirgli “Senti cosa ha messo!“. Un set disco senza nessun risparmio, tra i più belli che abbia mai sentito, con tutti i pezzi più conosciuti uno dietro l’altro compresa “You Make Me Feel” di Sylvester che genera un delirio generale.
Peggy Gou
Al di là delle troppe mosse e mossette un filo troppo impostate mentre passa tra un disco e l’altro, la bellissima Peggy tra una Lucky e l’altra, ha una selezione interessantissima e curatissima di house britannico/tedesca, un frullatore Moulinex fatto di tanta estetica e buona sostanza.
The Black Madonna back-to-back Optimo
Optimo (Espacio) è una storica serata di Glasgow ad opera di Jd Twiches e Jd Wilkes, arrivata ormai a festeggiare vent’anni. Per l’occasione vanno in back-to-back con The Black Madonna e la sensazione è che quando tocchi a lei ci sia più freschezza mentre quando tocchi a loro ci sia un retrogusto troppo stantio nel complesso però è uno show ben riuscito dall’inizio alla fine.
La notte buttata nel sonno, mi consente di visitare la città, bella bellissima. Il pomeriggio del venerdì è curato da Nina Kraviz, mentre per la sera si torna alla sede principale con una sala dedicata alla musica mediorientale. La notte è un misto di jazz e bordate techno o giù di lì.
Fred P. aka Black Jazz Consortium
Il pomeriggio lo vince lui a mani basse, un set bellissimo tra house di venature jazz e cose più spinte. Una selezione eclettica sotto 30 gradi all’ombra che fa ballare piacevolmente, una splendida conferma delle cose sentite in cuffia.
Andy Stott
Ho visto Stott dal vivo più volte, la prima già cinque anni fa. In tutte quelle occasioni più persone mi hanno sempre raccontato della possibilità di assistere a un set anche a suo modo felice quasi armonico. Fino al Nuits Sonores non era mai capitato, non avevo mai avuto questa fortuna. Qui è successo ed è stato incredibile una cavalcata in breakbeat fatta per fare ballare tutti, ma proprio tutti, anche i più intellettuali che da sotto si aspettavano il solito set.
Nina Kraviz
La vedi aggirarsi per le sale del festival: timida, disponibile, bellina in gonnellino corto gambe super toniche e Air Max di ordinanza. Poi sale in consolle e cambia tutto, la principessina da favola dei Grimm si trasforma nel peggiore dei “villains”, prende e pesta come una forsennata, la sala grande si trasforma in una falegnameria, chiude mettendo dei pezzi d&b sudata e felice.
Fatima Yamaha
Altro nome che non vedevamo l’ora di sentire e vedere: parte tranquillo tranquillo, i suoi suonini ti chiedono di essere seguiti e di lasciarti trasportare, così faccio io e fa tutto il pubblico presente. Quando arriva il momento di “What’s A Girl To Do” tutto il pubblico canta una canzone che non ha un testo, in un momento più che visionario.
Marie Davidson
Riusciamo a vedere solo i venti minuti finali, troppo poco per giudicare. Quel poco che vediamo e sentiamo però ci piace e interessa molto. Spigolosissima.
Pharaoah Sanders Quartet
Fatima ha chiuso da qualche minuto il suo set, nelle prime file si fanno largo persone di una certa età tutte con i tappi nelle orecchie, sta per scattare l’appuntamento con la leggenda. Inizialmente penso: una star del jazz in un festival techno o comunque da ballo che reazione ci sarà? Inizio con fumo e suoni d’attesa, lui arriva sul palco con estrema lentezza, anziano con problemi di deambulazione, fa piccoli piccolissimi passi, pochi alla volta, poi regola il sax sempre con infinita lentezza e poi finalmente ci appoggia le labbra. Quello che succede dopo è difficile da ricordare, ricordo solo uno show perfetto, appassionante, uno dei concerti della vita – punto.
Harvey Sutherland & The Bermuda Trio
È il tempo della scelta più dolorosa: dopo questo set c’è Floating Points, io sono in prima fila e decido di bypassare la sala mediorientale e quindi anche il live di Souleyman. Rimango qui e do un’occhiata a questo live. Il concetto è anche semplice, batteria, synth, violino elettronico: ne esce è un suono tra house e retrofuture un po’ Roosvelt, un po’ suono Kitsuné primi 2000. Dal vivo è stato divertentissimo, in cuffia la mattina dopo, ho skippato tutte le canzoni. Illusorio.
Floating Points (solo live)
Prima fila, transenna, felice come un bambino. Sam attacca con “Nespole”, benissimo penso adesso viene il bello e il bello arriva veramente. Sam tira fuori il lato più elettronico di se stesso e comincia anche lui a percuotere i metalli grezzi, suona nel finale anche “Vacuum Boogie” rendendola però tiratissima . Un pochino mi dispiace perché mi ero immaginato uno show tutto mio che non c’è stato, alla summa finale però – e questo conta – mi sono divertito come un pazzo.
A pranzo il giorno dopo riesco anche a scambiarci due chiacchiere: una persona di una gentilezza infinita, amichevole, disponibile. Mi racconta persino che per il nuovo album bisognerà aspettare due anni (un uccellino che lo conosce bene mi dice in seguito che conoscendolo vuol dire che ce ne metterà almeno tre). Andando via mi ricorda però che tempo dieci giorni uscirà un suo EP. Lo so Sam, e gli faccio vedere le foto con i due vinili che già ho, pacche sulla spalla a presto.
Francois X back-to-back Bambounou
Sono le 3:30 del mattino e con questo set sento tutto il peso dei miei anni, ne sento un pochino dalla sala e un po’ spaparanzato sul divanetto del bar Pro che trasmette la musica della sala B.
Techno senza se e senza, ma purtroppo comincio ad essere vecchio per queste avventure di fine nottata.
Oggi si comincia ancora prima: all’una c’è il pranzo organizzato da We Are Europe con qualche giornalista e gli organizzatori del festival. Non c’è nessun ordine del giorno prefissato, si mangia, ci si scambia idee, ci si racconta esperienze di altri festival, si danno pareri sul Nuits Sonores, siamo tutti entusiasti. Il pomeriggio di oggi è curato da Jon Hopkins, la sera è previsto invece il primo dei gran finali, la vera festa di chiusura sarà nel parco principale di Lione con una line-up segreta che verrà svelata solo nella tarda serata di sabato. Inizialmente poco ci interessa perché in quelle ore staremo tornando a casa, poi a pranzo ci dicono che gli headliner saranno i Modeselektor e trattenere le imprecazioni sarà difficile.
Nathan Fake
Non sono un grosso amante di Nathan Fake, lo ammetto, però lo seguo con interesse. Bello lo show, bruttini i visual, bella la musica anche se personalmente non mi dice un granché, ma sono gusti personali. Fila tutto senza sussulti finché non arriva “The Sky Was Pink”, lì mi rianimo e ammetto alla fine batto tanto le mani anche io.
The Field
Un altro di quei nomi, l’ennesimo, per cui non vedevamo l’ora di essere qui. Con qualche persona conosciuta nei giorni prima, diciamo ad alta voce: speriamo faccia qualche pezzo da “From Here We Go To Sublime”, mentre lui sta sistemando le sue macchine, sperando ci senta, non succederà, non farà nemmeno “Over The Ice”. Nella sala nonostante l’aria condizionata ci saranno almeno 25 gradi lui è in camicia “abbottonatissima” e berretto di lana, noi molliamo litri di sudore e lui sorseggia rilassato e disteso un unico bicchiere di vino rosso, alternato a della liquirizia, che prende da una scatoletta neanche fosse a un torneo di canasta al circolo della marina. Peccato nel frattempo prema mille bottoni su mille synth e mille altre diavolerie infernali, con un aplomb degno del miglior James Bond, live incredibile bellissimo.
Actress
Già durante il cambio palco con The Field, si vede e si avverte che è preoccupato: il suo è uno show pretenzioso, troppo pretenzioso. Il live prevede due postazioni: una lato sinistro del palco fatta di macchine e laptop, l’altra centro palco con una work-sample station immensa, dietro i visual inerenti la sua ultima fatica. Inizia zoppicando e prosegue uguale non convincendo, a tratti stufando; abbandoniamo a tre quarti di show sbadigliando. Rimandato, non bocciato.
Jon Hopkins
Quando raggiungo la sala sta finendo “Sun Harmonics” e sta entrando “Violent Noise” dei The xx nel remix di Four Tet, questo spiega bene l’andazzo del suo set: suonarle tutte facendo impazzire tutti, senza pause e senza fronzoli. Ai piedi della consolle c’è un Nathan Fake in condizioni pietose che sembra non poterne più, il pubblico invece, balla instancabile. Sarà anche il solito Hopkins ma per quanto mi riguarda mi sono divertito in tutte le volte che l’ho visto e questo alla fine dei conti spiega bene sia onnipresente in ogni festival, non ne sbaglia uno.
Einstürzende Neubauten
Faccio ammenda e lo dico subito è un gruppo che non conosco per niente, non è il mio genere. Decido di approcciarmi a loro come si fa con le opere d’arte sconosciute: davvero adoro tutto ciò che vedo e sento, continuerò a non ascoltarli, continuerò magari sbagliando a fregarmene, ma quello che ho visto è davvero un’opera d’arte.
The Chemical Brothers
Non me ne si voglia e si sappia che parlo da fan, però qui va fatto un attimo un ragionamento: se non li avete mai sentiti sono imperdibili, anche da dj, ma se li conoscete come le vostre tasche è sempre la solita roba e personalmente comincia a non coinvolgermi più come una volta. Il dj set comunque è senza alcun risparmio, ma io dopo un oretta dico stop perché annoiato e cambio sala, come me anche altre persone.
Soichi Terada
La voce pitchata sopra, la musica ad accompagnare sotto è uno scambio continuo tra house, j-pop e video giochi. Non l’avevo mai sentito dal vivo e da oggi posso dichiararmi fan, tornato a Milano non sto ascoltando altro.
KiNK
Più violento qui che su disco, “Neutrino” è quasi irriconoscibile ma gli va dato atto che non è un male. Sono le ultime energie che dedichiamo al festival, le ultime che dedichiamo al ballo, mi divertiamo e stacchiamo un pochino la spina; le gambe però dicono in fretta basta.
“L’uscita è definitiva” dice un cartello mentre abbandoniamo il festival e ci dirigiamo in albergo. Ritorniamo a casa entusiasti, convinti di aver visto qualcosa di diverso, di interessante, e di fortemente maturo.
Il Nuits Sonores è un festival enorme, diverso sicuramente da un nome storico e conosciuto come il Sónar, ma per quello che abbiamo vissuto ugualmente importante, ugualmente bello, ugualmente ben fatto. Bellissimo, coinvolgente, un esempio che andrebbe studiato oltre che vissuto.
Torniamo in Italia pieni di interrogativi: perché qui, che tu scriva sul web o che tu scriva su carta, sei considerato un giornalista con tutti i crismi e in Italia no? Perché qui tanto chi organizza un festival quanto chi ne parla è considerato un divulgatore di cultura, mentre in Italia in alcuni contesti è considerato un’azzeccagarbugli o un cerca-guai? Perché devo tornare in Italia con la sensazione che quel gap che separa questo festival, come tanti altri europei, dai nostri nostrani sembri incolmabile? Un gap minimo nemmeno così vasto ma che provoca amarezza e per il quale, purtroppo, con realismo bisogna ammettere che almeno nell’immediato non troviamo soluzione.