Manchester, Frank Ocean, le novità, le conferme…questo Primavera 2017 ha dato tutto e noi forse non ce lo aspettavamo.
Gli headliner.
Doveva essere l’anno di Frank Ocean, molto più che dei vari Solange, Arcade Fire, Aphex Twin e Grace Jones. Alla fine però ce ne siamo fatti una ragione e siamo stati ripagati a dovere. Anche se i canadesi a Barcellona sono di casa, il doppio concerto a sorpresa li ha sicuramente resi tra gli argomenti più caldi di questa edizione.
Will Butler e soci appaiono a sorpresa su un piccolo palco posizionato a metà tra lo stage Primavera e il ponte che porta verso la parte elettronica del festival. Lo fanno diverse ore prima della loro esibizione ufficiale e lo fanno per un motivo preciso: Everything Now, nuovo singolo e in realtà anche nuovo album. Il brano non ci convince, almeno non tanto quando l’operazione alle sue spalle: bella l’installazione/copertina di JR, da approfondire la presenza di Thomas Bangalter alla produzione e troppo facile la release del merchandising (ma soprattutto del vinile) in edizione limitata nel mercatino del festival.
Aphex Twin e Grace Jones invece sono due discorsi diversi: il primo si è messo in tasca Skepta e Jamie XX, sia come presenza di pubblico che come proposta musicale. Fa il suo, lo fa bene e ci interessa poco che lo stia facendo con un mixer che non sfiora o con Traktor. Il pubblico balla e impazzisce su tutta la linea anche quando parte un simil reggaeton di stampo aphexiano. I fan sono completamente connessi al loro idolo, tra laser che partono dal palco e facce distorte che prendono forma sul maxi schermo (nient’altro che le facce di chi balla tra il pubblico, riprese e distorte in tempo reale).
Grace Jones ha dato una prova di forza incredibile: è salita sul palco con uno spirito monumentale. Ironica, sexy, spaziale. Battute sulla droga, coreografie, costumi di scena e pole dancers maschili. Lei è una diva e le dive possono permettersi di dominare il palco nude ricoperte solo di vernice, anche a settant’anni.
I nostri highlight.
Ci siamo goduti il concerto dei The XX comodamente seduti sulla nuova tribuna “Created in Barcelona” aperta a tutti e posizionata dal lato opposto della tribuna Heineken che invece è solo per i possessori del pass Vip. Gli inglesi hanno dato spettacolo, cosa non scontata visto che erano in mezzo allo scambio cosmico tra Mac DeMarco e Run The Jewels.
Tra i tre probabilmente i The XX sono quelli che ci hanno colpito di più per intensità e scelta dei pezzi: pescano abilmente da tutti i loro album, danno la sensazione di essere a loro agio, complice l’esperienza accumulata in anni di sold out in giro per il mondo e l’aiuto di un esercito di fan pronti ad accompagnare il gruppo con cori e urla. Stesse urla anche per Mac DeMarco che ha alternato le hit del suo repertorio al solito spettacolo a metà tra il simpatico e l’eccessivo: ok il batterista che suona nudo, forse troppo lo spogliarello finale del canadese che, sigaretta in mano, si brucia i peli del corpo con l’accendino. I Run The Jewels invece pagano completamente il disastroso impianto audio che li ha anche lasciati a piedi per qualche minuto, peccato, non lo meritavano.
Solange, delicatissima e sempre più consapevole dei propri mezzi porta sul palco uno spettacolo sobrio ed elegante. Considerando che più di una voce diceva che sarebbe saltata anche la sua esibizione, fortunatamente abbiamo avuto l’opportunità di vedere che forma avrebbe preso dal vivo “A Seat At The Table”: promossa. Van Morrison e Teenage Fanclub ancora in forma ma i livelli di Grace Jones sono tutt’altra storia. King Krule fa parte di quelli che si presentano al festival con qualcosa di nuovo da dire e lofa cantando un nuovo brano, concerto semplicemente delizioso. Così come Sampha, che rispetto alle prime esibizioni è cambiato completamente: concreto, disinvolto, mattatore. La jam session di percussioni con il resto della ciurma è stata una goduria per occhi e orecchie.
Bon Iver, sempre complesso e allo stesso tempo in grado di tenere incollata sul posto una folla degna di nomi più blasonati e facili. Dopo aver flirtato con il mainstream più duro l’ex ragazzo underground è ormai un pezzo da novanta e il mix di occasionali e fan lo sottolinea. Il cuore ovviamente si scioglie quando a fine concerto, chitarra in mano e luce soffusa, intona “Skinny Love”. Grazie Justin.
Tutto bello, però…
Partiamo dai SURVIVE: ce li godiamo in prima fila. La sostanza c’è, ma se dobbiamo scegliere di fare un viaggio nel passato scegliamo quello che abbiamo fatto l’anno scorso: John Carpenter vince a mani basse. Il mito dalla sua ha l’ironia, la sua musica era accompagnata dalle immagini di film che hanno fatto la storia. Gli americani invece sono una brutta copia dei Kraftwerk, anonimi, impassibili e piuttosto freddi. Peccato, ci aspettavamo di più, magari non come tutti quelli che urlavano e pretendevano di ascoltare la theme track di Stranger Things.
Seu Jorge, per noi uno dei nomi più attesi, porta al Primavera “The Life Aquatic Studio Sessions” disco che per diversi motivi è diventato un culto. Nasce dall’intuizione di Wes Anderson che l’ha voluto nel suo film e che ha ottenuto anche l’approvazione dallo stesso Bowie. Disco in cui il portoghese (anche attore) canta le cover di Bowie e recita, presentandosi sul palco con la stessa uniforme indossata dal Team Zizzou nel film. L’esibizione è purtroppo massacrata dai volumi importanti che arrivavano dal palco Pitchfork dove si stava esibendo Hamilton Leithauser dei The Walkmen. Probabilmente la più grande delusione del festival dopo Fuck Ocean.
Skepta: ultimo giorno, ultima grande festa. Almeno così ce lo eravamo immaginati e invece no, le HAIM hanno trionfato e Skepta ha fatto il suo con meno gente del previsto ad ascoltarlo. Noi sognavamo un mare di inglesi dabbanti…
L’Italia al festival.
Tra le certezze ci sono Wrongonyou e IOSONOUNCANE, due che hanno trovato il modo di farci volare anche in terra spagnola. Se a seguire Marco Zitelli, romano, con alle spalle una storia tutta da scoprire (tipo aver registrato il primo demo negli stessi studi in cui i Radiohead hanno inciso un EP quando ancora non si chiamavano Radiohead) c’era poco pubblico tutt’altra storia è quella che abbiamo vissuto nello stage Adidas.
Due artisti che per motivi diversi hanno nelle corde la possibilità di rendere la loro musica appetibile anche ad un pubblico internazionale: Wrongonyou canta in inglese e lo fa ispirandosi a Bon Iver, IOSONOUNCANE invece lo fa in italiano ma le influenze etniche e l’approccio sonoro del sardo parlano una lingua universale. Insomma l’Italia c’era, non solo tra il pubblico e ci scuserà Dj Tennis se non siamo passati a salutarlo.
Il primo evento musicale di massa dopo Manchester.
Eravamo curiosi: cosa avremmo trovato a Barcellona? Come avremmo vissuto questo Primavera? Alla fine l’abbiamo vissuta bene, con gli occhi occupati per la prima volta a scrutare anche tra le duecentomila persone che in questi giorni sono passate per il forum. E dove gli occhi non arrivavano, arrivavano i pensieri. Soprattutto nel momento in cui in tanti abbiamo letto sugli schermi dei nostri telefoni quello che accadeva in Germania, dove circa novantamila persone venivano fatte evacuare dal Rock Am Ring. Manchester era nell’aria, non solo per noi che eravamo sotto il palco ma anche per gli artisti che più volte si sono espressi sul tema.
Mica tanto unexpected.
Se da una parte il festival aveva dichiarato apertamente la voglia di cambiare ed evolvere (il Primavera Bits è un segnale importante) dall’altra la vera unexpected experience l’abbiamo vissuta tutta sul posto: concerti a sorpresa, marketing integrato e chi più ne ha più ne metta. Siamo nell’era delle storie e le storie più belle oggi nascono nel giro di 15” e muoiono 24h dopo. Ma fortunatamente quei 15” secondi non sostituiscono davvero l’emozione di vedere gli Arcade Fire a pochi metri da te, circondati da pochissima gente. Non sostituiranno mai la felicità di aver acquistato l’ultima copia di un disco venduto solo ed esclusivamente in quel momento. Non rimpiazzeranno mai lo stupore di stringere la mano a un tuo idolo che passeggia per il festival e hai incrociato casualmente.
Allora? Bisogna fare i conti con la necessità di fare bene il proprio lavoro, offrire uno spettacolo unico in termini di proposta musicale ma anche essere bravi a fare marketing, perché un festival del genere ha bisogno anche dei brand che lo aiutano a portare a casa tutto questo. Ha bisogno dell’hype degli utenti, primo e unico vero canale di promozione di un festival che ormai ha tutto. Perché fortunatamente le storie che tutti noi raccontiamo una volta tornati non durano solo 24h e l’anno prossimo saremo ancora li, sotto palco, anche senza Frank Ocean, anche una settimana dopo Manchester.