“In bocca mastico e rimastico il gusto del caffè amaro e nello stesso tempo intenso come questo beat/ Mentre nel walkman c’ho Mobb Depp” (Lyricalz, “Certi Momenti”)
Quando ieri sera è arrivata la notizia della morte di Prodigy, prima ancora che a “Infamous” e a “Hell on Heart” – che ho ascoltato nelle ore successive – la mente è volata alle rime qui sopra di Dafetti e Fede (Lyricalz). Chissà se a leggere la notizia ieri sera il buon Fede (dalla sua Rivista Studio mi dicono non parli volentieri della sua esperienza con i Lyricalz) un piccolo tuffo al cuore non ce l’abbia avuto. Partiamo proprio da qui nel ricordare Prodigy e di conseguenza i Moob Deep che con Havoc formava, perché la rima contenuta in “Certi Momenti” ricorda molto bene cosa i Moob Deep significassero per chi ascoltava rap a metà degli anni 90.
Il 1995 – l’anno in cui i Moob Deep si affacciano al successo internazionale dopo un passabilissimo disco d’esordio – era un periodo quanto mai “pioneristico” per ciò che concerne la fruizione della musica, soprattutto di quella rap. Internet era agli albori, dimentichiamoci Torrent e Spotify. Aelle era appena sbarcata in edicola; se sapevi molto bene l’inglese potevi optare per The Source, comunque di difficilissima reperibilità. Compravi dischi rap da Wag a Milano, ammesso che prima non fosse passato Dj Jad a farne incetta. Qualcosa potevi sperare di trovare al noleggio cd (difficilmente comunque i Moob Deep). Rimanevano due possibilità: o ne parlava Albertino con l’ospite di turno a One Two One Two su radio Dj il venerdì sera – l’unico momento valido per sentire la radio – oppure speravi nel passaparola.
Nel mio caso funzionò questa ultima possibilità, “Infamous” mi arrivò da un amico americano su cassetta Tdk duplicata da un cd. Non ci furono grandi presentazioni ad accompagnare, solo un: “Questi fanno sul serio, questi sanno ciò di cui parlano”. Fu un’ intensa sessione di dizionario italiano/inglese, e i testi ciclostilati che mi arrivarono in regalo la settimana dopo, a farmi capire il senso della precedente affermazione. Non era più gangsta rap con cui si faceva gara a chi pisciava più lontano, non era più esibizionismo o smargiassate; suonava più come un: “Ok vuoi sapere che succede a New York? Ti porto con me“.
Da quel 1995 e per i successivi anni e successivi due dischi, cambiò radicalmente l’idea del rap “fanfarone” che mi ero auto-propinato, lo dicono tutti in questi momenti di condoglianze mediatiche: Prodigy fu il primo e il più sincero alfiere del “Keep it real”. Ascoltare Moob Deep in quegli anni voleva dire provare a prendere per buone quelle parole. Farlo davvero. Il manifesto dei Moob Deep è “Non raccontare, mostra!”. Ed è incredibile come si riveli abissale la distanza tra queste due parole. I versi di Prodigy non erano testimonianza, ma cinematismo puro. Quello che i Moob Deep facevano era farti vivere la scena di un delitto, di una rapina, di uno qualsiasi dei canoni del gangsta rap dall’interno. Non era un flusso di coscienza mista a rabbia tipo Onyx, che gridavano “Ghetto life fuck that betta off dead” nella traccia numero 7 di “All We Got Iz Us”; non era nemmeno lontanamente storytelling; era una telecamera dal movimento lento che ti prendeva e ti portava dentro uno di quei casini di una New York durissima. In Italia ci riuscirono in pochi, a memoria mia giusto Lou x in “Cinque minuti di paura”, che comunque trascendeva poi nella cronaca di una vicenda.
Tecnicamente nulla di particolare, se si ascolta ora “The Infamous” ci si accorge che il rap era molto lineare, senza picchi o deal da strapparsi i capelli. Per intenderci, quando entra Q-Tip in “Drink The Pain Away” la differenza si sente, stessa cosa con Ghostface in “Right Back To You”. A far la differenza fu il modo in cui le rime venivano cucite sul beat, il rappato era congelato, freddo come la temperatura corporea di un cadavere. Un freddo ancora più intenso dal lato musicale: “Illmatic” l’anno precedente e due capolavori come il disco di Biggie e “Enter the 36 Chambers” del Wu Tang, avevano di fatto rianimato l’East Coast Sound, ammesso che ci fosse qualcosa da rianimare. “Infamous” e successivamente “Hell on Heart” definirono invece chiaramente il suono di New York.
Non di rado in quegli anni si parlava di suonare alla Moob Deep: un suono lento, caratterizzato da quel colpo di frusta che sapeva di schiaffo, di tonfo, tra i due kick.Se ascoltate “More Trife Life” da “Hell on Heart” potrete capire meglio cosa sto dicendo. Un colpo secco che si andava a infrangere su un basso che in tutte le canzoni dei primi Moob Deep ha un volume limitato, inizialmente sottovalutato per superficialità, perché quello che saltava subito all’orecchio erano le drum di impronta jazz: quelle definivano il suono di Havoc.
Anche l’uso dei sample merita di essere approfondito: cercando, troveremmo i classici da Herbie Hancock a Quincy Jones, diverso è però l’uso che ne viene fatto, a parere di un profano di Akai e compagnia bella. Non c’è un solo pezzo dei Moob Deep che possa dare l’impressione che campionino da robe funk o soul, come poteva fare un Dj Muggs nei Cypress Hill degli esordi ad esempio, eppure da lì attingevano anche loro.
Si obbietterà che dopo “Murda Muzik” non ne valesse più la pena, e forse è vero; vero anche che i sei anni che separano “The Infamous” dal dimenticabile “Infamy” hanno visto talmente tanti morti, talmente tanta violenza più o meno annessa al rap, che poi il rischio reale era quello di diventare ripetitivi o di essere la macchietta di se stessi. Il passaggio nel 2005 su G-Unit si commenta da solo. Quello che però è arrivato prima, e che in pochissime parole abbiamo provato a raccontare, ha cambiato regole e sistemi di questa musica nera nata nelle strade, per le strade.
Non ci sarà più un altro Prodigy e questa è la tristezza più grande. Non c’è e non ci sarà più l’occhio in presa diretta di chi faceva vivere la strada e non si limitava a raccontare la strada. Per questo ci mancherà tanto, tantissimo.