Shabaka Hutchings è come una chiave di volta nella nuova scena jazz inglese. Se lo togli crolla tutta, o buona parte, di quella cangiante e variopinta griglia musicale che negli ultimi anni sta producendo un’incredibile quantità di ottimi progetti. Vi viene in mente il duo (già sciolto) di Youssef Kamaal? Lui in ‘Black Focus’ ci suona. Pensate che Malcom Catto e i suoi The Heliocentrics siano un punto di riferimento imprescindibile di quella scena? Il sax, negli album collaborativi come in quelli in proprio, fino al recente ‘A world of masks’ è sempre quello di Shabaka. Le virate rock di Melt Yourself Down vi sembravano dar vigore alla formula? I fiati erano sempre del King (così lo chiamano nel giro). E provate un po’ a immaginare chi c’è dietro due delle realtà più estreme e strabilianti come Sons of Kemet (2013 MOBO Award come Jazz Act of the Year) e The Comet is Coming (Mercury Prize 2016)? Sempre lui. Nato a Londra nel 1984, a sei anni si trasferisce alle Barbados dove studia clarinetto e sassofono. Dieci anni dopo rientra alla base ed è già un musicista e compositore molto promettente che comincia a lavorare con Courtney Pine, Mulatu Astatke e gli Heliocentrics, Jack DeJohnette, Charlie Haden, Evan Parker, King Sunny Ade e Orlando Julius giusto per nominarne alcuni. Ma la sua energia è pari solo alla vena creativa, incontenibile e compulsiva, incapace di costringersi dentro steccati di genere o formule consolidate. Così si mette al lavoro con Lefcutter John e va in giro con Floating Points, si chiude in studio con Gaslamp Killer e Jonny Greenwood ma trova il tempo per salire sul palco della Sun Ra Archestra. La sua personale ed eclettica visione del Jazz sembra nutrirsi di ogni possibile deviazione dai solchi tracciati. Non fa eccezione “Wisdom of Elders”, uno degli ultimi album che lo vedono protagonista, questa volta ad esplorare le origini africane e omaggiare la grandezza del Jazz Sudafricano assieme a The Ancestors. La firma di Gilles Peterson e della sua Brownswood garantiscono sulla caratura di uno dei migliori album Jazz del 2016 che, per la prima e unica volta (è previsto entro l’anno lo stop definitivo al progetto) verrà presentato in due date italiane: il 4 luglio nello splendido Teatro Romano per l’Estate Fiesolana e il 5 nel Cortile di Palazzo Morpurgo, per Udin&Jazz 2017 .
Abbiamo approfittato della doppia data in arrivo per parlare con Shabaka di “afro-futurismo”, diaspora caraibica e jazz spirituale.
La tua musica sembra puntare verso zone inesplorate, nelle quali le barriere tra avanguardia e mainstream non contano. È una meta che persegui con un piano chiaro o il risultato al quale giungi seguendo, semplicemente, il tuo istinto?
Credo che la mia musica sia il risultato di una serie di processi combinati assieme. Non posso permettermi di seguire solamente il mio istinto come non sarei mai capace di perseguire un piano attraverso automatismi. Quello che accade è, semplicemente, quello che deve accadere quando impieghi una enorme quantità di tempo ed energia a focalizzarti su una serie di approcci compositivi e metodi attraverso i quali collaborare con altri artisti per arrivare alla definizione di un suono specifico. Cerco di lasciar scorrere i miei progetti in maniera naturale, concentrando tutte le energie che ho in quello che sto facendo in quel momento e mettendo da parte il resto, soprattutto i grandi piani e le visioni d’insieme che reputo pertinenza di altri mestieri.
Comet Is Coming è il tuo trio electro-jazz, Sons of Kemet il progetto nel quale ti dedichi alle influenze afro-caraibiche mentre Melt Yourself Down l’outfit che combina jazz e post-punk. Quali sono gli elementi comuni che tengono insieme questa diversità di approcci alla musica?
Di recente ho deciso di uscire dal progetto Melt Yourself Down perché non sentivo più che mi appartenesse in maniera decisa. A parte questo credo che il comun denominatore tra i tanti progetti con i quali sono impegnato è un approccio sperimentale alla musica. In realtà se guardi a quello che facciamo con le varie band da un punto di vista di pura ideazione, di strutture sonore adottate o di linee melodiche usate puoi notare che ci sono molti elementi ricorrenti. Sono i cambi di strumentazione e set up che ti fanno percepire il suono risultante come molto più vario di quello che è nella realtà. Nella mia testa, quello che facciamo con Comet Is Coming e Sons of Kemet è molto simile, per esempio, a quello che succede quando riesco a riunirmi con gli altri del trio Thousand Kings: inseguire un’idea di suono organico che se ne vada in esplorazione verso forme non prestabilite ma senza ridurre tutto al solito pastiche.
L’impressione è che con il progetto con il quale stai girando in Europa, quello con i sudafricani The Ancestors, tu dia voce alla matrice spiritual jazz del tuo background. Come è nata questa collaborazione e come avete prodotto l’album ‘Wisdom Of Elders’?
Ho avuto una lunga frequentazione con la scena jazz di Johannesburg, alla quale sono stato introdotto dalla mia lunga amicizia con Mlangeni, uno degli eroi locali maggiormente conosciuti in Inghilterra. Nell’arco di tre anni di continui viaggi e concerti mi ha fatto incontrare il batterista Tumi Mogorosi, il tastierista Nduduzo Makhathini e il bassista Ariel Zamonsky. Attorno a questo primo nucleo abbiamo costruito il resto della formazione. Il terreno comune sul quale ci siamo incontrati è proprio la nostra passione per la spiritualità che si trova in certo jazz che ci ispira. La tentazione di capire come suonasse la mia musica messa negli strumenti di questi musicisti, che seguono era troppo forte e l’album è nato nella maniera più spontanea possibile, con loro che mi invitavano ad andare in studio catturare l’energia delle nostre jam. In quell’album puoi sentire l’incontro delle varie personalità coinvolte e la diversità dei nostri percorsi ma anche un sentire comune che ci tiene fortemente uniti.
Abdullah Ibrahim e Hugh Masekela sono due riferimenti fondamentali per lo sviluppo di un modo propriamente sudafricano di intendere il jazz. Sono state influenze determinanti anche per voi?
Non direttamente. Ovviamente Ibrahim e Masekela sono referenze importanti per tutti i musicisti sudafricani ma il nostro progetto è stato influenzato maggiormente dalla musica di artisti come Winston “Mankunku” Ngozi. In generale, però, non mi piace ragionare in termini di singole influenze perché credo che contino maggiormente le stratificazioni di ascolti che si accumulano negli anni, creando un sistema inconscio di riferimenti attorno ai quali si muove la mente di un musicista. Nel mio caso specifico, penso che la mia personalità musicale derivi da un mix d’influenze molto diverse, legate ad ambiti musicali anche distanti, costantemente rielaborate in un processo di sintesi personale. Allo stesso modo, il ruolo di grandi maestri del suono free spirituale come John Coltrane, Albert Ayler e Pharoah Sanders è più quello di fare da ponte tra il grande pubblico e un certo mondo musicale che non quello di essere un riferimento diretto nel percorso di ricerca che altri musicisti fanno nella stessa direzione.
Tra le tue tante collaborazioni ce ne sono due che potrebbe incrociarsi nei prossimi mesi: ci sono voci che parlano di un progetto comune tra The Heliocentrics e The Sun Ra Arkestra. Puoi anticiparci qualcosa?
C’è stato un primo contatto tra alcuni membri di The Heliocentrics e alcuni musicisti dell’Arkestra, in occasione dei Worldwide Awards di Gilles Peterson ma non posso dire nulla a proposito di prossimi progetti discografici o live che vedano la collaborazione tra le due band.
Nel 2016 hai registrato una sessione live con Hieroglyphic Being su NTS. Voci di corridoio parlano di questo sodalizio come destinato a continuare…
Sì, l’incontro con Jamal Moss è stato uno dei più belli che mi sia capitato di fare negli ultimi tempi. L’intesa artistica tra noi è stata molto forte, sin dall’inizio. Abbiamo un album insieme in uscita ad agosto, su Ninja Tune, e alcune date live già fissate per settembre. Tra queste, una molto importante al Jazz Cafe di Londra.
Come è cambiata la tua musica dopo le frequentazioni in ambito elettronico, con artisti come Leafcutter John e Floating Points?
Premetto che ho un problema specifico legato alla pertinenza del termine ‘musica elettronica’ ma ammetto di aver ricevuto imput decisivi da queste due collaborazioni. Uno degli elementi che ho messo maggiormente a fuoco lavorando con loro riguardano l’urgenza che sento di esplorare la forma delle composizioni lunghe, di ampio respiro, nelle quali i consueti canoni di scrittura musicale lascino il posto a strutture più libere e narrative. Da quei lavori in poi, inoltre, ho realizzato che mi interessa molto lavorare sul concetto di mutabilità del suono all’interno di un brano, di fluidità delle transizioni tra suoni piuttosto che sulla ossessiva ricerca di un climax attorno al quale costruire la traccia.
Uno degli interessi peculiari attorno ai quali ti sei formato, da musicista ma anche da studioso, è l’antropologia musicale. Cosa pensi dell’uso, diffuso e spesso improprio, del termine ‘afro-futurismo’?
Da quello che leggo e sento posso essere sicuro nell’affermare che questo concetto sia diventato, principalmente uno strumento di marketing, sfruttato in maniera quasi sempre insensata. Capisco che ci sia sempre bisogno di connettere la musica a dei termini semplificatori o a dei concetti che individuino un contesto ma, personalmente, non ho un interesse particolare ad essere inserito in questa casella.
A sei anni hai cominciato a studiare clarinetto alle Barbados per poi completare la tua formazione tra Birmingham e Londra. Come parte in causa della diaspora caraibica che relazione pensi di avere con quella tradizione musicale?
Penso che sia uno degli aspetti importanti nella definizione della mia personalità musicale ma, ovviamente, non l’unico. Le Barbados sono un luogo dell’anima, per me, al quale mi sento legato per questioni affettive ma artisticamente sono cresciuto molto in Inghilterra. In generale trovo difficile legarmi ad un luogo specifico con un senso di fedeltà o campanilismo. La mia attitudine alla ricerca continua tende a farmi legare a forme e tradizioni musicali che prescindono dal luogo nel quale mi trovo in quel momento, anzi, che mi portano a far le valigie prima possibile.