Se decidi di tornare a un festival, di solto, è perché i ricordi dell’edizione precedente ti sono talmente entrati dentro che non puoi resistere alla tentazione di godertela ancora una volta; metti da parte quasi ogni forma di raziocinio e ti abbandoni, consciamente o meno, ad aspettative alte quasi quanto la voglia di ritrovarsi nuovamente immersi in una dimensione parallela come quella festivaliera.
Un po’ come nel nostro caso, lo ammettiamo, in cui siamo tornati al Dimensions non solo per meri doveri giornalistici, ma spinti soprattutto dal ricordo godereccio delle cinque passate edizioni, con una menzione d’onore per quella dell’anno scorso. Al suo sesto anno di vita, abbiamo raggiunto il Dimensions Festival nelle sue solite location croate – l’Arena di Pola per la serata d’apertura e la fortezza di Punta Christo, con annessa spiaggia, per le altre restanti quattro giornate.
Già il connubio di mare (cristallino) e musica (elettronica danzereccia a 360° e black music) fa la sua in quanto a potere attrattivo soprattutto per chi, come la sottoscritta, sa che potrà andare in ferie solo a settembre e nelle sue due settimane di vacanza vorrebbe includere almeno una sette giorni “frizzantina” di qualità, diciamo. E che ci può essere di più frizzantino di un festival al mare, con location a cielo aperto, dall’ottima selezione musicale tra house, techno, electro, jazz, funky, dubstep, drum ‘n bass, r’nb e più simile ad un technival (anche un po’ karnival) illegale che ad un festival ufficiale?
Già, perchè se ancora non lo sapeste, l’inglesissimo Dimensions non è affatto un festival per “fighetti”, o meglio, per “comodosi”: per giorni si è costretti a camminare un sacco da uno stage all’altro su terreni decisamente impervi e dai sassi rotolanti facili, con scarpe, vestiti e narici perennemente intrisi di terra rossa (il particolare colore della terra in Istria, la regione croata in cui viene organizzato il tutto). Gli orari sono belli tosti, partendo a mezzogiorno in spiaggia e continuando fino alle sei del mattino fuori e dentro la fortezza, oltre ai boat party diurni. Il cibo, di qualità e quantità inversamente proporzionali al suo altissimo prezzo, è praticamente concentrato in una sola area che è decisamente lontana dagli stage – fatta eccezione per le patatine fritte. A parte una manciata di bagni deluxe al chiuso appena entrati (di cui pochissimi sanno, per fortuna nostra e sfortuna altrui), il resto delle toilette sono i ben noti chimiconi Toi Toi, che in una mezz’oretta iniziano ad essere belli hardcore in quanto a puzze e sostanze liquide o solide sparse. E nonostante siano passati sei anni dai suoi primi passi, la situazione al festival è rimasta invariata.
Intanto, c’è da dire che l’edizione di quest’anno non ha registrato sold out, a parte per le prevendite online dei quattro giorni seguenti all’Opening dell’Arena a prezzo ridotto, e già questo è un dato importante: se il pubblico è andato a calare, pensiamo sia successo per motivi che esulano dalla più che promettente line up. Siamo convinti che la colpa sia da attribuire infatti agli ormai troppi festival inglesi in Croazia. La gente inizia a stancarsi, in primis i britannici, di anno in anno tra l’altro sempre più consci di quanto vengano spremuti economicamente una volta arrivati. Al Dimensions, attorno al festival e anche nei taxi e nei mezzi pubblici tutto costa il doppio se non il triplo rispetto ai soliti prezzi. Sigarette incluse.
Anche il fatto che per il concerto d’apertura facessero entrare chiunque senza controllare i biglietti nominali la racconta lunga riguardo ai timori che venisse poca gente. E allora, meglio non fare storie su quisquilie come i nominativi, e far entrare più gente possibile.
Anche noi ci siamo inizialmente presi un po’ male dato che, alla serata inaugurale, l’Arena di Pola è rimasta semivuota fino al concerto di Grace Jones. Eravamo convinti ci toccasse testimoniare un flop di pubblico esagerato. La situazione però è drasticamente cambiata a un’oretta dall’inizio dei concerti ed è subito saltato all’occhio quanto sia stata la divina Grace a salvare la situazione: numerosissimi i suoi fans, tanti over 50, rimasti seduti sulle gradinate fino all’inizio del suo concerto, o fuori dall’Arena a bersi birrette, e poi riversatisi in massa sotto il palco a performance iniziata. Tanti hanno anche acquistato il biglietto in loco, poco prima iniziasse ad esibirsi (i biglietti per l’Arena sono stati venduti anche durante i concerti, nonostante il box office dovesse in teoria chiudere ad una certa). Il suo è stato un concerto emozionante, sicuramente tra le gemme del festival: una sessantina di minuti in cui la Jones ci ha collettivamente stregato – di body painting e slippini vestita, con copricapi tribal-futuristici, code e accessori vari diversi per ogni pezzo, slanciata come fosse una coetanea della sottoscritta, piena di energia, ironia, classe e grinta a palate. Certo, le sue coriste hanno fatto un grandissimo lavoro, più che supportando i suoi vocalizzi, non lo nascondiamo. E magari non è da considerarsi una cantante tout court, ma il suo magnestismo e la presenza scenica ci sono parsi pressochè intatti dal suo primo singolo “I Need a Man” del 1975. Fattore non da poco. Quella di Grace Jones è stata inoltre la primissima esibizione in terra croata, attirando pubblico da tutta la Ex Jugoslavia e riuscendo a non scadere mai nel pietoso o nel trash, impresa solitamente ardua per una “showgirl” di 68 anni. Oltre alle ottime versioni di “Nightclubbing”, cover di un pezzo di Iggy Pop con cui ha aperto il concerto, oppure le godibilissime “My Jamaican Guy” e “Williams’ Blood”, l’apice è stato sul finale, in cui ha cantato le sue ottime “Slave to the Rhythm” e “Pull Up to the Bumper” andandoci giù pesante di hula-hoop – trick scenico da lei adorato – non sappiamo per quanti minuti, ma sicuramente lasciandoci a bocca aperta (e sorridente).
Rimanendo sempre alla serata inaugurale, impeccabile anche il concerto dei Moderat, una delle loro ultime esibizioni prima della proclamata pausa a tempo indeterminato. Gernot, Sebastian e Sascha aka Modeselektor e Apparat, hanno ipnotizzato il pubblico con i loro evergreen, vedi “Bad Kingdom” o la sempre emozionante “Rusty Nails”, corredando come sempre il tutto con i potenti visuals del collettivo Pfadfinderei e regalando rivisitazioni magistrali “hardcore techno friendly” di alcuni dei loro classiconi, come la sempreverde “New Error”. Pubblico sedotto, danzante, sognante. Ma quasi dimezzato rispetto a Grace, almeno in pista, dove la sottoscritta è stata per quasi tutto il tempo. E la cosa è dispiaciuta parecchio, dato che i tre hanno presentato un live veramente sopraffino, seppur senza particolari colpi di scena rispetto ai loro (alti) standard.
Riguardo agli artisti di supporto della serata, se si volesse accennare a Yussef Kamaal – come annunciato nella scaletta – duo originariamente formato dal batterista Yussef Dayes e dal producer, tastierista e batterista Kamaal Williams (aka Henry Wu), da un po’ di mesi “divorziati” a causa di rancori personali, sarebbe più esatto parlare di Kamaal Williams Ensemble, visto che Yussef non c’era. E non abbiamo molto da dire in merito, avendolo trovato un concerto jazz-funk piacevole, ma decisamente più adatto a fare da sottofondo ad un aperitivo che a risvegliare ascolti attenti e profondi, un po’ come le derive più easy e superficialotte di certo acid jazz.
Pollice mezzo abbassato anche per Moses Boyd, inserito tra le nostre sei perle nascoste del Dimensions, che con la sua esibizione da solista alla batteria non è riuscito a convicerci del tutto: è un ottimo musicista, le derive astratto-elettroniche-drum ‘n bass delle ritmiche si sono fatte sentire, ma poi il tutto si è un po’ perso, risultando alla lunga monotono e nient’affatto fresco e sorprendente come ci saremmo aspettati. Se contiamo anche che per Kamaal e Moses il pubblico è stato poco numeroso, potete immaginarvi quanto entrambi non siano riusciti a creare un’atmosfera elettrizzante, nonostante ci si trovasse in una delle location più emozionanti al mondo. Quindi, se volessimo fare anche solo un confronto tra l’atmosfera generale creatasi alla serata inaugurale dell’edizione scorsa e quella di quest’anno, vincerebbe a mani basse la prima – quella con i live di Kamasi Washingtone Massive Attack, e il dj set finale di Moodyman (nel mood giusto).
Ora entriamo nel vivo del Festival vero e proprio. Quasi ci spiace ammetterlo, ma mettendo assieme tutte le giornate alla fortezza e i numerosi artisti in programma, siamo arrivati alla conclusione che quest’anno i live e i dj set degni di menzione siano stati veramente pochi rispetto agli ospiti presenti. Fosse stata la nostra prima volta al Dimensions, forse ce la saremmo vissuti con meno criticismo. Saremmo stati più magnanimi, chissà, magari stregati dall’atipicità e dal fascino della location, apprezzando anche la veracità dello pseudo basso profilo dell’estetica degli allestimenti, caratterizzati però da qualità sopraffina del suono pompato da impianti bombastici.
Purtroppo non è andata così. E, nel marasma di performance, vi possiamo a malincuore riassumere anche brevemente gli highlights e le delusioni di quest’anno, tralasciando gli act da noi ritenuti mediocri o quasi passabili. Ricordiamo inoltre che, vista l’enormità del festival e le condizioni metereologiche drammatiche delle ultime tre giornate, non siamo riusciti né a sdoppiarci né a farci ubiqui, pur avendo fatto del nostro meglio per dare un’ascoltata a quasi tutto. Ci sono stati acquazzoni pesanti, tanto che il venerdì non siamo riusciti a resistere al freddo-umido misto pioggione, finendo letteralmente per scappare, e automaledicendoci per aver perso gig rientranti nel nostro ventaglio di interessi – i dj set di Daphni, Sadar Bahar, Levon Vincent, Antal e del croato Borut Cvajner, nonché il live dei London Modular Alliance (a detta dei presenti, spettacolare). Il sabato e la domenica ci siamo imbacuccati manco andassimo in alta montagna, armandoci di mantellina in nylon con cappuccio e con un unico obiettivo: quello di Resistere. Notare bene che il fango era talmente dirompente che le sneakers della sottoscritta hanno guadagnato in altezza grazie a vere e proprie zeppe fangose createsi tra passeggiate e balli.
Il punto più critico è che il venerdì il festival stesso si è interrotto per un paio d’ore, bloccando la gente in due aree – chi era al Forte non poteva uscirne e chi stava fuori non poteva entrare. Da lì tanta crisi e paranoiette sparse tra il pubblico rimasto – sono fuggiti in tantissimi – o addirittura panico per chi avrebbe voluto congiungersi ad amici rimasti dall’altra parte. Il dj set di Floating Points e l’attesissimo live di Ata Kak sono stati annullati (oltre ad altri slittamenti e assenti in line up rimasti poco chiari fino all’ultimo).
E ora, per rallegrare gli animi, un po’ di roba buona, anzi, buonissima. Se parliamo di contenuti emozionali, oltre che qualitativi, il primo premio è da assegnare al live degli Aux 88, ovvero Tom Tom (Tommy Hamilton) e Keith Tucker (meglio conosciuto come K-1), storico duo electro e bass-heavy techno di Detroit. Formatisi sotto altro pseudonimo nel lontano 1985, diventano presto leggende grazie a singoli esplosivi come “Television”, “Aux 88” o “New Jack House” e alle numerose collaborazioni illustri, tra cui quella con Mike Banks e Juan Atkins per il decimo anniversario della label Metroplex, oltre alle innumerevoli release e performance live al fulmicotone. I due ci hanno deliziato facendoci addirittura dimenticare l’acquazzone rovesciatocisi addosso mentre eravamo intenti a ballare e cantare con allegra caciara rispondendo ai loro feedback vocali. Un live dai bassi killer e dal cuore pulsante, inizialmente electro, techno detroitiano schiaffeggiante verso la fine.
Altro momento felice, sempre sullo stesso palco, il dj set regalato da DāM-FunK (Damon Riddick), artista di LA dalla biografia super particolare, essendo nato negli anni ’70, ma avendo esordito solo nel 2008 per la Stones Throw, contando ad oggi una ricchissima produzione e collaborazioni di prestigio come quella con Q-Tip o Snoop Dogg. Il suo è stato un set incentrato sul meglio del funk ’70-’80, con spolverate massicce di electro, hip hop, house e techno, una pura scarica di energia black e coolness imbevute di cuore e anima. Un’oretta di ascolti e ancheggiamenti felici per un pubblico super accogliente, molleggiato e canterino. E una bella lezione di storia della musica: col suo dj set DāM-FunK ha fatto bella mostra della strettissima fratellanza tra afro, techno, hip hop e house. Regalando al pubblico anche un inedito del grande Madlib.
Stupendo il live del nostro connazionale fiorentino Alexander Robotnick (Maurizio Dami),
per fortuna a questo giro riuscito ad espatriare (qui potete leggere delle sue disavventure al riguardo): microfono in mano per fraseggi francesi, chicche evergreen dagli arrangiamenti macroscopicamente electro ed italo-disco che non ci hanno fatto fermare per un attimo – tra cui “Obesession For The Disco Freaks”, la leggendaria “Problemes D’Amour” o le super emozionanti “Dance Boy Dance” e “Les Grandes Voyages De L’Amour”. Un personaggio sui generis dalla presenza scenica quasi surreale rimasta invariata nel tempo che ha portato al Dimensions tracce bomba e tanta voglia collettiva che il live durasse il doppio del tempo essendo scivolato via velocissimo.
Bella tosta anche la selezione del detroitiano Scott Grooves, meritevole di aver miscelato in modo esemplare techno e jazz, senza escludere colpi di scena e momenti di pura estasi allo scattare di “Jaguar” di Dj Rolando. Storia, classe e balli convulsi si sono amalgamati con nostro pieno godimento. Interessante anche il live del londinese Romare, all’anagrafe Archie Fairhurst, durante il quale magari non abbiamo sentito nulla di geniale, un po’ come nel suo ultimo disco uscito per Ninja Tunes “Love Songs: Part Two”. E’ che ci siamo lasciati ammaliare da un intimismo molto jazz dalle derive house eleganti e ben dosate. Complice il palco dalle dimensioni ridotte e la non moltissima gente presente, siamo stati nelle prime file con addosso l’impressione di ascoltarci un piacevolissimo concerto in un parchetto.
Spostandoci ad altri stage, siamo rimasti entusiasti del il set di Pangaea al The Moat – lo stage più techno di tutti, quello riconoscibile dall’alto per le alte mura laterali e l’impianto “rave on” di prima categoria. Il suo è stato un inizio sornione raggae, a cui aggiunta sapientememente qualche progressiva maestria tecnica ai piatti, lo ha portato a suonare di tutto e di più, per poi sedimentarsi in un tappeto sonoro techno dai bassi assassini da cui è stato difficilissimo staccarsi. Sempre al The Moat, notevole anche il live di Conforce in cui hanno fatto da padrone gli anni ’80, innestati con gusto in un’electro-techno potente come un’acquazzone apocalittico.
Molto scenografico e d’atmosfera anche il live di Dopplereffekt, presentato allo stage The Stables, un progetto nato nel 1995 dal detroitiano Gerald Donald, ovvero la metà di Drexciya (di cui l’altra metà è lo scomparso James Stinson, di cui potete e dovete leggere qui). Sul palco assieme a Gerald, la sua compagna To Nhan Le Thi, entrambi con affascinanti maschere bianche e freddamente intenti a suonare electro onirica, a tratti quasi romantica.
Passando alle pagelle decisamente meno riuscite, e di cui scriviamo onestamente un po’ affranti, spicca un Goldie in versione alquanto inedita con il suo dj set techno al Moat: pochissima gente sotto il palco dovuta alle condizioni disastrose del dancefloor – le sabbie mobili, anzi, i fanghi mobili. Una selezione che non ci ha fatto né caldo né freddo, dolorosa al solo ricordo di come potrebbe prodigarsi un artista simile se solo fosse stato più ispirato e generoso.
Bocciatissima Nina Kraviz, contro la quale non nutriamo davvero alcun pregiudizio a differenza di molti, avendola sentita svariate volte anche in forma smagliante. Il suo è stato un set ignorante, truzzo ed insipido come pochi, pareva di essere in palestra pronti per fare aerobica a 130 bpm. Da notare che il suo set sul Main Stage ha fatto da intro a quello attesissimo di tre ore di Jeff Mills. Nina è stata ahimè inconcludente e noiosa. E a dirvela tutta, pure il nostro Jeff ci ha disilluso: vuoi per la tipologia del set a precederlo, vuoi per chissà quale altro motivo, ma The Wizard non è riuscito a creare la giusta empatia con il pubblico, perdendosi e non riuscendo ad incantarci come invece ci aspettavamo serenamente facesse. I momenti di psichedelia si sono trasformati in una tiritera poco godibile e velocissima, senza il solito ammaliante fil rouge. Una grande delusione. Sempre col fango alle caviglie, ovviamente.
Molto dispersiva anche la one night long di The Parrish al The Garden. Tenendo presente che è lo stage dalla pista più scomoda, essendo inclinata (anche se meno rispetto agli anni scorsi, avendo girato di poco il palco), e aggiungendoci il suo mixare alla carlona, che tanto spesso è anche quello che rende le sue selezioni più caldi e veraci, ci ha quasi infastidito. Tanta, tantissima house e black music, il tutto velocissimo e cantatissimo. Uno set che a nostro avviso si sono goduti davvero i più esaltati tra il pubblico (e non erano pochi, ok). Ma che ci ha lasciati quasi indifferenti, spingendoci ad allontanarci verso altri sound più costruiti e meno caotici.
Maluccio anche il geniale Gilles Peterson, noto per essere più “selecta” (eccezionale e super variegato) che dj, ma che a questo giro è stato molto meno imprevedibile del solito, concentrandosi troppo su house funkeggiante e classici black. Divertendo molto meno di quanto eravamo consci potesse fare.
Deludente anche Maurice Fulton allo stage The Garden, certo non aiutato dall’acquazzone che ha spazzato via gran fetta del pubblico, anche lui in un trip abbastanza monotono fatto di classiconi house e timide virate acid, senza picchi nè sorprese di alcun tipo.
Maluccio pure Kode9 allo stage Mungos, il palco dubstep/drum ‘n bass del festival: una selezione isterica, con quella dubstep cacofonica che spesso riporta ai malesseri provocati dalla fidget, con tutto quel continuo sali e scendi nevrotico che poco ci gusta.
Ultima nota critica: il palco Arija, già gli anni scorsi rimasto parecchio in sordina e quest’anno penalizzato ai massimi livelli perché praticamente nascosto dietro a giganti container. L’effetto che produceva lo stage era di allontanamento quasi automatico, quindi siamo sempre rimasti troppo poco per poter menzionare anche solo uno degli artisti esibitisi. E ci è dispiaciuto in particolar modo per il live del croato Chocolat Noir, con pochissimo pubblico (anche quella sera c’era il fango ammazza-presenze) e per quello di RuDan, i nostrani Okee Ru e Dan Mela, l’anno scorso stra-meritatamente vincitori del Vinyl Mix Competition al Dimensions e che quest’anno hanno suonato davanti a poche persone, proponendo musica funky-house forse un po’ troppo positiva sia per quel maledetto stage che per la gente traumatizzata dalle condizioni metereologiche.
Il Dimensions pensiamo debba maturare ancora molto. Ed è meglio tardi che mai.
L’edizione di quest’anno ci ha delusi. Oppure siamo noi a doverci tornare con molte meno aspettative.
Ma se l’intento di certa musica è far evadere e sognare, perchè non avere il diritto di crearsi delle sane illusioni?