Un po’ per caso, un po’ no, nelle ultime settimane si sono concentrate delle notizie simili tra loro, almeno all’apparenza. Il filone conduttore infatti era “accademia / concorso per dj e producer + sponsor a fare da mecenate dell’operazione”: perché a metà settembre la Red Bull Music Academy ha avuto uno spin off italiano a Roma, col Bass Camp (ve ne abbiamo parlato qui), pochi giorni più tardi veniva proclamato il nuovo vincitore assoluto della Burn Residency (di nuovo bella figura per l’Italia: se l’anno scorso Lollino ha vinto, quest’anno Lorenzo De Blanck stava per farlo), nelle stesse settimane lo JägerMusic Lab prima radunava a Berlino dieci ragazzi per una settimana abbondante, da lì ne sceglieva sei, e da questi sei alla fine sono emersi i tre vincitori finali durante una serata finale a Roma i primi di ottobre. Insomma, all’improvviso un gran traffico di “accademie”, amorevolmente promosse dai beveraggi di turno. E che è?! Tutti ora?
Non facciamo un torno a nessuno, crediamo, se si afferma che comunque l’esperienza “pilota”, quella pioniera sotto tutti i punti di vista, è quella della Red Bull Music Academy. L’anno prossimo festeggia il ventennale: è già questa è una cosa da sottolineare tre volte. Di “concorsi musicali” patrocinati da brand è sempre stato pieno il mondo: peccato che quasi tutti siano morti dopo poche edizioni, al primo cambio di marketing plan. Tanto di cappello a Red Bull per aver tenuto la barra dritta. E, soprattutto, per averlo fatto seguendo un format molto meno semplice e molto meno fruttuoso sul breve periodo, a livello di numeri e di marketing: la RBMA ha sempre avuto come mandato, da parte dei suoi finanziatori, “Pensate a fare le cose nel modo più puro e rigoroso possibile dal punto di vista artistico e ideale. Niente compromessi, niente marchette, niente artisti scelti per il loro potenziale a livello di fama; puntate sulla qualità, e stop”. Ora la gente non se lo ricorda (o qualcuno fa finta di non ricordarselo), ma per un sacco di tempo la RBMA è stata una cosa da “sfigati”, oh sì: radunava artisti, storie e prospettive che avevano il rispetto di tutti, ok, ma un peso specifico sul mercato della club culture mondiale molto basso. Era il rifugio di quelli bravi sì, perché nessuno ne discuteva il valore, ma poco capaci di attirare gente – paradossalmente proprio perché troppo bravi e “intelligenti”. Insomma, uno sfizio, che l’azienda Red Bull si levava giusto per, boh, fare bella figura (e scaricare le tasse?). Tanto per farvi capire: l’ossessione per la qualità era talmente alta che quando nel 2004 ci fu la Red Bull Music Academy di Roma chi faceva da ufficio stampa restò di sale quando chi guidava l’Academy rifiutò un tot di telecamere ed interviste fatte da media generalisti molto grossi (parliamo di Rai et similia, per intenderci): “Vogliamo parlare solo con persone in grado di capire e poi rappresentare la nostra esperienza, un’esperienza in cui ogni lecturer conta uguale. Non ce ne fotte un cazzo se sono le televisioni, se possono darci un’esposizione enorme: o vengono alle nostre condizioni, ovvero senza sapere se il tal giorno beccheranno un lecture “famoso” o meno, oppure ciao. Non siamo qua per farci sfruttare o per fare i fenomeni da baraccone”. E via così un calcio a quella che sarebbe stata una media revenue importantissima per il brand Red Bull in Italia.
Anni e anni di rigidità così, anni e anni in cui non si è scesi a compromessi, hanno piano piano rafforzato radicalmente l’aura attorno alla RBMA. Ora funziona; e funziona per tutti. E’ un marchio di qualità vero. Dà prestigio. Passarci conta. Ed è così perché non ci sono mai stati cedimenti sulla linea originaria. Quello che all’inizio sembrava un investimento folle, snob e perdente (perché dare tanti soldi ad un’operazione che generava una media revenue bassina e che era dedicata a ragazzi che poi, ad Academy finita, manco diventavano famosi e superpopolari?), col tempo si è rivelato invece vincente, un trick di marketing che ha moltiplicato a dismisura sul lungo periodo il valore del brand a trecentosessanta gradi. Credeteci: l’associazione tra Red Bull e club culture è data non solo dalla grande presenza di tori rossi in giro per festival e club, ma anche dalla quasi inconscia percezione di qualità che emana la sigla Red Bull Music Academy (grazie alle Academy stesse, al lavoro di altissima qualità del sito, alla gigantesca mole di contenuti della RBMA Radio sul web, ma anche e soprattutto grazie al passaparola costruito nel tempo coi vari addetti al settore). L’anno prossimo – che come si diceva è quello del ventennale – si torna alle origini, ci si ritrova a Berlino, che ospitò la prima, semi-carbonara edizione nel 1998. Le cose sono cambiate tantissimo nel frattempo. Sono state investite, sommando i budget anno dopo anno, milioni e milioni di euro. Tanta roba. Ma è stato un investimento sulla lunga vincente (che ora si può permettere anche di operare in grande, perché grande è il prestigio e di conseguenza l’impatto sulla brand identity). Continuerà? E fino a quanto? Resterà coerente con quanto fatto finora? Non lo sappiamo, e in realtà non sta certo a noi dirlo. Ma quello che è successo finora, e l’effetto che ha avuto sulla percezione positiva del brand Red Bull, è oggettivo.
Anzi, aggiungiamo: probabilmente è anche per il successo dell’operazione Red Bull Music Academy che ora altri brand hanno iniziato a percorrere una strada “academyca”. Lo ha fatto un competitor diretto nel campo degli energy drink come Burn, con la Burn Residency; lo ha fatto Jägermeister, altro brand che ha deciso di posizionarsi in modo capitale dentro il clubbing, con il JägerMusic Lab. Insomma, insomma: è la solita storia, quella in cui quando si vede che una cosa funziona allora ci si tuffa tutti a pesce? E’ questo? Nì. Anzi. Per fortuna, fondamentalmente no.
Prima Red Bull, ora anche Burn e Jägermaiester. Insomma, insomma: è la solita storia, quella in cui quando si vede che una cosa funziona allora ci si tuffa tutti a pesce? E’ questo? Nì. Anzi. Per fortuna, fondamentalmente no
Lo diciamo perché abbiamo toccato con mano ed osservato per bene entrambe le faccende, sia quella da lato Burn che quella da lato Jägermeister. A un passante distratto potranno sembrare tutti la stessa cosa (“Una scuola per dj coi marchi che ci mettono i soldi, così parlano coi giovani delle discoteche, ’sti furbacchioni”), e se così fosse stato il piatto l’avrebbe comunque portato a casa Red Bull, che ha il vantaggio di essere il prime mover. Gli altri, se arrivano, arrivano comunque dopo, sono dei “copioni”, gente che va al traino sperando di raccogliere le briciole di fama ed autorevolezza che avanzano. Il punto però è che sull’autorevolezza la Red Bull Music Academy non la batti, ossessionata com’è dal discorso sulla qualità, sull’approfondimento, sul fottersene dei numeri per puntare solo allo spessore da connoisseur; l’intuizione giusta è capire che non esiste una operazione perfetta a trecentosessanta gradi, e se la RBMA è perfetta su molte cose allora, e lo è, giocoforza ne lascia però scoperte altre. Non le presidia. Non le porta avanti. E ci sta allora che altri le facciano, le perseguano, ritagliandosi un’identità sopra.
Burn è quella che ha mirato più cinicamente al risultato, al bersaglio grosso, nel tratteggiare il DNA della Burn Residency. Si valuta la bravura dei dj/producer, certo, quello è inevitabile ed obbligatorio, ma si valuta anche la loro capacità di “muoversi”, di essere i manager di se stessi, di saper usare bene i social, di saper raggranellare view e like; coerentemente, il primo premio è un gran bel gruzzolo che viene dato non cash ma deve essere usato per lavorare sul proprio successo (studi, masterizzazioni, promozione, advertising). Una impostazione, volendo, molto “tradizionale” (il “concorso per diventare ricchi e famosi”, insomma) portata però intelligentemente avanti con gli strumenti della contemporaneità in musica (e la musica da club è la più contemporanea di tutte, quella con le regole più fresche e nuove – anagraficamente inevitabile). E’ esattamente l’opposto della scelta di campo di Red Bull, della RBMA: lì se fai vedere che ci vuoi entrare per “diventare famoso” e se fai intuire subito che in realtà già stai manovrando la tua carriera con questo obiettivo, novantanove volte su cento ti si elimina senza pietà in sede di selezione (in quell’uno caso su cento, vuol dire che hai un talento smisurato: abbiamo dei personaggi in mente, soprattutto uno, non lo diremo nemmeno sotto tortura). Alla Burn Residency invece vogliono gente con la esplicita cazzimma del successo: senza svendersi artisticamente, senza mettersi a fare la foca ammaestrata, mantenendo la propria identità, sia chiaro, però ecco, devi voler sfondare. Devi essere focalizzato sull’obiettivo del diventare un dj che fa i numeri (senza scorciatoie EDM: quelle non sono molto apprezzate, c’è la percezione che è un fenomeno ancora troppo fresco e troppo pericolosamente imbastardito con la volatilità del pop per essere un cavallo su cui puntare).
Ok. Bene. C’era spazio allora per un terzo “concorso”, una terza “academy”, un terzo approccio? Alla fine sì. E a Jägermeister sono stati bravi ad indovinarlo, con lo JägerMusic Lab – ma onestamente parlando, per convincercene davvero siamo dovuti andare a controllare di persona (gentilmente invitati). Perché inizialmente la reazione anche inconscia era: “Vabbé, un’altra Academy, un altro tentativo di farsi belli facendo i mecenate dentro la club culture. Il che va benissimo, evviva!, sempre meglio questo che buttare i soldi nell’ennesima parraccuta con scontate celebrità televisive inflazionate! Però boh…”. Ad aggravare il tutto, se la RBMA mette in campo una quantità di nomi illustri mostruosa tra i propri lecturer (ci sono tutti, veramente tutti, la lista di chi ha tenuto lecture alla RBMA è un patrimonio dell’umanità) e se comunque Burn al momento di mirare al clubbing-che-funziona ha mentori/ambasciatori come Carl Cox, Luciano e Seth Troxler, ovvero fuoriclasse veri, lo Jägermusic Lab chi ti metteva in campo? I romani The ReLOUD. Che magari molti di voi ricordano solo per una partecipazione a Top Dj con la trovata del vestirsi in smoking mentre suonano (ossignùr…). Il fatto di portare i dieci sopravvissuti alle prime selezioni per una settimana a Berlino poteva sembrare solo uno stanco tentativo di sfruttare per l’ennesima volta l’aura che c’è attorno alla capitale tedesca (“Ehi ragazzo, ti portiamo a Berlino, la capitale dello sballo! La città più eccitante per voi giovani!”, da recitare con voce da radiogiornale EIAR), un sospetto aumentato dal fatto che si era a sì a Berlino ma nel programma delle lezioni compariva ben poca gente che nella capitale tedesca aveva una storia e un ruolo strategico. Sì, bel colpo quello di avere tra i maestri Luca Pretolesi (ieri Digital Boy, oggi uno degli ingegneri in studio per la dance più quotati al mondo, con residenza in America), ma a parte questo sembrava davvero, sulla carta, molto meno interessante di operazioni come RBMA e Burn Residency.
Però vai a Berlino e scopri non solo che The ReLOUD non girano più in smoking (anzi: si sono resi conto che indossarli era una puttanata e si sono fatti un po’ plagiare dall’alfabeto televisivo) ma anche e soprattutto che sono dei docenti della madonna, oltre che producer decisamente preparati. Hanno saputo infatti organizzare dei moduli di lezioni “sul campo” di produzione chiari e al tempo stesso utili e formativi per tutti i partecipanti. Più della Burn Residency, più di RBMA, lo Jägermusic Lab infatti ti insegna davvero a mettere le mani su macchine e software, non dà nulla per scontato. Anche all’Academy di Red Bull e alla Residency di Burn metti, eccome, le mani su macchine e software, ma in qualche modo si parte dal presupposto che tu sia già “imparato”, non c’è la portata e il rigore didattico che c’è al Lab di Jäger. E’ un terzo approccio. E può essere davvero apprezzato da chi ci finisce dentro (“Non mi interessa nulla se vinco; quello che ho imparato in questa settimana è quanto sarei riuscita ad imparare spendendo centinaia, anzi, migliaia di euro iscrivendomi ad una scuola di musica. Mi sento già una persona fortuna” ci raccontava uno dei partecipanti, durante la nostra visita berlinese). Lo sbocco finale dello Jägermusic Lab, molto legato alla label D:Vision e ai suoi satelliti, finiva quasi in secondo piano rispetto alla ricchezza dell’esperienza in sé. E alla fine Berlino in qualche modo ci è rientrata, in questa settimana, uscendo in giro per la capitale tedesca a raccogliere field recording o concedendosi una serata tutti assieme al Burg Schnabel, col buon vecchio Rob Acid in console (e sì, sembrava di stare nella Berlino pre-Berghain, pre-turisti, pre-hype: bella scelta).
C’è ad ogni modo una cosa che accomuna comunque queste tre faccende che, come abbiamo provato a spiegare, secondo noi sono (per fortuna!) molto meno simili tra loro di quel che sembra a prima vista: l’importanza del fattore umano nell’esperienza di chi partecipa. Non sono infatti tre “concorsi” in cui al brand di turno interessa solo raccogliere il maggior numero di application possibile (per fare profilazione anagrafica) per poi sì, premiare un vincitore, perché l’idea di una vincita serve ad attrarre attorno all’operazione altri partecipanti e i loro fiancheggiatori esterni, ma fondamentalmente chi se ne frega di come si trova in questa esperienza chi partecipa ma non vince. No. Nella RBMA da sempre, nella Burn Residency per quanto abbiamo potuto vedere ad esempio qui, assolutamente nella settimana berlinese dello JägerMusic Lab, il livello di calore umano e di presa bene emotiva è a livelli alti davvero. In questo sta la differenza tra un concorso, dove ognuno partecipa per i cazzi suoi e finita lì, e invece una academy, un lab, una residency: il condensare nello stesso posto per tot giorni delle persone, con le loro storie, le loro emozioni, i loro racconti, le loro sensibilità. Ed è lì che hai l’ennesima conferma che la musica unisce le persone (in questo caso i partecipanti) e le rende migliori, più felici, più empatiche, più desiderose di condividere. Un sentimento che dovremmo recuperare tra l’altro anche nei club, nella club culture: posti dove ormai da anni troppo spesso chi arriva in sala viene visto soprattutto come numero, come “cliente” (che definizione orribile e fredda!), come cifra che serve a far quadrare i conti a fine serata, poco altro.
I “clienti” vanno bene per le concessionarie di automobili. Esattamente come i semplici “concorsi” vanno bene per chi fa marketing del secolo scorso, ovvero quando ciò che interessa è far massa numerica e far circolare il nome il più possibile e stop. Red Bull, Burn e Jäger hanno dimostrato di voler investire nella musica, in particolar modo nella musica elettronica (o addirittura “avanzata”, nel caso di Red Bull) con un piglio molto più pieno di contenuti, con maggior spessore. E se all’inizio può sembrare – a tirarla di piatto – che Burn e Jäger abbiano provato a copiare una storia di successo portata avanti con rigore e tenacia da Red Bull ormai da anni, per fortuna entrando più addentro alla questione sono saltate fuori le differenze, le rispettive specificità. Perché in questo sì che marketing e musica si assomigliano: per lasciare il segno, per lasciare un segno duraturo nel tempo, occorre personalità. Occorrono idee. Occorre originalità. E c’è spazio per tutti.
Bisogna sempre stare molto, molto, molto attenti quando dei marchi vogliono mettere le mani, e il cappello, sulla musica. Sul suo fascino. Sull’aura che esercita. Non è mai un’operazione indolore. Ed è sempre un’operazione a rischio
Occhio. Bisogna sempre stare molto, molto, molto attenti quando dei marchi vogliono mettere le mani, e il cappello, sulla musica. Sul suo fascino. Sull’aura che esercita. Non è mai un’operazione indolore. Ed è sempre un’operazione a rischio. Ma al tempo stesso, è fondamentale capire che possano esistere anche delle pratiche virtuose, in cui il marchio finanzia – o almeno spalleggia – un evento musicale e cerca di permettergli anzi una esistenza “interessante”. Lo abbiamo fatto anche noi di Soundwall con Molinari quest’anno, con gli #ExtraContent. Sono marchette? Ci stiamo elogiando da soli? Stiamo tentando di catturare la benevolenza degli Jäger, Burn, Red Bull di turno, anvedi mai che l’anno prossima qualche fettina della torta del budget ci sia anche per noi? Se state pensando così, buon pro vi faccia. In un mondo dove i brand ci sono e dove anzi sono loro a muovere una fetta importante delle varie economie a disposizione, bisogna imparare a costruire un rapporto dialettico e maturo con essi, per tentare di trovare un risultato che migliori la vita e le possibilità di tutti. Ci pare poco interessante, ormai, ma non solo a noi, il caro vecchio “Tu mi dai dei quattrini, io appiccico il tuo marchio in sala”: ora il rapporto si fa più sofisticato, per certi versi anche più rischioso. Un tempo, il musicista faceva il musicista, il promoter il promoter, il marchio il marchio; ora questi mondi interagiscono e si compenetrano sempre di più, con relativi rischi: a maggior ragione bisogna imparare a ragionarci sopra e ad osservare, con attenzione e preparazione.