Non per forza i momenti migliori, ma di sicuro fra quelli che più hanno caratterizzato il 2017 che sta per finire. Momenti su cui riflettere bene per costruire, tutti insieme, un bel 2018 – pieno di spirito positivo, idee, successi (non solo economici), consapevolezze. Con anche qualche stronzo di mezzo, perché ci vuole pure quello per mettersi alla prova per bene.
Davvero c’era tutto questo deserto durante il set di Carl Cox al Tomorrowland?
E’ stata una delle news più lette di quest’anno, facendo numeri incredibili. Poi ok, se ne può discutere: in molti hanno fatto notare che non è tanto questione di “Quei fessi dell’EDM non capiscono il valore di un Carl Cox, bambini ignoranti che non sono altro”, che comunque a quell’ora – ovvero in apertura di giornata – il vuoto c’era fisiologicamente. Va bene. Però l’interesse e le passioni che si sono scatenate attorno a questa notizia dimostrano una cosa: al di là dell’hating-in-automatico, ci si interroga ancora molto sull’importanza della consapevolezza, della conoscenza delle radici e dei protagonisti storici della club culture. E questa è una cosa che fa bene sia alla scena storica più legata a techno, house e dintorni che alla galassia EDM fatta in primis da ventenni. Tra l’altro, col passare del tempo le due sono destinate ad incontrarsi sempre più spesso.
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Vi ricordate di Gianluca Vacchi?
E già che ci siamo: ora magari già non ce lo ricordiamo più, ma c’è stato un momento – a cavallo fra quest’estate e quest’autunno – in cui pareva che Gianluca Vacchi fosse il centro non solo del mondo ma anche della club culture (magari anche per l’attenta regia di Media Nanny, una delle agenzie di PR più cazzute del mercato). E non solo in positivo. Anzi. Sono passati poco più di due mesi dalla sua esibizione ad Amsterdam in una serata finita sotto il cappello dell’ADE. Paiono secoli. L’atteggiamento più giusto è quello sì di avere una posizione precisa (possibilmente, quella per cui Vacchi comunque è uno che si è guadagnato scorciatoie a colpi di Instagram Stories e non di release), ma senza perderci il sonno e senza farsi venire le vene pulsanti sul collo dall’indignazione. Alternando un misto di sorriso, di curiosità e di indifferenza. Se vale qualcosa lo dimostrerà, sennò se lo porterà via il “Viento”.
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…e all’improvviso, tutti cresciuti a pane, disco, funk, soul e Dekmantel
A proposito di personaggi che fanno sempre parlare: Nina Kraviz è ovviamente uno di questi. Può essere più o meno brava a mixare, ma che nelle sue selezioni abbia personalità questo è indubbio. Poi oh, se per voi una ragazza che è bella per forza a) l’ha data a qualcuno b) ha successo solo perché è figa c) non può essere brava, ecco, se siete convinti di uno o di tutt’e tre di questi punti peggio per voi. Speriamo però che questa problematica sia già stata superata, per un giudizio più sereno ed oggettivo sulle sue qualità da dj. Per il 2017, vorremmo concentrarci sul fatto che pure una “sensibile alle mode” (anzi, spesso brava ad anticiparle e a crearle) ad un certo punto si sia arresa alla vera nota dominante del 2017: la retromania disco-soul-funk. Meglio ancora se sotto l’egida Dekmantel. Onestamente: il dj “wagon jumper” dal 2000 al 2005 dichiarava di suonare solo minimal (e, purtroppo, lo faceva davvero); dal 2005 al 2010 continuava a suonare minimal, ma dichiarava di essere un devoto della techno-dub (o, alla peggio, di suonare deep house); dal 2010 a poco fa ha (ri)scoperto improvvisamente la techno più scura (prima andavano bene pure Klock, Faki e Dettmann, oggi sono da sfigati, oggi solo da Rødhåd in giù), quella che invece schifava nella sua “vita” precedente perché grossolana o senz’anima; e negli ultimi due, tre anni infine suona eclettico e ricercato come se Antal e Hunee fossero entrati irrimediabilmente nella sua anima; o, al contrario, deve per forza ascoltare le destrutturazioni noise-ambient più deprimenti e depressive, perché appunto Faki e Klock sono troppo pop e dozzinali (però quest’ultima deriva la prendono di solito soprattutto quelli che arrivano da altre scene che non siano quelle prettamente legate al clubbing).
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Se non è crisi, è flessione: a maggior ragione, rimettiamoci in cammino
Sapete qual è la conseguenza di questo stare troppo attaccati alle mode? Che alla fine nei club vai più perché fa figo esserci, che per il divertirsi davvero. Sul breve periodo questo funziona, sul lungo ad un certo punto quelli meno coinvolti e meno esperti dicono semplicemente “Sai che c’è, ‘sta cosa non mi diverte più” (anche perché se non sei un habitué della guest list e dei free drink, una serata tra ingresso, drink e altro ti può costare un piccolo capitale – e il PIL italiano da un po’ di anni a questa parte non è proprio che si impenni baldanzosamente). Non è che il pubblico scompare, no, ma si assottiglia (e consuma di meno al bar); al tempo stesso però ci siamo attaccati tanto, troppo alla necessità di avere un guest straniero alla propria serata, i management inglesi o tedeschi hanno mangiato la foglia e hanno fatto esplodere verso l’alto le fee degli artisti di cui curano gli interessi. Lo può capire chiunque: queste due cose cozzano pesantemente fra di loro. E infatti iniziano a chiudere club (anche quelli che non andavano male, ma che hanno intuito che ad andare avanti mantenendo ostinatamente alti livelli quali i loro si rischiava di sbattere contro un muro, in questo periodo storico: pensiamo a Wall e Harmonized). In generale comunque bisogna capire che se il modello di discoteca è entrato in crisi negli anni ’80 (e infatti negli anni ’90 sono arrivati i club), ora la crisi di contenuti e di capacità propulsiva sta intaccando il modello del club. Bisogna iniziare a guardarsi attorno, immaginarsi nuovi modelli che non siano solo “Due resident a caso che mi costano un cazzo, uno straniero dal nome caldo che fa tanto Berlino o Circoloco”: perché non affascinano più come un tempo, non sorprendono più come un tempo, non divertono più come un tempo, questi modelli. Ma costano il triplo di un tempo. Un consiglio? Un invito? Un auspicio? Ripartiamo dai resident di qualità affrancandoci dalla “dittatura” dell’ospite straniero di nome, ripartiamo dalla volontà di rompere gli schemi musicalmente. La fortuna della club culture è sempre stata quella di mettere in campo proposte musicali che spezzavano gli schemi dominanti, riuscendo al tempo stesso a divertire, a far ballare, a creare un senso di comunità. I medio-grandi nomi come necessari ed ineludibili magneti attira-persone lasciamoli ai festival, che sono un altro sport (comunque nobile).
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Miracolo a Torino
Uh, a proposito di festival: in Italia abbiamo il miracolo Torino. Città che ha: Club To Club, uno dei festival dai profili migliori d’Europa, abilissimo come pochi nella comunicazione e nella direzione artistica; la diade Kappa FuturFestival e Movement, in grado di muovere numeri grandissimi, di gestirli sempre meglio (con standard organizzativi e produttivi ai vertici assoluti); Jazz:Re:Found, uno stranissimo e adorabile boutique festival che raccogliendo nomi assolutamente “contro” la moda (anche quella intellettual-artistooide-alternativa, nota bene) è riuscito a diventare una realtà solida. Ora, tolta Barcellona, ci dite quale altra città europea se non mondiale riesce ad avere ben quattro festival di spessore nell’arco di un anno solare, tra cui tre nell’arco di un mese? Forse Londra, però mah; di sicuro Berlino no; Parigi, figuriamoci. Insomma, vedete che pure in Italia possono esserci le eccellenze? Non è che per forza da noi è impossibile! Però ecco, non è un caso se tutto questo succede in una città che ancora quindici anni fa ha deciso politicamente, pur con qualche stop-and-go, di puntare sulla cultura e sugli eventi. Creando così un ecosistema favorevole. Capace di un grande ed oggettivo ritorno economico. Meditate gente, meditate. E cercate di capire come rendere costruttiva e stimolante la competizione.
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Un altro miracolo a Torino (di cui in futuro vorremmo fare a meno)
Ma l’Italia è anche il posto dove tutto è tremendamente difficile. Parlavamo di Jazz:Re:Found, no? Bene, è stato un successo, è andato tutto bene, anzi, più che bene, ma farlo partire è stato un vero e proprio un miracolo, credeteci. Perché a 48 ore dall’inizio del festival è saltata la location che doveva ospitare il 90% del cartellone. Superficiali gli organizzatori? Sì e no, la storia è lunga, né è detto che sia possibile capire dove iniziano le responsabilità di uno e finiscano le responsabilità di un altro. C’è però un dato di fatto oggettivo: l’Italia è uno dei paesi più difficili in Europa, se non il più difficile, in quanto ad autorizzazioni per l’uso di una location, pubblica o privata che sia. Abbiamo proprio bisogno, di portare avanti questa strettoia procedurale, che spesso è un nodo scorsoio al collo di chi vuole rischiare ed investire nella cultura? Non ne possiamo fare a meno? Soprattutto: ce lo possiamo permettere?
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Dixon all’Armani Privé: ne vale la pena?
Di sicuro non hanno (o almeno non dovrebbero avere) problemi di permessi all’Armani Privé, posto sciccosissimo a Milano, insomma, il nome dice tutto. Quest’anno all’improvviso ha iniziato a fare nomi “nostri”: e passi per Marco Carola, che con Armani ha addirittura una collaborazione attorno al brand Music On, ma Dixon in cartellone lì ha fatto molto, molto discutere. Prezzi d’ingresso altissimi (giravano le voci più disparate, comunque nel range tra 50 e 108 euro, fossero anche 50 per una sera col solo Dixon è un po’ tantino), situazione ovviamente tendenzialmente posh. A molti la cosa non è andata giù. Volete sapere la nostra? Allora, mettiamola così: fatta salva la libertà a tutti di organizzare qualsiasi cosa, che ci mancherebbe, il punto è che le radici della club culture originaria non escludono le persone ricche, tutt’altro, ma escludono l’ostentazione di status symbol da ricchissimi. E il clubbing da jet-set il più delle volte produce situazioni dove la musica è un contorno, non il fulcro dell’esperienza. Non è questione di essere pauperisti per forza: ma tra lo sfoggiare la propria passione per la musica e l’usarla invece come colonna sonora e segnalibro per far vedere che si è nel giro di chi “ce l’ha fatta” ad esser ricco&potente&famoso, scusate, ma secondo noi c’è ancora differenza. E sappiamo da che parte stare. Chi c’era, assicura che Dixon ha fatto un gran set, all’Armani Privé. Ne siamo convinti – erano pareri per lo più di persone che ne sanno. Ma se Dixon inizia a farsi ispirare più da un posto dove occorrono minimo 50 euro per entrare e dove si respira lusso piuttosto che da un posto più normale, alternativo o democratico, beh, è Dixon che ha un problema. Non in assoluto, sia chiaro, potrà ben farsi gli strafattacci suoi su dove suonare, come e per chi; ma rispetto alle radici di ciò che è club culture (…ovvero ciò che gli ha permesso, negli anni e con pienissimo merito, di fare una vita appassionante, interessante ed agiata), ecco, quello sì. Non vorremo doverci trovare a commentare, a fine 2018, il suonare nei club di lusso come nuovo trend fra i migliori dj della nostra area.
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Tiga o non Tiga
Altro articolo che ha spopolato, quest’anno: il Tiga mesto e scorato dopo un’esibizione a Roma. Ora, pensatela come volete: state dalla parte di Tiga, o consideratelo un attention whore che usa mezzi furbetti per attirare l’attenzione e nascondere la mancanza d’ispirazione, non è questo il punto qui. Tiga o non Tiga, vogliamo che il principio per cui non per forza ogni serata è (e deve essere ) top, bomba, super diventi un patrimonio comune. Qua, a furia di doverci sempre tutti raccontare che ci siamo divertiti un casino (sia che noi si sia gli organizzatori, sia che si sia semplicemente gli avventori), stiamo costruendo una patina di falsità attorno all’esperienza clubbing. Uno dei motivi della crisi è anche questo. Se una serata non è andata bene, diciamolo: non muore nessuno. Anzi, in questo modo migliora più di qualcuno – per capire come fare meglio la prossima volta.
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Spari al BPM
Perché la verità è che per molti, per fortuna, quello del clubbing è ancora un mondo di felicità, di gioia, di escapismi, di fratellanza. Proprio questo è il motivo per cui l’articolo più letto in questo 2017 di Soundwall è questo: un po’ perché siamo stati fra i primi a darne notizia, ma non sarebbe bastato questo a fare i numeri di views impressionanti che abbiamo fatto (e che mai vorremmo fare, per motivi del genere). Quanto accaduto al BPM ha colpito pesantemente tutti: non solo perché la morte colpisce ed atterrisce sempre, ma perché una morte nel contesto del clubbing continua a sembrare qualcosa di assurdo, terribile, inaccettabile. Nel 2018, vogliamo davvero che il nostro post più letto dell’anno tratti di ben altro. Questo il primo e il più sentito augurio che ci facciamo.
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Anche facendo lo stronzo
Il secondo, molto meno importante, è che non accadono più cose tipo questa. I management iper-protettivi che piazzano una campana di vetro attorno all’artista e che credono che i media debbano solo fare da amplificatore di una narrazione che viene decisa dal management stesso sono un male da estirpare. Inquinano l’aria, avvelenano i pozzi, non fanno nemmeno del bene all’artista stesso che rappresentano. Non abbiamo bisogno di nulla di ciò. Anche perché se uno ha cose da dire, può dirle comodamente – anche facendo lo stronzo. Come qui: la nostra intervista dell’anno.