È Pietro Anton il regista di “Italo Disco Legacy”, documentario realizzato in quattro anni che si pone l’obiettivo di raccontare e tutelare quanto più di intrigante e creativo ci sia stato nell’italo disco. Ci avevano già pensato Pierpaolo De Iulis in “The Sound Of Spaghetti Dance” e Francesco Cataldo Verrina nel libro “Italo Disco Story” a tratteggiare il controverso mondo della dance italiana degli anni Ottanta, peraltro tirando in ballo alcuni dei nomi qui (giustamente) riproposti perché imprescindibili per il tipo di trattazione, ma è positivo che qualcun’altro sia tornato sull’argomento, ampliandone le prospettive e i punti di vista. A caratterizzare il film è essenzialmente il raffronto, costante, tra il racconto di chi ha vissuto il fenomeno dell’italo disco in Italia e chi invece lo ha conosciuto ed apprezzato vivendo oltre le Alpi. Ad emergere è uno spaccato interessante e significativo perché offre allo spettatore una valida chiave di lettura per inquadrare la tematica in modo ancora più accurato e profondo.
Se l’italiano medio è abituato a parlare dell’italo disco come un filone sospeso tra trascurabile cineseria e banale paccottiglia rifilata ad immense platee dalla televisione berlusconiana o dalla radio/mente cecchettiana, all’estero questo genere gode di ben altra credibilità. Basti ascoltare i racconti di alcuni dei personaggi coinvolti, come il francese Michel Amato (The Hacker) e l’olandese Ferenc van der Sluijs (I-f) per capire quanto sia radicalmente diversa la percezione per l’italo disco, che non è stato solo l’enorme calderone in cui finivano le canzonette montate su basi ritmiche stereotipate (di solito realizzate con Linn Electronics LinnDrum, Roland TR-808, Oberheim DMX, E-mu Drumulator e Simmons SDS 8) trainate dal basso in ottava e date in pasto, a seconda della stagione, al pubblico dei cinepanettoni o a quello dei Festivalbar. Nella sua fase iniziale (dal 1981 al 1984 circa) l’italo disco si rivela seminale per futuri generi come house e techno pur nascendo in maniera piacevolmente ed innocentemente naïf. Quando la disco americana si trova sul viale del tramonto e la new wave e il synth pop sdoganano e legittimano i suoni programmati artificialmente, in Italia avviene qualcosa di straordinario. Ignorati dalle multinazionali, all’inizio diffidenti per quel tipo di musica artigianale, in lingua inglese (o pseudo tale) e dai lineamenti abbastanza grezzi, alcuni musicisti nostrani cominciano ad inserire le prime tessere di uno dei mosaici più coinvolgenti della storia musicale italiana, e lo fanno con un margine di creatività che non soffre il peso di particolari imposizioni ed esigenze commerciali.
Quelle che vengono riconosciute come affascinanti intuizioni però, è giusto ammetterlo, in realtà sono espedienti trovati per ovviare a problemi di varia natura: l’uso del vocoder maschera spesso cantati in inglese maccheronico che avrebbero suscitato ilarità sul mercato internazionale, gli scrosci di batteria simulano i virtuosismi del batterista ormai virtualizzato visto che quello in carne ed ossa viene sostituito dalle drum machine, gli apparati melodico-armonici particolarmente elaborati sopperiscono all’assenza delle grandi orchestrazioni, oltre al (tanto criticato) coinvolgimento di cosiddetti “personaggi immagine”, assoldati per dare un volto a team di produttori/compositori che per varie ragioni non possono essere interpreti pubblici. È vero quindi che l’italo disco nasce come imitazione congiunta della disco a stelle e strisce, della new wave, del synth pop e dell’eurodisco moroderiana, ma è altrettanto vero che riesce presto a smarcarsi dalla banale imitazione da tarocchificio cinese acquisendo una propria identità diventata un trademark. Alcuni restano ammaliati anche dall’hi nrg di Bobby Orlando e del compianto Patrick Cowley alimentando la genesi di nuovi ibridi. Insomma, la “disco dance”, come ai tempi viene gergalmente chiamata in Italia, è un genere derivativo in grado di andare oltre la banale riproposizione di formule già note ma preservando il formato “canzone” appetibile per le radio.
A dare una nomenclatura a quella singolare personalizzazione, come si ricorda nel film, è Bernhard Mikulski, imprenditore discografico tedesco a capo del colosso Zyx, che intorno al 1983 affibbia, in virtù della provenienza geografica, il nome italo disco a quel genere per poi commercializzarlo a dovere mediante le compilation, vere miniere d’oro per i grossisti di allora. Mikulski, passato a miglior vita nel 1997, ignora che quel nomignolo ideato per scopi di marketing sarebbe diventato il simbolo di più generazioni. Uno che di italo disco si è appassionato all’istante in quel periodo è il danese Flemming Dalum che nel documentario racconta di essere venuto in Italia ben undici volte per comprare dischi che sarebbe stato difficile (se non impossibile) trovare nel suo Paese natale. Ad oggi Dalum vanta una delle collezioni più complete in assoluto dell’italo disco, e a riprova di ciò sono i suoi svariati set mixati in cui è possibile rintracciare centinaia di produzioni oscure e di ormai ardua reperibilità. Coloro che risiedono all’estero infatti non sono legati ai parametri selettivi e di valutazione italiani, per nulla condizionati dall’associare un nome o una copertina ad un contesto ben preciso magari riconducibile a starlette emergenti, a personaggi appartenenti al mondo del piccolo schermo o al cinema di serie b, o a più banali canzoncine in lingua autoctona usate come sigle di programmi televisivi.
DJ come Intergalactic Gary, il citato I-f, Hell, Otto Kraanen e Mark Du Mosch fanno tesoro della lezione che, inconsciamente, tengono i produttori italiani. Discoteche come Xenon, Altromondo Studios e Cellophane diventano templi da visitare in pellegrinaggio e per questo non ci si deve stupire se negli ultimi venti anni l’italo disco (o itàlo, come spesso pronunciano oltralpe) sia rifiorita, affrancandosi da quella ignobile nomea che si era ritrovata appiccicata addosso quando divenne oggetto di iper inflazione e scrigno di tanti soldi ma zero idee. Con pochi mezzi l’industria indipendente italiana (si pensi alla Discomagic di Severo Lombardoni o a Il Discotto di Roberto Fusar-Poli, per citare due colonne statuarie) riesce a dare filo da torcere anche alle rockstar/popstar internazionali che si ritrovano inspiegabilmente tallonate o persino sovrastate da nomi letteralmente piovuti dal cielo. Come si legge nel trafiletto di un vecchio quotidiano, “i grossisti fabbricano nuovi “artisti” nati tra Boston e la California secondo le schede degli uffici stampa ma in realtà ragazzotti nostrani di belle speranze”, e questo sottolinea come e quanto la fantasia abbia giocato un ruolo fondamentale in un genere sbocciato come goffa imitazione e poi assunto a modello dalle successive generazioni che, incredibilmente, si impegnano ancora per imitare l’imitazione.
Giochi fonetici di nomi anglofonizzati, artisti-progetti-Frankenstein nati in provetta talvolta con la voce che non era quella di chi metteva la faccia sulle copertine e quindi costretto a cantare in playback negli spettacoli dal vivo, artwork dai design che potevano essere superlativi (come quelli di Franco Storchi) ma anche imbarazzanti: l’italo disco era questa, qualcosa forse più unico che raro a cui in tanti hanno dedicato la vita intera come l’olandese Marcel van den Belt alias Marcello D’ Azzurro, che in Olanda impianta praticamente una colonia italo disco contribuendo attivamente alla sua diffusione.
Molto ricco il parterre raccolto sotto il nostro tricolore: Fred Ventura, Alexander Robotnick, Albert One, P. Lion, Roberto Turatti, Daniele Baldelli, Anfrando Maiola (Koto), Brian Ice, Marcello Catalano, Franco Rago & Gigi Farina, Vince Lancini degli Scotch, Ken Laszlo, Aldo Martinelli, Simona Zanini, Stefano Brignoli e Beppe Loda a cui si aggiunge anche qualche contemporaneo come Sandro Codazzi e Francesco ‘Francisco’ De Bellis. Alcuni guest fanno poco più di fugaci comparsate e chiaramente mancano dei nomi che sarebbe stato interessante coinvolgere, ma nel complesso tutto torna utile per raccontare un genere che, come afferma Hell negli ultimi frame, non avrà mai fine.
“Italo Disco Legacy” è stato proiettato lo scorso 11 gennaio presso il Berghain di Berlino e nel corso di queste settimane ha raggiunto l’Olanda e il Belgio. Seguirà un tour che toccherà altri Paesi come Spagna, Francia, Svizzera, Danimarca, Finlandia e Polonia. In Italia giungerà in
occasione della prossima edizione del Reverso Festival, a Milano, proprio lì dove lo scorso ottobre è stato presentato in anteprima mondiale un estratto di 25 minuti. Ad implementare il DVD è una doppia compilation che la Private Records dello stacanovista Janis Nowacki pubblica su doppio vinile in cui si alternano brani del passato (“The Years” di Fred Ventura, “Muchacho” di Simona Sierra, “Life With You” di Expansives, “The Man From Colours” di Wanexa) e contemporanei (“Philomena” degli Alba, “Get Closer” di Starcluster And Marc Almond) oltre a diversi inediti di Miss Plug Inn, Flemming Dalum & Steen ed Alexander Robotnick.