Passata la sbornia delle classifiche di fine anno, un paio di pensieri restano in testa.
Uno: da una quindicina d’anni ormai, la ristampa sta diventando un pezzetto per volta qualcosa di sempre più simile al disco nuovo. Per come è percepita da un pubblico che ha avuto quasi improvvisamente tutto a disposizione, e sempre. E per come sempre più va a cercare ai margini fisici e sonori del mercato, alla ricerca di radici poco note del presente, o di suoni che chissà come risultano attuali. Se mai un suono attuale possa oggi esistere, in questo allegro sfasamento dei piani temporali. Due: in “un eterno presente che capire non sai“, come dicevano quelli, trovare dei fili conduttori diventa sempre più difficile, e sempre meno interessante. Chi scrive ha sempre diffidato di articoli dedicati a scene e tendenze, di apparentamenti che si fanno più stretti man mano che la deadline per andare in stampa si avvicina. Ma alcune affinità emergono, abbagliano, e resistono anche allo scrutinio più severo. Come quelle che, tirando le somme di quanto successo nel 2017 appunto nel settore ristampe, ci si sono parate davanti mettendo a fuoco nella stessa inquadratura tre dischi apparentemente lontani. Tre titoli che, in qualche obliqua maniera, vanno a formare la materia miracolosamente omogenea che affronteremo. Tre titoli che hanno scandito – uno all’inizio dell’anno, uno a metà e uno alla fine – i dodici mesi appena conclusi.
C’è un aneddoto che spiega piuttosto bene il senso sfuggente di questo articolo. Lo si trova nelle note di copertina di uno dei tre dischi. Un giorno di circa tre anni fa, il dj londinese John Gómez trova in un negozio della catena benefica Oxfam una copia usata di “Metalmadeira”, primo dei due album pubblicati in carriera da un percussionista brasiliano di nome Marco Bosco. Un evento già abbastanza fortunato di per sé, anche se all’epoca il disco non è ancora nemmeno su Discogs (e non costa quindi quello che costa oggi), reso però straordinario da un ulteriore particolare: dentro la sua copertina così didascalica – un chiodo nel legno, Metal dentro Madeira, e quell’Alma (anima) che nasce dall’incontro dei due materiali nella parte centrale del titolo messo bene in evidenza – c’è un biglietto, una dedica autografata dello stesso autore: “Caro signor Eno, mi piacerebbe farle conoscere il nostro lavoro, lavoriamo con nastri e suoni della Natura“.
Esatto, la copia che Gómez trova è proprio quella che nel 1983, quando Metalmadeira esce, Bosco fa avere nientemeno che a Brian Eno. E che Eno rivende a un negozio Oxfam, o regala a qualcuno che comunque poi la rivende a un negozio Oxfam. Dopo averla ascoltata, oppure no? Uno come il Brian Eno del 1983 dovrebbe per forza aver voglia di ascoltare un disco del genere, con una nota del genere, che gli arriva dal Brasile – altrimenti ci hanno raccontato un sacco di balle. Oppure l’ha ascoltato, e ha deciso di non tenerlo perché non gli è sembrato granché, il che col senno di poi della retromania può sembrarci una mezza truffa analoga, ma in tempo reale forse ci stava pure. Oppure non gli è mai arrivata, quella copia, spedita dal Brasile a chissà quale amico di amici che conosceva un tale che collaborava con un fonico che collaborava con lui, eccetera eccetera. Chissà.
Stupenda la ristampa doppia deluxe del terzo dei Velvet Underground, per carità, ma volete mettere?
Le combinazioni possibili sono tante, tutte intriganti, ma tutte inesorabilmente dirette verso un negozio di roba usata a poco prezzo buttata lì, dove solo i diggers più spericolati osano avventurarsi. Il dimenticatoio con la D maiuscola. Non è questo però il compito più puro che possa assumersi una ristampa discografica oggi? Recuperare materiale perso nei meandri della discografia – perché anche in anni in cui pubblicare la propria musica era molto più difficile e quasi esclusivamente in mano alle etichette, con conseguente inasprimento della selezione, di vittime per strada ne rimanevano eccome – un materiale sostanzialmente nuovo alle orecchie del 99% del pubblico, per ristamparlo tale e quale o per combinarlo con altre cose affini in raccolte a tema assemblate con intuizione e gusto, e applicazione da curatori museali. Stupenda la ristampa doppia deluxe del terzo dei Velvet Underground, per carità, ma volete mettere?
La storia abbastanza straziante di Marco Bosco e del suo messaggio in bottiglia per Brian Eno, però, ci interessa anche e soprattutto per altro. Perché restituisce un senso di spaesamento che par di poter toccare, tanto puro e malinconico da far tenerezza, uno spaesamento che informa in maniera sostanziale i tre dischi di cui sopra. Fino ad influenzarne la musica, incredibilmente affine nonostante la distanza fra i posti in cui è stata prodotta, e le scarse possibilità che gli autori dell’uno avessero sentito gli altri (tranne forse in un caso). Ci sono però sono numerosi tratti in comune. Le origini nella periferia, e meticce. L’essere in un posto ma evocarne altri, che si conoscono per esperienza diretta o grazie all’immaginazione. Il ricontestualizzare folklori non stereotipati, propri o acquisiti, in un contesto urbano e timidamente, embrionalmente globale. Il farlo unendo elettronica più o meno rudimentale e suoni della natura, come diceva Bosco. L’uscirne con musica pervasa appunto da un senso di spaesamento quasi opprimente, ineluttabile. L’aria di essere fuori posto nel proprio tempo e nel proprio luogo, lo slancio sincero verso un futuro incerto, uno sguardo delicato e intimo che stride con l’immagine pubblica del decennio in cui vengono alla luce, passato alla storia come il decennio dei lustrini e della spinta edonista individuale. Musica che potrebbe uscire oggi, come si dice in questi casi. Uno spaesamento molto attuale, questo sì.
A febbraio, per l’olandese Music From Memory, esce “Outro Tempo: Electronic And Contemporary Music From Brazil 1978-1992”. Con ogni probabilità, quanto di meno “brasiliano” si sia mai sentito, eppure musica profondamente legata alla propria terra. Prodotta da artisti che, anzi, nella ricerca etnomusicale e nei viaggi reali e metaforici verso l’Amazzonia (e nel dialogo molto produttivo intrapreso sia con movimenti internazionali progressisti come ambient, elettronica, jazz, fusion e minimalismo, sia in parte con il mainstream MPB locale) sublimavano la loro condizione doppiamente aliena: artisti liberi in una dittatura da un lato, sperimentatori in un paese di grandi tradizioni codificate dall’altro. Sono venti pezzi firmati da nomi per lo più ignoti, o fino ad ora snobbati, come provenienti da una realtà parallela nella quale anche molti appassionati di musica verdeoro faranno fatica a ritrovarsi. Personalmente, per trovare un paio di facce conosciute abbiamo dovuto spulciare fra i credits e inciampare in Piry Reis e, unico davvero noto del lotto, Egberto Gismonti. Il primo ristampato sempre lo scorso anno da Mr. Bongo con il suo album d’esordio del 1970, ma qui preso quattordici anni dopo, e si sente; il secondo presente come strumentista e/o arrangiatore nei pezzi dello stesso Reis e di Nando Carneiro, Bené Fonteles e Marco Bosco (non quello tratto da “Metalmadeira”, ma quello tratto dal successivo “Fragmentos Da Casa”), nonché come responsabile e produttore della Carmo, sottoetichetta del colosso jazz ECM chiamata come il suo paese natale e un suo album del 1977, etichetta per la quale in quel periodo escono album di Reis, Bosco, Carneiro, Fernando Falçao e Carioca.
Punti cardinali possibili? La chitarra acustica solista di Carioca in “Branca”, il pop/funk adulto con sax dei Mulheres Negras in “Mãoscolorida”, l’ambient denso di vita di Priscilla Ermel nei 16 minuti di “Corpo do Vento”, la giungla poliritmica di Fernando Falçao in “Amanhecer Tabajara (À Alceu Valença)”. E un inno assoluto come “Cântico Brasileiro No. 3 (Kamaiurá)” di Maria Rita: già pronto per le borse dei dj più avventurosi, ma nel dubbio disponibile anche nel remix firmato da Selvagem e Carrot Green per Optimo, che ha da poco ristampato l’intero album (“Brasileira”, 1988). Fondamentale è il lavoro di Gómez, che raccoglie con fiuto e metodi quasi da investigatore privato materiale sparso in album usciti quasi esclusivamente per etichette piccole o piccolissime, che spesso non ha lasciato traccia. Nelle sue mani, la serie di cani sciolti in scaletta diventa come una cosa sola, tanta è la coesione che mostra nel combinare gli elementi citati, e nel catapultare l’ascoltatore in un’atmosfera strana, malinconica e utopica, rivolta tanto verso l’interno quanto verso l’esterno. E incredibilmente impermeabile, si direbbe, a quanto succede nel mondo reale: esattamente a metà del periodo trattato infatti, nel 1985, il Brasile esce de più di vent’anni di dittatura militare, ma i brani precedenti e quelli successivi sono di fatto indistinguibili. Se euforia c’è, è ben nascosta. Eravamo già scappati altrove, sembrano dire i protagonisti, e ora ci restiamo. Ci siamo trovati bene, dopotutto.
Ma procediamo. Ad agosto, pubblicata dalla danese Music For Dreams (simili pure i nomi delle etichette, l’avete notato?) e compilata da Jan Schulte alias Wolf Müller o Bufiman, esce “Tropical Drums Of Deutschland”. Detta così fa ridere, è vero, e la scelta di mettere in copertina la foto di una serra piena di rigogliose piante tropicali non aiuta a ricomporsi. Figuriamoci noi italiani poi, che del crucco sceso a Lignano Sabbiadoro in sandali e calzini per ordinare pizza all’ananas abbiamo fatto una macchietta eterna. Ma quello che viene fuori dalla raccolta è tutt’altro che la pacchianata da villaggio turistico che ci si potrebbe attendere. L’arco temporale è più ristretto – dal 1982 al 1990 – ma comunque contemporaneo a quello di “Outro Tempo”, e le vibrazioni sono le medesime: ambientazioni lussureggianti di arpeggi e tappeti percussivi, suoni della natura e lingue esotiche, rari sconfinamenti nel ballabile (ma una cosa come Akili Mali di Ralf Nowy compensa da sola, e avrebbe meritato anche lei un edit di Schulte insieme alle tracce di Om Buschman e TCP). In più, la grande lezione di libertà del connazionale kraut rock e lo sguardo alle avanguardie come bagaglio.
“Introspezione più che exploitation“, dice l’etichetta, sottolineando sia il carattere poco appariscente di questa musica, sia l’umiltà un po’ dimessa con cui i musicisti affrontano il compito vagamente escapista che hanno scelto. Ovvero, realizzare musica ispirata da posti dove non sono mai stati, ricreare appunto in serra a migliaia di miglia di distanza un suono idealizzato, che finisce per essere assai poco “tropicale”. E lontano almeno altrettante miglia dalla world music di quel periodo, ai suoi primi passi nel mainstream del Primo Mondo. Persino quando si tratta di cover di canzoni tradizionali, come nel caso degli austriaci Sanza e della loro splendida “Sounouh”. Anche qui come sopra: dischi cari e musicisti semisconosciuti, e gran lavoro del curatore nell’individuare correnti sotterranee e portarle alla luce.
A ottobre inoltrato, infine, la belga Crammed ristampa uno dei dischi più affascinanti del suo lungo e sempre avventuroso catalogo, a 14 anni dall’ultima volta e a 34 dall’uscita originale. L’unico lavoro che gli altri protagonisti di questa storia potrebbero realisticamente aver ascoltato, come si ipotizzava qualche riga fa: “Noir Et Blanc” di Zazou/Bikaye/CY1. Che sono, nell’ordine: Hector Zazou, all’anagrafe Pierre Job, produttore e compositore francese attivo fra elettronica, avanguardia e suggestioni folk di varia provenienza; Bony Bikaye, cantante e polistrumentista congolese che ha collaborato con vari grandi delle sue parti, da Ray Lema a Papa Wemba, ed è a Bruxelles per produrre un album degli altri connazionali Zaiko Langa Langa; Guillaume Loizillon e Claude Micheli, da qui in poi noti come CY1 e prima ancora membri del collettivo elettronico Dièse 440, due sciabolati parigini che trafficano con sintetizzatori e trabiccoli analogici già vecchi allora.
La collaborazione è un’idea di Zazou, deus ex machina che prima immagina e poi rende concreto l’incontro fra i tre, e che nelle note di copertina verrà accreditato dopo un insolito “directed by“, ed è uno dei primissimi esempi di commistione etnica/elettronica. Un lavoro nato e cresciuto un po’ per caso, come spesso capita per i dischi migliori: Loizillon e Micheli collegano cavetti e pigiano interruttori, e stendono sequenze visionarie e irregolari sulle quali Bikaye canta come se fosse ancora a Kinshasa, in Lingala, Swahili, Kilongo e francese pidgin. Si odono echi di post-punk, electro-funk, elettronica sperimentale. Non sanno bene cosa stanno facendo, ma sono sicuri che qualcosa di buono verrà fuori. Poi vanno in studio a registrare e rifanno tutto da capo, perché le macchine dei due sono da riprogrammare ogni volta, e impossibili da sincronizzare. Partecipano anche Fred Frith (chitarra e violino) e un bel po’ del giro degli Aksak Maboul: da Marc Hollander (clarinetti) a Véronique Vincent (voce), fino a Vincent Kenis, già ispirato nelle sue linee di chitarra da quegli stessi Konono N°1 che riuscirà a registrare e lanciare a livello mondiale solo vent’anni più tardi.
Lo si ripete forse troppo spesso, e spesso a sproposito, ma “Noir Et Blanc” – rimasterizzato dai nastri originali, con booklet di lusso ricco di foto e testimonianze, e integrato da ben otto bonus digitali: cinque demo precedenti (e diversissimi dal prodotto finale, per i motivi di cui sopra) e tre remix firmati nel 1984 da Hollander, Kenis e Simon Boswell – è roba che suona ancora oggi completamente unica. Tanto unica da splendere ancora più luminosa oggi, dopo tre decenni abbondanti in cui nessuno o quasi ha osato avvicinarsi, per rubare anche solo un dettaglio, o un’impressione. Roba che si nutre di contrasti in maniera molto più sfumata e produttiva di quanto il suo titolo troppo banale non faccia intendere, e che trasporta anch’esso in un luogo solo parzialmente familiare. Un luogo del quale riconosciamo i tratti fondanti, ma nel quale non riusciamo a sentirci del tutto a casa, a nostro agio. Spaesati, appunto.