Sabato 24 febbraio il Circolo degli Illuminati presterà i propri spazi al Synth Day & Night: un’intera giornata dedicata al mondo dei sintetizzatori concepita e realizzata da Midiwere in collaborazione proprio con il Circolo degli Illuminati e Lrs Factory di Roma con l’intento di soddisfare la voglia di “sintesi analogica” dei vari curiosi e appassionati del genere grazie a workshop diurni ed esibizioni notturne.
Il tutto inizierà nel pomeriggio con il seminario a cura del “guru” Enrico Cosimi: i partecipanti potranno prima carpire segreti e nozioni da uno dei maggiori esponenti nazionali del settore e poi metterli in pratica “smanettando” e creando suoni grazie alla presenza dei vari Novation Peak, Moog Subsequent 37 CV, Arturia MatrixBrute e DrumBrute. Se anche voi la ritenete un’opportunità da non perdere seguite il nostro consiglio: registratevi qui, è l’unico modo per accedere al workshop gratuito! Al termine del seminario avrete il tempo di rifocillarvi e fare un salto tra i vinili della zona market mentre i ragazzi di MidiWare allestiranno Minimoog Model D, Moog Sub37, il synth Novation Peak e l’innovativo controller Expressive Touché per garantire le performance live di Tau Ceti (aka Enrico Cosimi), Xavier, N:CK, Paraphonic e Sinnermann. A queste si affiancheranno, in una sala adiacente del Circolo, i dj set di Demi James e Denis Sulta chiacchieratissimo talento scozzese che, ormai da qualche anno, è in continua ascesa; qui la sua Boiler Room, uno dei nostri mixes preferiti del 2017.
Che dire, Synth Day & Night ha tutte le carte in regola per essere una giornata da non perdere, per nessun motivo, noi di Soundwall abbiamo approfittato di questa occasione per incontrare Enrico Cosimi ed approfondire con lui alcuni aspetti senza troppe formalità. La battaglia infinita analogico vs digitale, i ghost producer e perché trasportare i synth in aereo sia necessario seppur pericoloso, senza tralasciare qualche consiglio su cosa ascoltare per arrivare preparati al suo workshop. A seguire l’intervista mentre qui trovate tutte le info del caso.
Quanto sarebbe scontato chiedere oggi a Enrico Cosimi se preferisce soluzioni analogiche o digitali? Troppo! Non posso non iniziare, però, con una domanda simile: ok il fascino analogico, ok la liberalizzazione del digitale che ha dato modo a chiunque di approcciarsi alla musica elettronica ma, ad oggi, quale delle due strade paga di più? I produttori sono costretti ad un approccio totalmente digitale, utile ad assuefare la morbosità di nuova musica che hanno media, addetti ai lavori e pubblico?
Detto in maniera molto semplice, certe cose vengono meglio e ancora suonano meglio con l’analogico ma è un modo di lavorare costoso e non privo di “pericoli” e certe altre sono più facili da realizzare in digitale. Anche se qualcuno continua a registrare sul multi traccia analogico, pagando diverse centinaia di euro per un quarto d’ora di supporto magnetico, è innegabile che registrare audio convertito in numeri su un qualsiasi HD sia più pratico, veloce ed economico. Senza contare le comodità delle modifiche anche microscopiche che si possono applicare al segnale una volta che questo compare dentro un editor audio. Insomma, da una parte c’è maggior fascino e in diversi casi innegabili maggior qualità timbrica; dall’altra c’è tutta la serie delle comodità cui ci ha abituato la cultura digitale. Forse, la strada giusta è quella indicata da uno storico duo elettronico dei nostri tempi, che ama usare materiali vecchi in modo nuovo e strumenti nuovi in maniera vecchia.
Spesso ci imbattiamo in artisti che si lamentano con compagnie aeree per problematiche generiche, quasi mai per la scarsa/assente attenzione che hanno avuto nei confronti delle loro strumentazioni di cui tutti conosciamo i costi. Nel caso dei synth quello che spinge i musicisti a volerli sul palco, consapevoli del rischio trasporti, è pura comodità, ricerca della qualità o feticismo? Controllo e ripetibilità del digitale non bastano nei live?
Spostarsi con una compagnia aerea low cost per andare a suonare, con budget spesso ridicoli, richiede un’attenzione spasmodica nei confronti di pesi e dimensioni, di sicuro le compagnie aeree hanno tutto l’interesse a imporre condizioni vessatorie a chi debba movimentare apparecchi di dimensioni anche non necessariamente significative.
Però, occorre fare una differenza tra interfaccia utente (la superficie sulla quale lavori) e strutture di generazione sonora: esistono strumenti elettronici (e, prima ancora, elettrofonici) la cui superficie di controllo diventa parte integrante della performance, perché influenza il tipo di lavoro che può essere fatto sul suono e quindi porta più facilmente al raggiungimento di determinati risultati sonori e performativi. In quel caso, mi viene in mente il Minimoog Model D (ma potrebbe essere anche la dislocazione dei controlli Percussion nell’organo Hammond), quella forma e quelle dimensioni sono indispensabili per avere un controllo a piene mani sulla generazione sonora (se ci pensi, lavorare con un mouse, o con una trackpad equivale ad avere una mano legata dietro la schiena per lavorare con il solo dito indice dell’altra mano). Purtroppo, certi controller MIDI o USB che possono supplire all’hardware originale implicano ancora una volta pesi e dimensioni penalizzanti, e questo ci riporta all’inizio del problema. Da un certo punto di vista, l’approccio “fisico” con il proprio strumento diventa difficilmente sostituibile con un’esperienza alternativa. Abbiamo vissuto la lunga stagione della laptop music (non necessariamente in ambiente accademico), ma sulla lunga distanza, passata la sbornia tecnologica fine a se stessa, ci si è resi conto he vedere un musicista seduto davanti a un laptop da 15” non è il massimo della comunicazione e del coinvolgimento.
Il feticismo da hardware-di-prestigio-sul-palco è un’arma a doppio taglio: certe volte viene da chiedersi che un determinato tipo di pubblico vada al concerto per ascoltare quello che si suona o per ammirare il Buchla Modular, piuttosto che l’Hammond B3 o l’EMS Synthi AKS. E’ un approccio da sfilata delle auto storiche che, tutto sommato, lascia il tempo che trova o, perlomeno, che va in collisione con una constatazione abbastanza banale: sono sicuramente apparecchi prestigiosi, ma sono solo il mezzo con il quale ottengo un determinato risultato. O dobbiamo pensare che il mezzo sia più importante del fine?
Ti troviamo coinvolto come docente, esperto o relatore in vari corsi, da quelli universitari ai workshop di presentazione dei nuovi prodotti, fino ai master in Ingegneria del suono. Dopo una vita spesa ad insegnare come fare musica con un approccio tecnico, accademico senza accantonare il lato artistico come ti poni nei confronti di chi è o di chi abusa dei ghost producer? Etica vs business?
Il fenomeno ghost acting è sempre esistito e, da sempre, l’utenza consapevole è in grado di distinguere tra chi si atteggia a rockstar sciamanica mentre il playback fluisce ininterrotto e chi se la rischia con diversi livelli di imponderabilità, magari in assenza di qualsiasi forma di “rete di salvataggio”. Detto questo, il solo approccio accademico non comprende tutte le esperienze che solo la gavetta live può darti, e simmetricamente la sola esperienza “on the road” non basta per affrontare con completezza tutti i problemi della performance. Tra l’altro, alcuni contesti di performance nel medium televisivo – playback a parte – per la cronica mancanza di tempo, di approfondimento e di preparazione preventiva non possono che essere affrontati in maniera disinvolta al limite della legalità. Da questo punto di vista un grande classico rimangono le dirette televisive di eventi che comprendono numerosi cambi palco: i tecnici impazziscono per far funzionare tutto alla perfezione, ma prima o poi qualche artista che finisce per prendere accordi su tastiere monofoniche, magari neppure collegate, si trova sempre. E’ la televisione, baby, e tu non puoi farci niente…
Poi, c’è sempre una categoria di personaggi che – inspiegabilmente – provenendo dagli ambienti più disparati, ti trovi in consolle a maneggiare Technics 1200 quando va bene o CD quando va così così o Traktor quando va ancora meno di lusso… Quando vedi annoiate ereditiere, o rampanti milionari per insufficienza di prove, che tentano la strada del djing militante, qualche dubbio ti viene.
L’imprevedibile percorso evolutivo della musica elettronica vede oggi spazi enormi colmi di pubblico accorso ad osannare artisti che, fino a qualche anno fa sognavano di riempire venue ben più piccole. Tau Ceti si sta preparando ad un eventuale main stage? Scherzi a parte, hai da poco rispolverato questo tuo progetto che ti accompagna ormai da anni e che i partecipanti al Synth Day & Night avranno modo di conoscere meglio grazie ad un tuo live in programma. Ti appaga esibirti dal vivo? Hai mai pensato o provato ad aggiungere una drum machine e costruire un live da club?
Oggi, la “musica elettronica” è un contenitore che accoglie fenomeni ad altissimo tasso di differenziazione; puoi avere i diecimila paganti che ballano sul liveset di Jeff Mills che suona la TR-909 Roland in modo impensabile per gli stessi ingegneri Roland, o Tau Ceti che sonorizza “l’Angelo Sterminatore” di Bünuel per poche decine di amici… Con tutte le variazioni e le differenze quantitative intermedie, sono esperienze diverse, ma tutte e due afferenti al panorama elettronico. E’ il bello del nuovo mondo elettronico, dove hai anarchia, libertà, rigore, accademia, sperimentazione, provocazione, conferma, negazione, tutto insieme, tutto alla portata di tutti.
Tau Ceti è un vecchio progetto nato alla fine degli anni ’80 insieme a Gianluigi Gasparetti, in arte Oöphoi, un caro amico che oggi non c’è più. Insieme, siamo stati letteralmente i primi italiani a sperimentare la drone music e la forma di performance “allargata” che poi si è chiamata sleeping concert. Con questo genere musicale, in totale assenza di ritmo e di organizzazione verticale del suono, è difficile ipotizzare una esibizione adatta alla main stage area… Ciò non toglie che, in vite precedenti come ex hammondista metallaro e ex bassista punk non mi crea problemi suonare allineato in ottavi sulla cassa a volumi tali da suscitare l’odio dei compagni di gruppo e la perplessità del fonico front of house.
Lo scorso anno, allo Städlin di Roma, mi sono divertito a fare un liveset tecno con cassona dritta, basso a stecca, 303 a manetta e tutto l’armamentario “di genere”, è stato diverso dal solito e, mi sembra, nessuno si sia fatto male.
Prima o poi, invece (ma richiede una logistica non indifferente) coronerò un vecchio progetto tangerine/schulziano, recuperando gli step sequencer analogici per un liveset più “cosmico tedesco”; ma ci vuole tanta pazienza per organizzare cose apparentemente banali come gli spostamenti delle pareti di sint modulari, il soundcheck e il problem shooting e tutto il resto delle macumbe indispensabili.
Prendo spunto da una nostra rubrica di cui siamo molto fieri, Cinque Talenti, per chiederti di presentarci cinque nomi di musicisti o semplicemente di produttori che secondo Enrico Cosimi meritano un ascolto. Nuovi talenti, vecchie glorie, connazionali e non: a te la scelta.
Gulp! Come tutti i disorganizzati cronici ho veramente poco tempo per ascoltare musica… Nonostante tutto, andando a memoria, saccheggerei a piene mani nel repertorio storico di Richard Lainhart e Steve Roach per quello che riguarda i suoni microscopici e le dinamiche drone music. Poi, inevitabilmente come riflesso condizionato tastieristico, non potrei fare a meno di “Tarkus” di Keith Emerson (meglio la versione del triplo live del 1974, più adrenalinica). Ho amato alla follia il linguaggio claustrofobico dei Cranioclast e considero “Dogs Blood Rising” uno dei più begli album dei Current 93. Può andare?