Quella di Rocco Civitelli, aka Rocoe, è una storia molto interessante. Una prima vita musicale, da adolescente, all’interno della scena hip hop (d’altro canto, se tuo fratello maggiore è Fritz Da Cat, è quasi inevitabile); una passione vera per l’eclettismo e per disco e funk che lo portano ad uscire dai dogmi del rap dei primi anni 2000; un incontro con altri soci dai background diversi (Mace, oggi producer tra hip hop e trap di grande successo; Alex Trecarichi, uno dei migliori ingegneri del suono italiani in campo pop; Zizzed, genio e sregolatezza tra rap e vari strumenti) che dà vista a Reset!, una storia che ad un certo punto era fatta di eventi da due, tremila persone – tutti praticamente autoprodotti dagli artisti e con un ricorso minimissimi ai guest, un caso più unico che raro. Poi le cose hanno preso una piega particolare. Non semplice. Rocco è uscito da Reset!, si è dedicato a quella che sembrava una creatura collaterale senza troppe speranze, Body Heat; a sorpresa, questa creatura-senza-speranze, dal format stranissimo, è diventata una delle vere sensazioni di Milano, la città in questo momento guida del clubbing in Italia. Molte cose da raccontare, insomma. E Rocco non si tira certo indietro.
Beh, partirei proprio da questa faccenda della serata targata Body Heat: una delle vere, grandi novità di Milano nell’ultimo paio d’anni. Una serata di culto assoluto. E che crea file di decine di metri all’ingresso, come da tempo non si vedevano. Ti aspettavi funzionasse così bene?
Sinceramente: no. L’aspettativa era bassa. Credimi. E te lo dimostro: in realtà è una serata che esisteva già, Body Heat, prima di arrivare all’attuale formato. Esisteva già, ed aveva dei risultati abbastanza scarsi, almeno a livello di numeri. Feci due serate targate Body Heat al Beat 75, nelle sale di uno studio di registrazione nella parte sud di Milano, zona Ripamonti; una al Phat, il locale che tentò con scarso successo di prendere il posto del Rocket nella sua vecchia sede; due infine in un posto chiamato Sottoscala, praticamente sotto un ristorante, nella zona della circonvallazione. Erano stati appuntamenti anche carini, curiosi, con un loro perché; ma onestamente non riuscirono a diventare delle vere e proprie feste. Sai quando è stata la svolta? Quando ho lasciato Reset! definitivamente. Come facile immaginare, una decisione per me abbastanza importante, presa tra l’altro in un periodo in cui, non solo e non tanto come carriera musicale ma proprio dal punto di vista personale, ero giù di corda. Sai, no, quei periodi lì, in cui non stai nemmeno davvero male ma non stai bene, passi un sacco di tempo a guardare il soffitto…
…ti senti vuoto.
Ti senti vuoto, sì. Da un lato quindi c’erano problemi dal lato professionale, dall’altro ce n’erano pure dal lato personale: bella accoppiata. Le due cose si sono sovrapposte nello stesso periodo. In quel momento, lasciare Reset! è stata una scelta precisa, una specie di forzatura voluta per provare a darmi una scossa, trovare nuovi stimoli. Sei lì e pensi: “Ho 32 anni. Ma ora che diavolo devo fare della mia vita?” – già, ero arrivato a questo punto qui. Tant’è che avevo quasi deciso di provare a trovare un lavoro “normale”, tipo in un’agenzia di comunicazione, un posto dove far fruttare le skill acquisite sul campo in questi anni. Ho avuto però uno scatto d’orgoglio. Mi sono detto “Vaffanculo, ho ancora sufficiente autonomia ecomomica per provare invece a portare avanti qualcosa che mi piace veramente, non posso arrendermi così”. Ed è in questa maniera che mi sono finalmente dedicato in maniera seria a Body Heat.
Che peraltro c’era già prima. Mi ricordo che mi regalasti una maglietta di Body Heat da girare a Flying Lotus, una volta che venne in Italia, e Reset! era ancora in piena attività…
C’era, ma non la prendevo come una cosa da affrontare in modo professionale.
Era un divertissement.
Esatto. Era una specie di complemento di Reset!.
Una specie di “libera uscita”, diciamo. Un posto dove andare ogni tanto a rifugiarsi, ma l’attenzione vera, ecco, quella seria, andava a Reset!.
Sì, una “libera uscita”, a cui però tenevo tantissimo, proprio per una questione di “continuità artistica” – era comunque qualcosa che nasceva da me e che portavo avanti io, no? Ma tornando a noi, a quello che stavo raccontando: momento di stasi, decido di uscirne provando a dedicarmi a Body Heat di più e meglio, mi do qualche mese per vedere se succede qualcosa di concreto. Vuole il caso che proprio in quel momento si è aperta improvvisamente la possibilità di entrare con la mia serata al KTV, il locale per karaoke gestito da cinesi in Via Paolo Sarpi, a Milano, in piena Chinatown.
La sede fissa delle serate Body Heat.
Al KTV avevo già provato ad entrarci, ero arrivato un po’ di volte assieme a Dario, amico e compagno d’avventure in Body Heat nonché grandissimo bassista, ma in ogni occasione venivo respinto in modo più o meno amichevole, nel senso che mi facevano delle proposte economiche indecenti che, insomma, erano un modo carino per dirmi che era meglio se me ne andavo e lasciavo stare. All’improvviso però le porte si sono aperte, e proprio in un momento come ti spiegavo particolare, “giusto”: quando cioè decidevo di dedicarmi interamente a Body Heat, quando decidevo che volevo per forza stare come serata o in zona Isola o in zona Sarpi, perché gli altri tentativi erano stati penalizzati anche dal fatto di trovarsi in zone non immediate da raggiungere e con poca tradizione di vita notturna, e di andare invece ai Navigli non ne avevo la minima voglia – ci passa tanta gente, ma non quella che mi piace a me, ed è gente che comunque passa davanti ai posti per forza d’inerzia, non perché se li “viene a cercare”. Quindi ecco, zona Sarpi, perfetto, e il KTV era il primo indiziato: mi è sempre piaciuto da morire come posto, strano com’era, con le sue varie sale sotterranee dove fare karaoke. Improvvisamente proprio in quelle settimane la proprietaria ha dimostrato un’inaspettata apertura e abbiamo trovato un accordo. Quindi ecco, se torniamo alla domanda iniziale: è stato previsto e pianificato il successo avuto dalle serate Body Heat? Assolutamente no! Si è allineato tutto alla perfezione quasi per caso. Però ci tengo a dire che anche nelle feste precedenti, quelle pre-KTV, avevo colto dei segnali che mi avevano spinto a non mollare: ok, magari c’era poca gente, ma quella che veniva poi dava l’aria divertirsi, di stare bene, di capire quale era l’idea che volevo portare avanti. Sai, quando hai periodi in cui sei giù e vedi tutto un po’ grigio, sei in mezzo a spinte contrastanti: hai degli sprazzi in cui ti sembra di avere delle intuizioni da seguire, ma poi senti gli altri e ti smonti subito. Su-bi-to. Ti dimentichi però che gli altri, anche in buonafede, non possono sapere esattamente cosa hai intesta, qual è la scintilla che ti si agita davanti, non riescono a “percepirla”, fisiologicamente non sono sincronizzato al 100% con te. Quindi io gli parlavo di Body Heat, di come portarlo avanti, e magari mi dicevano “Ma no, lascia stare, bello eh, ma non ha grande futuro, guarda finora com’è andata”; e sì, ok, magari c’erano solo venti persone, però quelle venti davano l’idea di divertirsi davvero tanto, mi sono attaccato a questa convinzione, che era reale. E allora forse bastava riuscire a convincerne altre venti, che poi ne avrebbero fatte arrivare altre venti, che a loro volta ne avrebbero fatte portare altre venti ancora. E’ andata a finire esattamente così! Oggi abbiamo una fila di centinaia di persone all’ingresso ogni volta che apriamo. Soprattutto, non è solo e non è tanto questione di numeri: quello che a me fa veramente piacere è che siamo riusciti a portare alle nostre serate non le “solite” persone, quelle che vedi abitualmente in giro nei club, ma anche medici, avvocati, non necessariamente insomma gli habitué del weekend – e li abbiamo portati in un labirintico karaoke bar cinese ad ascoltare una musica che non è quella che ascoltano di solito, non è pop, non è house, non è techno, è tante cose assieme. Del resto, fin dall’inizio ho voluto coinvolgere persone legate molto al mondo del funk e del soul – penso a Calamity Jade, a Matteo Palmonari di Funk In Milano, ad Alex De Ponti di Vinyl Brokers, ai Mokambo Brothers – che magari prese singolarmente avevano un piccolo seguito, poco per essere “scena”, ma unendo le forze veniva fuori qualcosa di bello per tutti.
Non mi sorprende che tu abbia attirato gente “normale”, anche perché la musica che proponete – diciamo in modo approssimativo un incrocio tra funk, soul e house – è molto “immediata”, molto facile da fruire, anche se non hai messo piede in un club vero e proprio, tra l’altro perché di regola le serate Body Heat non è solo deejaying ma non mancano mai gli interventi in console di strumentisti e cantanti, quindi anche “scenograficamente” è qualcosa che colpisce l’attenzione anche di chi non mastica troppo certi alfabeti consolidati del dancefloor.
Sì, va bene anche per chi non per forza rientra in un’etichetta, non per forza appartiene ad una cultura o controcultura codificata.
Insomma, anche a gente poco sofisticata, almeno in fatto di gusti ed abitudini musicali, esatto?
Già.
Devo dire però che via via, serata dopo serata, anche persone che trovi abitualmente in giro nei club migliori della città, Dude o altri, hanno iniziato a non volersi perdere gli appuntamenti bisettimanali al KTV. Insomma, hai iniziato a diventare un qualcosa di “bello” anche per un pubblico sofisticato ed esigente in fatto di clubbing. Ti sorprende questa cosa?
Sì e no. In parte era uno degli obiettivi. Ma solo in parte. Quello che secondo me, col senno di poi, abbiamo sbagliato in Reset! è stato il dare troppa enfasi al nostro lato cazzone, “divertente”, evitando di comunicare il nostro lato più serio, professionale e competente; poi chiaro, chi ci conosceva di persona sapeva che dietro a Reset! c’erano background musicali anche di un certo tipo, oltre ad una notevole preparazione tecnica in fatto di dance, però poi quello che facevamo girare erano video delle serate con tette e culi dappertutto e… come puoi pretendere che ti prendano veramente sul serio? Quando tu sei il primo che ti comunichi in un certo modo, con questa idea onnipresente di “festa”? Come pensi che tu possa guadagnare davvero la considerazione di chi prende le cose in un certo modo, con un minimo di serietà e consapevolezza? Con Body Heat non voglio più rifare questo errore. Body Heat è una festa, assolutamente, ma ora ci teniamo anche a raccontare tutto il lavoro che ci sta dietro, le session in studio di registrazione, la preparazione per le singole serate. Soprattutto, ci teniamo a far capire che in Body Heat la musica è davvero un elemento fondamentale, non solo il background per euforia e, appunto, tette e culi. Tra l’altro le primissime serate di Body Heat erano un ricettacolo di nerd: gente che non veniva per ballare, veniva per ascoltare la musica che veniva suonata e discuterne.
E la musica che veniva suonata era per lo più funk, disco e dintorni. Ora è diventata una cosa mostruosamente di moda suonarla, ora che a farlo ci sono i Floating Points e Motor City Drum Ensemble di turno, fino a tre, quattro anni fa – periodo delle prime serate Body Heat – era una cosa da vecchi sfigati incapaci di stare al passo coi tempi.
Boh, sì, può essere. Tanto le cose vanno sempre a cicli, no? Sempre. Però devo dire che con Body Heat abbiamo imparato a suonare un po’ di tutto, soprattutto a livello di approccio: uniamo la parte più di “pancia”, quella con la cassa in quattro, a quella più da “appassionato”, con caposaldi soul e funk; e in tutto questo c’è sia l’approccio da serata-con-dj, dove si balla, che quella della serata con musicisti che suonano live, con quindi un’attenzione “da concerto” e non “da ballo”. Questa diversità vale per il pubblico, ma vale prima di tutto fra noi stessi: all’interno della famiglia Body Heat ci sono persone più abituate al linguaggio dei club ma ci sono anche strumentisti abituati a stare per lo più in studio, che ancora oggi un po’ si straniscono a suonare davanti a persone, figurati in una situazione assurda come quella del KTV, una bolgia dove si è tutti stipati e dove non c’è un vero e proprio palco, c’è solo una zona console ricavata da un angolo bar. Tornando comunque al pubblico, da noi c’è veramente di tutto. Anche perché, appunto, parliamo un po’ a tutti.
Ecco, ma a furia di voler “parlare a tutti” non c’è il rischio di diluire un po’ il messaggio ed offrire, come dire?, una versione “facile” delle cose?
“Parlare a tutti” non significa “Voler piacere a tutti”: sono due cose diverse. Noi essenzialmente siamo degli sfigati: ci rifacciamo una realtà musica che non rappresenta una vera e propria scena né a livello locale né a livello globale. Prendiamo magari elementi da scene diverse, un po’ di qua un po’ di là, ma la serata Body Heat non riesci a catalogarla. E io lo so, so benissimo che ho poco appeal nei confronti di chi segue in modo rigoroso la scena dei club… di chi segue la house, chi segue la techno.
(continua sotto)
Ti dà fastidio? Ti senti un po’ ingiustamente snobbato?
Un po’ sì. Ma poi ci pensi bene e dici: meglio! Meglio così! Significa che siamo diversi. Che siamo particolari. E’ la conferma che è davvero difficile incasellarci. Che abbiamo dato vita a qualcosa che non è già codificato, che non rientra in una scena già esistente – cosa sia chiaro che ha i suoi pregi così come i suoi difetti, però dai, almeno è un segno di identità. Sai che c’è, in fondo? Più cresci, meno te ne frega di essere “riconosciuto” da questo o quel contesto; o almeno, per me funziona così. Ai tempi di Reset! magari c’erano più complessi: un po’ ci stavi male se quelli “seri” non ti consideravano uno serio abbastanza, cercavi di convincerli che in realtà pure tu ci “stavi dentro”, eccetera; ora proprio non mi interessa. Mi interessa “fare”. A Reset! ad un certo punto non riuscivo più a “fare”, non riuscivo più ad esprimermi pienamente. Anche perché ad un certo punto il mio ruolo era più legato ad altri aspetti non musicali di tutto ciò che facevamo, non ero considerato quello “da studio”, le idee musicali di Reset! erano create e sviluppate in primis da altri. Però io nella musica ci sono in mezzo da sempre, non è un contesto “alieno” per me.
Sì, tra l’altro citando questo scollamento funzionale all’interno di Reset! mi permetti di far notare come Reset! sia stata una creatura molto anomala, nel panorama italiano e non solo italiano: nati come collettivo di dj/producer, ad un certo punto avete proprio preso in mano al 100% la produzione dei vostri eventi, dall’a alla z, occupandovi di tutto, dalle scenografie alla sicurezza. Non è che andaste in giro a suonare, o vi chiamassero regolarmente in questo o quel posto: no, creavate da zero una serata. Nei momenti d’oro, per duemila, tremila persone. Occupandovi voi di tutto.
E’ una formula molto particolare, che mi prendo il merito di aver inventato (…e Body Heat, se ci pensi, su scala diversa è qualcosa di simile, sotto alcuni punti di vista). Agli inizi di Reset!, gli inizi-inizi, da un lato c’erano le piccole feste che organizzavamo, dall’altro c’erano Mace, Alex 3carichi e Zizzed che stavano in studio a creare cose. Io ho detto “Uniamo le forze”, ma non solo, “Facciamo tutto quanto noi, curiamo tutta la produzione di un evento”. Il resto è storia. L’errore con Reset! è stato che ad un certo punto questa cosa dell’organizzare “la festa” è diventato troppo centrale, ha in qualche maniera messo in secondo piano il discorso musicale; con Body Heat non voglio fare lo stesso sbaglio. Reset! era una grande festa creata di volta in volta dal nulla, con dei musicisti; Body Heat sono dei musicisti che ogni due settimane si ritrovano a dare una festa in un posto ben preciso.
Cambiano gli obiettivi, in questo modo?
Cambiano. Il mio goal ora è tenere in piedi una realtà che riesca a mantenersi da sola, dando il giusto a chi la tiene in piedi e a chi ci collabora; e non, come ai tempi di Reset!, l’avere il “successo”. Il “successo” per me ora è tenere in piedi questa piccola e bella realtà. Sarebbe bello che Body Heat avesse numeri più alti sul web, sui social, ecco, giusto questo potrei dire: siamo strapieni ad ogni serata, con la coda di gente che resta fuori, ci sono situazioni molto più scariche della nostra che sul web invece sembrano dei giganti. Ma vedi: io, la competenza per far esplodere il progetto Body Heat anche on line non ce l’ho. Oggi, nel 2018, chi è indipendente viene messo spesso e volentieri di fronte al bivio se dedicare più energie alla musica o al marketing (…a meno che tu non abbia un grande finanziatore alle spalle, ma allora non sei indipendente per davvero). La musica oggi ha sempre più elementi di marketing in sé. Un discorso iniziato già nei decenni precedenti, ma che ora sta toccando vette mai raggiunte prima. Col risultato che la musica è piatta ed omologata come forse mai prima, le differenze tra una stella del momento e l’altra le vedi in foto, per come si conciano per i denti d’oro o le treccine, non per cosa suonano. Le regole del gioco oggi sembrano essere diventate queste. Se ne sei fuori, un po’ ci soffri; ma poi ti rendi conto che hai passato i trent’anni e insomma, non è che ora possiamo snaturare la nostra attitudine e le nostre abitudini per stare appresso al gioco dei ventenni d’oggi. “Il mercato sono i giovani, quindi bisogna fare le cose per i giovani nel modo in cui piace ai giovani”: ah sì? E perché? E poi, ne siamo davvero così sicuri? O non è che per caso che i giovani oggi hanno molti meno soldi di prima, e ai concerti e alle serate ci va molto di meno? Insomma, noi abbiamo voluto fare le cose a modo nostro. Facendo quello che ci va, nel modo in cui ci va.
Anche il fatto di uscire prima solo in vinile e cd, snobbando inizialmente le piattaforme di streaming, è stata una scelta “forte”. E’ solo a partire da oggi che vi si trova su Spotify e affini.
E’ una scelta ben precisa. Guardo alle mie economie: ricavo molto di più vendendo 10 cd che facendo 10.000 ascolti in streaming. E questo è già un fattore fondamentale, perché per me un ritorno economico tangibile è comunque qualcosa di cui tenere conto, è un modo per tenere i piedi per terra. Detto questo, ci siamo detti “Dall’on line tanto inutile aspettarsi niente di che, iniziamo intanto a stampare cd e vinili”. Ma soprattutto, aggiungo, volevamo una testimonianza concreta di due anni di lavoro, due anni spesi in studio a fare session di registrazione. Una esperienza importante – e molto bella per tutti noi; una esperienza che volevamo poter “toccare con mano”, ci sembrava rispettoso nei confronti di essa. Oggi ti dicono “Ma no, ma metti il disco in streaming on line, è così che si diffonde, è così che circola”. A me non interessa che la mia musica e quella dei miei compagni d’avventura si diffonda e circoli; no, a me interessa che si diffonda e circoli tra le persone giuste. La differenza c’è, eccome. Poi, fammi dire un’altra cosa.
Vai.
Analizza i testi delle canzoni di dieci, quindici anni fa e confrontali coi testi delle canzoni che vanno per la maggiore adesso. Quelle di dieci, quindici anni fa avevano tutte una propensione verso l’universale, parlavano di argomenti “senza tempo”, sempre validi; quelle di oggi, si concentrano tantissimo sul “fenomeno del giorno”, c’è addirittura gente che costruisce un testo attorno ad una Instagram Story, ci rendiamo conto? C’è questa tensione parossistica verso l’immediato. Ecco: un disco “fisico”, tra le altre cose, ti obbliga ad un modo diverso di ascoltarlo, rispetto al file. Non puoi passare da una canzone all’altra con un clic, più o meno consciamente ascolti l’album in un’altra maniera, ti concentri di più, gli dai più tempo. Vale anche per me, eh, anche io sono vittima di questa “velocità” degli ascolti in digitale. Quindi se esiste un escamotage per costringere le persone ad un ascolto approfondito io, beh, voglio usarlo.
Un album, quello targato Body Heat, attorno al quale hanno anche collaborato un sacco di persone. Forse anche per questo sei così “protettivo”, ci tieni così tanto.
Una marea di persone c’ha collaborato, eccome.
Quante?
E chi lo sa, ho perso il conto ormai. Venti? Trenta?
Quanto tempo c’hai messo ad assemblare tutto il materiale?
Direi tanto. Un paio d’anni, più o meno. L’idea è nata già quando mi ero detto “Dai, vediamo di concentrarci meglio su Body Heat” ed era arrivato l’accordo con KTV, anzi, un attimo prima che arrivasse, e uno dei passi in avanti che mi erano venuti in mente era anche trovarsi in studio per vedere se ne veniva fuori qualcosa. Eravamo tra il 2015 e il 2016. Le prime due session di studio sono subito andate alle grande, ne siamo venuti fuori subito con due pezzi (quelli, nell’album, in cui c’è Tormento come ospite al rap), e quello ha fatto da grande incoraggiamento. “Dai, ci siamo, funziona, proviamo a fare un bel disco di canzoni”. Anche perché, lo ammetto io ero ancora scottato dall’esperienza dell’album di Reset!, un disco che è iniziato con un discorso artistico di un certo tipo e che poi, passo dopo passo, si è trasformato in qualcosa d’altro (e infatti è un album è espressione di questo percorso un po’ complicato). Ecco, ci tenevo a fare finalmente qualcosa che desse una fotografia precisa dei miei interessi musicali, dei miei generi preferiti. Body Heat, del resto, nacque proprio quando Reset! iniziava a discostarsi un po’ troppo dai miei generi di riferimento. Io volevo qualcosa che fosse sì musica da ballo, ma fosse anche suonato, arrangiato, avesse un certo tipo di scrittura dietro, mettesse insieme un’attitudine da club con un’attitudine da live, avesse magari anche testi di un certo tipo. La differenza principale poi in realtà alla fine è stata un’altra….
…ovvero?
Reset! è stato un collettivo di teste dove ognuno lavorava bene nel proprio campo di competenza, da solo, per poi trovarsi e portare ciascuno il suo contributo a creare il risultato finale. Body Heat no. Abbiamo sempre lavorato scambiandoci idee e ruoli e ti assicuro che scoprire che in studio si poteva stare assieme, in tanti, è stata un’illuminazione. Non pensavo fosse possibile. Ero troppo abituato che ognuno lavorasse per conto suo.
Lavorare in gruppo può essere più lungo, complicato e faticoso.
Di sicuro. Ma credimi, ne vale la pena.
Allunga i tempi.
Sì.
Di conseguenza, aumenta i costi, la possibilità di “sprechi” anche.
Assolutamente sì! Ma in Body Heat è tutto così: tutto anti-razionalizzazione, anti-ottimizzazione, anti-carriera, anti-mode, anti-strategia. Poterselo permettere, riuscire in qualche maniera a fare in modo di permetterselo, è un privilegio.
Anche la serata di presentazione dell’album, a Milano, a Santeria Social Club, è stato un inno alla non-razionalizzazione. Un sacco di persone sul palco, un gran lavoro di pre-produzione, di costruzione dello show… con immagino conseguente aumento dei costi.
Infatti non c’ho guadagnato nulla.
Ed era sold out.
Sono andato quasi in pari: credo di averci perso sui 200,300 euro. Ma se ti adegui a questi ragionamenti spiccioli, diventa un cane che si morde la coda: non fai un certo tipo di cose perché sai che sono costose e/o non vanno fra le persone, quindi ci metti un budget misero sopra; se ci metti un budget misero sopra verranno sempre fuori raffazzonate; quindi alla gente continueranno a non piacere. Noi abbiamo la fortuna di avere tanti piccoli eventi targati Body Heat che vanno bene, a partire appunto dalle serate al KTV, e con quelle riusciamo a finanziare progetti più complessi ed ambiziosi, dando il giusto compenso a tutte le persone coinvolte. Se Body Heat fosse solo una perdita di soldi, beh, non sono pazzo, mi fermerei. Sarebbe difficile andare avanti, forse sarebbe anche stupido. Se la cosa è un minimo sostenibile, senza essere un suicidio o un pozzo senza fondo, è giusto andare avanti. Ma da parte mia c’è anche un po’ di – posso chiamarla così? – “coscienza di classe”: io sono un privilegiato, sono cresciuto senza problemi economici. Se non ci provo io a fare le cose senza avere l’ansia di ottimizzare tutto e massimizzare su ogni singola voce i guadagni, chi ci deve provare? Eh? Invece vedo che tantissima gente ha in testa solo i numeri: numeri, numeri, numeri. Magari nemmeno i soldi, no, anche solo le view su YouTube o i play su Spotify. Il risultato? Si fanno le cose non per il piacere di farle ma con l’imperativo di raggiungere più persone possibile, non solo nel pop ma anche nelle nicchie. Lo fanno tutti. Anche quelli che non ne avrebbero bisogno.
Beh, mi pare un discorso che si può legare a meraviglia con la scena attuale del clubbing. Artisti che ormai vengono e fanno dei set col pilota automatico, anche se ormai hanno le spalle talmente larghe – in termini economici e di popolarità – che potrebbero ben permettersi di prendere dei rischi.
Ci sono passato, io, dal jet set del clubbing. Bene: non me ne frega più un cazzo. Ci sono passato, è stato figo. Ok. Però: che palle, oggi. Vedo tutti ossessionati dal successo, tutti, anche quelli che stanno nelle nicchie, anche quelli che dovrebbero stare nel cosiddetto mondo alternativo. Non vogliono magari il successo nel pop, ma vogliono il successo nel “loro”. Bisogna tutti essere integrati in un determinato meccanismo, nel proprio meccanismo di riferimento. Non esiste più il pensiero autonomo. Io non rivendico di essere quello che non sono: come cittadino mi sento responsabile, fortunato, ho avuto la possibilità di avere un’istruzione, i mezzi per poter realizzare delle cose belle e che hanno fatto star bene la gente. Questo mi fa sentire addosso la responsabilità di fare qualcosa che non sia per forza omologato; qualcosa magari pure “da sfigati”, ma che magari proprio per questo ha il merito di non essere qualcosa che fanno tutti, o che vogliono fare tutti. Però davvero io vedo in giro persone che hanno perso il lume della ragione…
Cioè?
Vedo che in nome della popolarità, delle view, le persone rivoltano se stesse come se fossero un calzino: rivoltano se stesse, la propria arte, la propria personalità, fanno tutto questo pur di “esserci”. Poi, visto che la vita è piena di paradossi in questo preciso periodo storico noi, storicamente “sfigati” con le nostre passioni musicali fuori moda e non cool, siamo diventati uno dei fenomeni del momento. Vedi le serate al KTV sempre murate, vedi il sold out per la presentazione del disco. Ma di sicuro l’avventura di Body Heat non è iniziata pensando a questo obiettivo qui. Anzi. Ma attenzione, non vogliamo giocare a fare gli sfigati per forza. E’ una cosa, questa, che non ho mai sopportato. La depressione quando arriva c’è, non è una cosa bella, anche perché entri in un circolo vizioso per cui più ti senti triste e sfigato più la sfiga ti arriva addosso. Bisogna rimboccarsi le maniche. Ripartire, fidarsi delle proprie passioni più autentiche. A posteriori, ho notato poi una cosa molto interessante, anche divertente: quando me ne sono uscito da Reset! mi si sono avvicinate un po’ di persone, che mi hanno seguito molto durante lo sviluppo di Body Heat; quando Body Heat è iniziato a diventare un fenomeno di successo, sono scomparse! Ci sono persone cui, in arte e musica, il successo viene visto praticamente come una colpa. Di più: ci sono addirittura persone che sono orgogliose di non avere successo. Boh. Peggio per loro. Il successo non deve essere mai la tua guida, no; ma non deve diventare – se arriva – nemmeno un nemico da disprezzare.
(foto di Meschina)