Da sempre l’arte abbatte le regole del tempo, perpetua, andando ben al di là dell’effimero delle mode. Se c’è una persona che ha contribuito a rendere seria, profonda e non effimera la techno del nostro bel paese, è Andrea Benedetti, aka Sprawl. In una Roma in piena “rave-generation” diventa membro attivo della scena, producendo musica, portando la cultura da Detroit alla città eterna attraverso “Mondo Techno”, libro che porta la sua firma, e ancora con Tunnel, la fanzine romana. Il suo contribuito alla scena continua con la “Final Frontier” un centro di produzione e distribuzione che era come una boccata d’aria incontaminata dopo ore d’apnea nel mare del conformismo. Tutto quello che Sprawl ha fatto, l’ha fatto molto prima che gran parte di noi – che ora cerchiamo di mantenere viva la scena – potesse rendersi conto di quanto (e come) effettivamente il movimento stesse nascendo: quando non c’era internet e i media italiani snobbavano l’ascesa della controcultura rave a Roma e in generale in tutta Italia; quando non c’erano archetipi a cui attenersi; quando non c’erano dress code, ma solo un gruppo di freaks che credeva fortemente in qualcosa. Leggere questa intervista significa venire in contatto diretto con la storia elettronica del nostro paese, con le radici di una subcultura che ha sostanzialmente contribuito alla propaganda della musica elettronica come un prodotto culturale tangibile. Ma non solo questo: perché Andrea Benedetti è una di quelle personalità da cui non si smette mai di imparare. Le persone che riescono a farti fermare a riflettere, oggi, sono quanto mai indispensabili.
Di solito, quando intervisto qualcuno, parto sempre dalla sua discografia, o comunque da qualcosa che possa identificarlo subito come musicista. Invece con te, Andrea, vorrei provare un approccio diverso; non soltanto perché i più ti conosceranno già per le tue release e per il tuo contributo alla scena techno italiana, ma perché trovo che le altre sfumature della tua personalità ti rendano un’artista trasversale. Dunque, scrivendo “Mondo Techno”, sei diventato il biografo della techno del nostro paese, parlando della scena techno/rave romana, di quella napoletana e non solo. Com’è nata l’idea di “Mondo Techno”? Come hai sviluppato i suoi contenuti e le testimonianze che hai raccolto?
L’idea di fare un libro sulla techno è stata di Alberto Castelli, storico giornalista musicale e scrittore, che avevo conosciuto negli anni ’90 perché era direttore artistico di Radio Centro Suono, un’emittente romana che era famosa per trasmettere solo musica nera in tutte le sue declinazioni. Fu anche grazie a lui che questa radio divenne il punto di riferimento della techno a Roma. Era diventato direttore artistico della collana “Sconcerto” di Stampa Alternativa, la storica casa editrice, e aveva ritenuto giusto dedicare un libro ad una musica che fino a quel momento non aveva avuto nessuno spazio in Italia a livello editoriale. Il fatto che avesse pensato a me fu un grande onore, ma anche una grande responsabilità. Per farlo al meglio ho deciso di sentire tutti i protagonisti della scena per cercare di dare un quadro il più possibile realista di ciò che era accaduto. Il progetto che avevo studiato con Alberto era di raccontare le origini di questo genere a Detroit e vedere come si era sviluppato nel nostro paese, focalizzando il tutto soprattutto sulla parte produttiva e musicale. Se su Roma avevo vissuto in prima persona gran parte delle situazioni fondamentali per la nascita della scena, per Detroit ho fatto una ricerca più approfondita, partendo dalle interviste che avevo già fatto a quasi tutti i principali protagonisti della scena, da Mike Banks a Kevin Saunderson, da Derrick May a Juan Atkins, da James Pennington a Cybotron Rik Davies grazie alla mia collaborazione con Superfly, una rivista magnifica che avevano fondato David Nerattini e Silvia Volpato con l’apporto di Silvana Luciani. Poi ho aggiunto materiale che avevo accumulato negli anni con riviste specializzate come Fare Musica e Rockstar, grazie agli articoli di Paolo Hewitt e Luca De Gennaro oppure riviste inglesi come Muzik, Jockey Slut o MixMag che acquistavo in edicole in centro o infine grazie a freemag e fanzine come Datacide, EAR, Surreal Sound, Debug, Energy Flash o Under One Sky che ricevevo tramite negozi e successivamente tramite la distribuzione di dischi che aprì con Marco Passarani nel 1993. Questo materiale l’ho integrato con ricerche storiche sulla città, dai primi insediamenti della Ford, agli scontri del ’67, dalla Motown ai Funkadelic passando ovviamente per Electryfing Mojo. YouTube è stato fondamentale per quest’ultima parte della ricerca per la grande quantità di documentari sulla Detroit della prima metà del ‘900 presenti. Anche la rete è stata fondamentale con siti come Phinnweb, Drexciya Research Lab, Glabal Darkness, Ovearload Media e tanti altri. In totale la ricerca e la stesura del libro sono durate un anno. Infine ho ricontrollato il tutto con i diretti interessati per cercare di essere il più vicino possibile alla realtà.
In un certo senso, mi piace pensare che se non l’avessi fatto tu, alcuni aneddoti sarebbero andati persi… come hai vissuto l’esperienza della scrittura? Ha poi, in qualche modo influenzato, la tua musica o viceversa?
Adoro scrivere anche se è un processo complesso perché devi sempre mediare fra stile e contenuti. Come quando mixi o suoni. Devi comunicare e dare sostanza a ciò che fai, essere profondo, se possibile, e diretto, cercando di non specchiarti troppo nelle tue capacità, presunte o reali che siano. Devi far trasudare la passione, ma anche essere razionale e strutturato il giusto per dare una senso di scorrevolezza al testo (o a un brano o ad un dj set – per me è lo stesso). In relazione alla seconda parte della tua domanda, in realtà è accaduto il contrario perché ho applicato il mio “método” di stesura dei pezzi allo scrivere. Quando faccio dei pezzi metto al centro la parte più inconscia di me che poi modello con l’esperienza e la tecnica, cercando di essere profondo e diretto come dicevo prima. D’altronde noi siamo un mix di corpo e mente e cioè di pulsioni interne istintive e dei tentativi di ordinarle e gestirle: più riesci a comunicare entrambe le cose, più hai raggiunto lo scopo di offrire un’immagine di te vicina alla tua vera essenza. Io sono una persona allo stesso tempo controllata ed istintiva e la scrittura, come anche il mixare, mi serve come terapia per far convivere al meglio queste due parti di me.
Ci siamo conosciuti scambiandoci alcune parole in merito a “La terza ondata” di Alvin Toffler. Quale credi che sia il valore intrinseco del saggio? E’ stato citato anche da molte personalità della prima prima e seconda ondata electro/techno di Detroit -in primis da Cybotron- come grande fonte d’ispirazione. Cosa pensi a riguardo? E perché secondo te si è rivelato così influente?
Ne “Lo choc del futuro”, forse il libro più famoso di Toffler, l’autore ci avvisava dei cambiamenti del futuro presagendo scenari che poi sono diventati reali. Era un libro di analisi sull’incertezza del cambiamento, mentre “La Terza Ondata” è un libro sulla speranza nel cambiamento. Toffler ha scritto il primo nel 1970 dipingendo in pratica gli anni ’80, mentre il secondo è stato scritto nel 1980 e racchiude tutta la voglia di cambiamento degli anni ’90 e anche della fine degli anni ’80. Anni in cui i computer e la comunicazione istantanea iniziavano ad essere parte del nostro presente annullando soprattutto le distanze. Forse ormai non siamo capaci più di apprezzarlo e forse neanche di capirlo, per quanto siamo immersi in questo mondo interconnesso, ma la cosa più incredibile di internet, delle email, dei video online ed in generale della comunicazione in tempo reale è che ha annullato le distanze fisiche. Dalla metà degli anni ’90 in poi potevi improvvisamente dialogare con il tuo “amico” a Detroit o a Londra, quasi come fosse dove eri tu. Potevi leggere o vedere idee distanti, analizzarle fermandole e riproducendole secondo i tuoi tempi. Ti dava e ci dava quella sensazione di riscatto e alternativa di fronte alla grandiosità opprimente dei media generalisti e, in campo musicale, delle major che gestivano rispettivamente informazione e musica. Si poteva finalmente delineare un mondo più a misura del cambiamento in corso. Ecco perché, chi più superficialmente, chi molto meno, ha preso da Toffler alcune idee fondamentali: dai “techno ribelli” al neo-ambientalismo, dalla critica all’era industriale per come si stava trasformando in sfruttamento dell’individuo, all’idea di “feedback positivo”. Tutti concetti, oltre quelli che non ho citato e che sono mille altri, che davano vita ad un’idea molto forte di umanesimo tecnologico e cioè di un essere umano conscio dei nuovi strumenti a sua disposizione, ma convinto nel mantenere il suo lato umano e sociale. Era ed è un’utopia, che nel libro viene raccontata forse in modo troppo epico ed enfatico, come d’altronde accade a tutte le utopie, ma era naturale in quegli anni. Come accadde poi con la techno, che è diventata la musica, ma soprattutto il termine che meglio esprimeva questo cambiamento a livello musicale.
So che sei un buon lettore. Ci sono dei libri che consiglieresti attinenti o applicabili al mondo della musica elettronica? Non mi riferisco solo a libri storici o di critica, bensì a testi trasversali in grado magari di stuzzicare la mente di chi legge e favorire ragionamenti, sociologici per esempio…
Secondo me “Lo choc del futuro” e “La terza ondata” di Toffler sono libri perfetti in questo senso, anche se praticamente impossibili da trovare oggi in italiano. Un altro libro che adoro è “Il disco. Musica, mercato, tecnologia” di Luca Cerchiari che è una bellissima riflessione sulla musica registrata ed il suo impatto sul mercato, ma anche su come noi ci rapportiamo ad essa rispetto al passato. Ne è uscita un’edizione aggiornata nel 2014 per la casa editrice Odoya che consiglio a tutti (l’originale era su Sansoni ed era del 2001). Poi il libro di Claudia Attimonelli su Meltemi “Techno: ritmi afrofuturisti” che affronta il tema dell’afrofuturismo nella techno e ne dà comunque un taglio meno legato all’aneddotistica e più all’analisi sociologica. Poi sto leggendo la solita quantità industriale di fumetti e fantascienza, come faccio da sempre. Molto di quello che viviamo oggi è stato anticipato da autori come Grant Morrison, Alan Moore o Philip Dick. Diciamo che mi hanno educato sia alla speranza nel futuro che alla delusione del presente. Un altro libro molto bello che ho letto nei mesi scorsi è “Amore senza bugie” di Fulvia Cigala Fulgosi e Dorina Di Sabatino per la casa editrice L’Asino d’Oro che esplora in maniera semplice e profonda sessualità, sentimenti, emozioni e soprattutto il giusto approccio nei rapporti inter-umani. Probabilmente non è direttamente connesso con la musica elettronica, ma lo è sicuramente per noi come esseri umani e, per come la vedo io, le due cose sono strettamente connesse. Sin da quando mi sono avvicinato all’electro e poi alla techno, ho sempre apprezzato in questi due stili la sostanziale universalità del loro messaggio e, soprattutto nella techno, il suo intrinseco umanesimo. L’annullamento del concetto di razza e la ricerca della migliore integrazione possibile fra uomo e macchina erano connotazioni essenziali per questo stile. Questo atteggiamento era applicabile anche alle differenze di genere sessuale, soprattutto perché la maggior parte dei produttori techno degli inizi si contrapponevano con forza all’atteggiamento sessista e da gang dell’hip hop, che invece era centrale nei quartieri dove loro vivevano e di cui vedevano gli effetti culturali nelle persone della loro comunità. Ci sono state donne importanti nella scena di Detroit come Dj Minx e K Hand che erano tranquillamente accettate nella scena come d’altro canto avveniva in Europa con dj come Miss Djax, Electric Indigo o Monika Kruse. Soprattutto con Electric Indigo, io e Marco eravamo amici sin dagli inzi degli anni ’90 e quando abbiamo potuto gestire delle serate a Roma l’abbiamo subito invitata (era il 2006 o 2007 mi pare). Per noi era solo una grandissima dj e non l’abbiamo mai giudicata né peggio, né meglio per il fatto di essere donna. Non credo infatti che si debbano giudicare le qualità di un artista dal suo genere sessuale ed allo stesso tempo, credo fermamente che dobbiamo creare le migliori condizioni sociali affinché non ci sia alcuna discriminazione. Nel corso di questi mesi, la discussione sul tema è stata molto forte e troppo spesso ci siamo tutti fermati sui dettagli degli attori di questa vicenda, che possa essere stata la Kravitz o la Argento, o su tematiche importanti, ma separate dal fulcro della discussione, come il desiderio (vedi la famosa lettera firmata dalla Deneuve ed altre 99 donne francesi) o l’ipocrita atteggiamento di chi vuole censurare l’arte in modo perbenista. Questo secondo me ha depotenziato una possibile discussione sociale sull’abuso di potere e sulla discriminazione che invece è stata affrontata nel mondo del lavoro con il mobbing o in battaglie fondamentali dei diritti civili come l’aborto, il divorzio o il bio testamento. Forse siamo ancora in tempo per parlarne senza passare da posizioni retoriche o, di contro, ciniche e mettere al centro di nuovo l’essere umano in quanto tale ed i suoi rapporti che devono rispettare le diversità per integrarle in un’eguaglianza il più possibile da vivere nel nostro presente. In questo senso, la Techno, e l’Electro aggiungo, hanno queste capacità di aggregazione e se le riempiamo di messaggi significativi, non necessariamente espressi in testi, ma in azioni e suoni, possiamo fare molto. Nel 1993 intervistai Mike Banks degli UR per Tunnel e, con la sua semplice saggezza da uomo di strada, mi rispose così quando gli chiesi cos’era per lui la techno: “La Techno è una musica universale: non è riconducibile a nessun posto sul nostro piccolo pianeta. Potrebbe aver avuto le sue origini in Germania o a Detroit, ma non avendo quasi per niente parole è facilmente comprensibile da moltissime persone, anche da alieni provenienti dallo spazio. Potrebbe essere la nostra prima forma di comunicazione con popolazioni di altri mondi o con gli animali. Gli animali e gli uomini primitivi per migliaia di anni hanno usato suoni per comunicare. Oggi l’uomo è piuttosto in ritardo nell’uso di suoni nella comunicazione!”.
Negli anni ’90 tu e Marco Passarani avete creato la Final Frontier un centro di produzione-distribuzione. Gli anni in cui era attiva erano proprio quelli antecedenti all’arrivo di internet ed immagino che distribuire dischi, fosse di gran lunga diverso rispetto a oggi. Come siete arrivati a creare una distribuzione? Come si agiva nel mercato?
L’idea iniziale di fare una distribuzione di dischi era legata a Remix, che è stato un negozio di dischi fondamentale per la diffusione della techno a Roma. Durante il periodo dei rave romani agli inizi degli anni ’90 c’era una richiesta incredibile di techno e derivati e, avendo tantissimo smercio, ai gestori del negozio venne naturale ordinare altri dischi per poi distribuirli in Italia. Nel 1993 mi chiamarono per occuparmene visto che ci conoscevamo per le mie produzioni su SNS, Mystic e Sysmo. Iniziai da solo con un fax ed una scrivania, poi per fortuna salì a bordo Marco Passarani che fu la persona ideale per sviluppare un progetto che mettesse assieme distribuzione e produzione. Io avevo creato la Plasmek nel 1993 e lui portò la Nature lo stesso anno. Coprivamo diversi punti di vista della musica elettronica ballabile producendo electro, techno, IDM, ambient e tutto quello che ci piaceva. Eravamo assolutamente complementari e con quella giusta differenza di punti di vista che era utilissima a livello di scelte artistiche ed economiche. Con Marco creammo quindi una società separata da Remix che nel frattempo stava vivendo momenti di grandi cambiamenti, sia in termini di sede che societari, per la prematura scomparsa di uno dei soci fondatori. Tutto si era strutturato in modo più chiaro e professionale ed i risultati furono ottimi sia a livello produttivo che distributivo. Per i vari negozi di dischi italiani, eravamo un’oasi di elettronica nel mare del conformismo delle grandi distribuzioni di quegli anni, che continuavano a copiare idee altrui piegandole al presunto gusto italiano. Noi invece eravamo convinti che la musica che veniva da fuori Italia potesse avere uno spazio e che c’erano tanti ragazzi che avevano non solo voglia di sentirla (quello era evidente dall’esplosione dei rave agli inizi degli anni ’90), ma anche di realizzarla. Avevamo quindi raggiunto dei contratti di esclusiva per il mercato italiano di label che nessuno voleva o sapeva gestire. Fra le altre ricordo la Kompakt, la Klang, la Skam, la Profan e tutta la produzione olandese del giro Bunker e Viewlexx (la label di I-F). Anche se non in esclusiva, trattavamo i cataloghi di Underground Resistance o Rephlex con cui cercavamo di creare collaborazioni musicali intrecciando appunto distribuzione e produzione. Diventammo amici quindi con Grant, Mike, Ferenc e altri che in fondo facevano quello che facevamo noi. Eravamo tutti i figli della voglia del cambiamento degli anni ’90 e venne naturale unirsi e collaborare. Ferenc I-F venne a Roma a conoscerci e facemmo mille cose assieme, organizzammo il primo tour della Rephlex con Mauro ‘Boris’ Borella del Link, con Rephlex e I-F facemmo un 12” contro i test nucleari a Mururoa i cui proventi andarono a Greenpeace, facemmo uscire un 12” di Marco tramite la Submerge di Detroit e demmo nuovamente fiducia alla scena romana producendo dischi dei nostri amici da Lory D a Max Durante, dai fratelli D’Arcangelo agli MSB, da Gabriele Rizzo ai T.E.W.. Mi è molto dispiaciuto non aver potuto produrre amici come Leo Anibaldi e Marco Micheli, ma fra problemi contrattuali pregressi con la ACV e altre piccole cose contingenti, non è accaduto purtroppo. Marco Passarani si occupava molto della parte produttiva e scoprì nuovi talenti come MAT 101, Jolly Music, Dynarec, A Credible Eye Witness, Alan1 (Panoram), Snuff Crew e altri. Alla fine abbiamo prodotto più di cento dischi e CD. Il nostro riferimento ideale era la Submerge a Detroit, casa degli Underground Resistance, ma anche di tante altre label locali e ci siamo dati da fare per cercare di fare il massimo per avvicinarci ai loro risultati. A livello pratico, la situazione distributiva era incredibile se paragonata ad oggi. Non c’era internet e sentivamo le novità dai distributori via telefono. Ce le suonavano attaccando la cuffia alla cornetta e noi le risentivamo allo stesso modo. Una volta fatti gli ordini e ricevuti i dischi, compilavamo dei fax (non c’erano email…) che mandavamo a tutti i nostri clienti. Poi prendevamo degli appuntamenti telefonici e facevamo sentire i dischi a nostra volta allo stesso modo. Ma questo lo facevano tutti. Era l’unico modo. Non potevi fare mp3 dei vari pezzi e caricarli su un sito perché non c’erano siti e non c’erano mp3! Poi le cose sono cambiate, ma la situazione era questa in linea di massima. La cosa più bella era che si viaggiava molto per conoscersi ed elaborare strategie di vendita migliori, sia a livello di distribuzione che di produzione. Si trattava sostanzialmente di uno scambio fra persone che facevano lo stesso lavoro e avevano gli stessi scopi. Noi importavamo le loro produzioni e loro le nostre. Si trattava di un’economia molto diretta e pragmatica. Una cosa che vivevi in prima persona con scambi, positivi e negativi, ma molto diretti. Molto umana nel senso più ampio del termine. Era poi un mercato diverso, la tiratura minima era di mille copie, ma grandi label tipo UR, Warp, Tresor, Peacefrog ed altre ne vendevano anche decine di migliaia. C’era grande interesse nelle persone verso la musica. Non erano solo i dj che compravano i dischi. C’era un circuito virtuoso fra produttori, distributori e negozi di dischi che di fatto eliminava la necessità delle major, intese non solo dal punto di vista produttivo, ma da quello distributivo e soprattutto di marketing. I soldi che si investivano in una produzione erano soprattutto sul prodotto fisico in sé: il mastering, la grafica, eventuali particolarità di stampa (vinile colorato, loop, ecc.). Il marketing era molto meno presente perché per comprare quella musica dovevi andare quasi solamente in negozi specializzati. Si era creato in maniera naturale un mondo parallelo perfettamente funzionante che era veramente la rivincita di Davide su Golia. Era l’avverarsi delle idee di Toffler. Con l’esplosione del CD e della sua riproducibilità e, successivamente del digitale puro, il supporto fisico in vinile è andato sparendo, le vendite si sono abbassate e le prime a soffrirne sono state le distribuzioni. Queste avevano un guadagno minimo sulle produzioni che ricevevano esternamente per cui non facendo più quantità come una volta hanno iniziato a trovare degli escamotage diversi. Il primo era quello di produrre musica direttamente e il secondo quello di offrire alle etichette esterne dei contratti per realizzare un pacchetto produttivo completo. Le etichette dovevano solo fornire i master e la grafica (a volte neanche quella) e poi la distribuzione pensava a tutto. Ma anche queste soluzioni si rivelarono negative. Primo perché per fare una label di successo, o perlomeno artisticamente solida, non bastano i soldi, ma servono idee chiare e musica che sappia bilanciare fra proposta creativa e concreta. Secondo perché le distribuzioni avevano bisogno di sempre maggiori quantità visto che i numeri erano minori per cui uscì troppa roba di qualità scadente. In breve hanno chiuso praticamente tutte. Si sono salvate realtà come Hardwax, che era un negozio e quindi bilanciava i minori introiti come distribuzione con i maggiori profitti dalla vendita diretta al pubblico, o altre simili.
Ancora sul vinile: Qual è il tuo parere riguardo il mercato discografico odierno? Riguardo, per esempio, a come si muovono le distribuzioni? Pensi che oggi per un artista emergente sia consigliabile stampare su vinile?
Il mercato odierno è difficilissimo da decifrare. Nonostante si parli di ritorno del vinile, le label continuano a stampare come tiratura base trecento copie (negli anni ’90 era praticamente il numero dei promo di grandi label – noi ne facevamo un centinaio ad esempio), e i dischi si fanno più per motivi di marketing che commerciali. Quando un disco funziona alla grande vende tipo tremila copie. Se ne fa mille è un ottimo successo. Mentre prima era la base di partenza. E’ evidente che con questi numeri e con la morte di quel circuito virtuoso produttori/distributori/negozi, i soldi possano venire solo dalle serate che sono indubbiamente molte di più, ma è anche vero che il boccino passa di nuovo in mano al marketing. Per cui o sei un artista anche bravo a vendere te stesso e il tuo marchio (nome personale, gruppo o label che sia), oppure ti devi affidare a società esterne di promozione o addirittura a major che sono ultra specializzate in questo. E infatti queste ultime si stanno riaffacciando nel mercato forti delle loro connessioni editoriali per piazzare pezzi su spot pubblicitari o programmi TV o film o nuovi media come internet. Con questo però non voglio sembrare un passatista. Quando uscirono le prime società di downloading digitale nel 1994, con Marco andammo a Londra a valutare proposte per le nostre etichette e ora suono sia con vinile che con digitale senza problemi. Dico solo quella vittoria di posizione raggiunta con fatica negli anni ‘90 e quel mondo alternativo e funzionante si è rotto. Ed è un peccato perché aveva delle potenzialità di crescita enormi vista l’accettazione culturale della musica elettronica che c’è oggi. Si sarebbe potuto creare un mercato completamente alternativo a quella pop/rock con conseguenze, secondo me, culturalmente molto interessanti. Oggi però non è così e chi vuole produrre musica deve sviluppare delle strategie che tengano conto dello status quo, ma non perdendo di vista mai il fatto che devi proporre della musica che sia sempre innovativa, non necessariamente strana a tutti i costi, ma che, tenendo conto di ciò che è stato fatto finora, si ponga lo scopo di andare oltre l’esistente ed essere originale. Sicuramente è ancora utile la stampa su vinile, ma non è più quel tratto distintivo che cambia le sorti economiche di un prodotto. Semmai ricrea nel produttore quell’attenzione alle uscite che si è persa con la produzione digitale. E’ evidente che se investi dei soldi su un prodotto fisico, ci pensi molto di più a farlo uscire che se devi spingere solo un tasto per l’upload. Non tutto necessita di vedere la luce e la bravura di un produttore e di una label è proprio quella di scremare e far uscire solo il meglio. Che poi è la stessa bravura di un dj nel saper scegliere i brani per un suo set.
Un altro passo della tua carriera da cui sono fortemente affascinata è la tua fanzine, Tunnel, “Nuovi input per nuovi codici”. Mi affascina per più di un paio di motivi. Il primo era la sua totalità: abbracciava gli aspetti tecnici della techno fino a quelli più sociali, c’erano interviste di spessore a personaggi come gli UR, il tutto era unito dalla passione delle innumerevoli e diverse personalità coinvolte ed infine -per mio gusto personale- il vocabolario cyberpunk. Detto così può anche non sembrare nulla di nuovo, ma parliamo del 1993, quando tutti i vantaggi della comunicazione di oggi non esistevano.
Nei primi anni ‘90 le fanzine erano l’unico modo di comunicare a lunga distanza visto che non esisteva internet. Io seguivo Energy Flash di Detroit e Under One Sky che era gestita da Heather Lotruglio, Frankie Bones e Adam X e faceva capo al negozio Sonic Groove di New York. Per loro scrissi un articolo sulla scena romana visto che loro la supportavano molto e il legame con questo mondo di mini editori appassionati di musica mi piaceva molto. Poi c’erano Alien Undeground che poi divenne Datacide e Autotoxicity che erano molto radicali, mischiando anche tematiche sociali e di controcultura. Per cui ebbi l’idea già dal 1992 di rappresentare in forma cartacea il cambiamento che stava avvenendo nel mondo. L’idea infatti era di rappresentare non solo la musica, ma i vari aspetti del sociale che davano il senso di questo cambiamento. Solo che in quegli anni ero troppo preso dallo studio di registrazione che avevo con Eugenio Vatta per portarlo a termine. Entrai in seguito in contatto con Roberto Callipari che collaborava ad una fanzine cyberpunk che si chiamava Codici Immaginari dove collaboravano anche Andrea Natella, Teresa Macrì e altro studiosi di fenomeni sociali e giovanili. Roberto si appassionò alla scena rave romana ed in generale alla techno e mi spinse a portare avanti il mio progetto. Lo chiamai appunto Tunnel con il sottotitolo “Nuovi input per nuovi codici” ed uscì verso la fine del 1993. Coinvolsi Roberto chiedendogli di stilare un vocabolario cyberpunk, lui poi mi fece conoscere un suo amico regista e sociologo Marco Santarelli che fece un bellissimo reportage dei rave romani dal punto di vista delle periferie. Poi coinvolsi Luca De Gennaro con un reportage sul New Music Seminar di New York, Francesco Fondi aka Frankie Bit con la rubrica “Notizie dall’Ultramondo” che era una sorta di mini Wired ante litteram, ed Eugenio Vatta con la rubrica “Manipolazioni sonore” in cui spiegava il funzionamento di synth e sampler. Poi intervistai Underground Resistance, Dive ed i ragazzi della Minus Habens (con cui c’era un forte legame e rispetto), Jeff Mills, la PCP e i 303 Nation, Marco Micheli, Lory D, Leo Anibaldi ed altri. Durò solo due numeri perché era difficile rientrare dei costi di produzione e ci voleva comunque molto tempo per portarla avanti ed in quegli anni avevo iniziato la distribuzione con Marco, ma fu un’esperienza veramente significativa per me. Per fortuna dei ragazzi del sito www.paynomindstous.it si sono presi la briga di scannerizzarla e renderla fruibile in free download. Lo hanno fatto in occasione di un’intervista che feci con loro e fui felicissimo della loro proposta. Ero contento che dopo tutti quegli anni qualcuno se ne fosse ricordato ed avesse capito ed apprezzato lo spirito che c’era dietro.
Distorsonie, il festival bolognese con cui hai collaborato nel ruolo di co-art director ha forse l’onore di essere riconosciuto come primo festival italiano in quanto tale, questo ha già di per se un grande significato. Insieme a Mauro Borella del Link, avete avuto il coraggio di ospitare artisti da cui voi stessi vi eravate ispirati (da Mills a Mad Mike col progetto Timeline ad molti degli artisti di Rephlex). Raccontaci com’è andata…
Prima di tutto vorrei dire che anche Marco Passarani era uno dei co-art director del festival assieme ovviamente a Mauro “Boris” Borella che era nel Link stesso. Distorsonie è stata un’esperienza meravigliosa per vari motivi. La prima è che nasceva come punto di incontro per le label italiane che producevano dance elettronica moderna (electro, IDM, techno, ecc.). Nel 1993/1994 ci contavamo su una mano (forse due mettendo in mezzo anche chi faceva wave o elettronica pura) e trovarsi tutti nel marketplace in sala bianca al Link ognuno con il suo stand a promuovere la propria musica era molto significativo. Un altro motivo era che lo facevamo in un luogo, appunto il Link, che è stato un laboratorio unico in Italia agli inizi degli anni ’90 dove mescolare linguaggi alti e bassi mantenendo la fisicità del ballo – che è poi una delle cose che amo di più. Poi ovviamente c’è il fatto di averlo fatto grazie a Mauro, che è prima di tutto un amico e una persona di grande passione e tenacia. Ci siamo tolti belle soddisfazioni facendo suonare sullo stesso palco dopo anni Mike Banks e Jeff Mills e tanti altri artisti stupendi e fuori dagli schemi come Richard Devine, Unit Moebius, Gescom, Phoenecia, Autechre, I-F, Stingray, per non parlare di tutta la Rephlex, la Pharma e tanti miei amici romani. Se però devo isolare un ricordo o una sensazione, penso alla libertà espressiva che avevamo nel proporre la musica che suonavamo nei nostri set. Non c’erano limiti stilistici e c’era un’apertura mentale da parte del pubblico nel recepire il nostro mix di electro, IDM, acid e techno per tutta la serata che era meravigliosa. E’ la stessa tensione e varietà di proposta musicale che sento oggi in alcuni dj come Helena Hauff o Umwelt e sono contento che questi dj abbiano successo. Spero sia un ritorno all’accettazione ad un maggiore eclettismo e fisicità nei dj set che si erano persi negli ultimi anni.
(continua sotto)
La tua personalità artistica multiforme incomincia a delinearsi. Mi incuriosisce andare ancora più a ritroso, quando eri giovane. Quali sono gli artisti o i generi che ti hanno accompagnato nella tua adolescenza? Quali sono state le tue principali metamorfosi? Come sei arrivato poi, a Sprawl?
Il mio primo amore verso la fine degli anni settanta sono stati tanto i Pink Floyd e i Krafywerk quanto gli Earth, Wind & Fire. Ho sempre avuto questa doppia personalità musicale in bilico fra groove e melodia e atmosfere più rarefatte ed ipnotiche. Poi agli inizi degli anni ‘80, ho scoperto l’hip hop, l’electro, il freestyle, l’ambient e la new wave e in qualche modo ho cercato la perfetta fusione fra queste due mie visioni. Quasi tutti i miei amici di quegli anni suonavano in gruppi jazz, fusion e rock progressive. Io ero il freak della situazione facendo il dj, ma alla fine ho cercato di entrare anche i quei mondi e ho sviluppato un grande interesse nel mischiare gli stili. Ad esempio ho adorato l’Herbie Hancock di “Future Shock” e “Sound System” che restano due dei miei album di riferimento assoluti. Altri artisti fondamentali della mia adolescenza sono stati i Trouble Funk, gli Yazoo, i Material, Adrian Sherwood, Keith LeBlanc, Duke Bootee, Afrika Bambaataa & The Soulsonic Force, Grandmaster Flash & The Furious Five, Whodini, Mantronix, i Kraftwerk, David Sylvian, i D-Train, i Time, Hashim, gli Ultravox e altri che magari dimentico. Poi è arrivata la Metroplex e tutta la techno/electro di Detroit, tutta la scena freestyle di Brooklyn, l’acid e l’house di Chicago e nulla è stato più come prima. Anzi tutto ha sembrato avere un senso. Quella dicotomia degli inizi è sparita. Niente più divisioni razziali o culturali. Solo musica che sapeva di futuro e umani che lo cercavano.
La musica registrata su vari formati come il vinile, le cassette o il cd è stata – vista con occhio critico – frutto di un’illusione legata in parte a meri fenomeni commerciali. Il vinile è stato creato per vendere il giradischi e non viceversa. Data anche la tua esperienza diretta con i dischi, qual è la tua posizione a riguardo?
È vero. L’esigenza della musica registrata nasce per vendere i player (agli inizi erano i dischi per il fonografo), e non per motivi culturali: per cui la smaterializzazione della musica in cui siamo immersi ora, di fatto, ci ha fatto rendere conto che abbiamo vissuto in un’illusione per un centinaio di anni. Ma la musica registrata mantiene intatto il suo valore di consultazione, come i libri in una biblioteca. Io sono aperto a tutti i formati che mi diano la possibilità di essere creativo e non voglio essere rinchiuso in un genere o un periodo storico. Vedo solo un flusso enorme di musica registrata in cui nuotare e immergersi per cercare cose stimolanti e che mi rappresentino.
Cosa significa per te fare il dj? Mi sbilancio nel dire che probabilmente il modo in cui si faceva il dj – e il modo in cui si intendeva la perfomance – negli anni ’90 erano diversi da come stanno andando le cose oggi.
Io partirei dagli inizi. Storicamente il dj è prima di tutto un intrattenitore. Il sostituto della band che suonava in un locale per far ballare gli avventori. Prima nei club il dj trovava i dischi da suonare che erano proprietà del club stesso. Il dj era quindi sostanzialmente un juke box. Lentamente ha acquistato la sua indipendenza artistica portando e suonando la sua musica e creando sinergie con i tecnici delle luci o dell’impianto sonoro del club per far diventare il ballo un’esperienza sensoriale unica. Nei vecchi club la consolle non era necessariamente su un palco o al centro della pista. A volte era separata dal dancefloor non per mancanza di centralità della sua importanza, ma perché era il dancefloor il fulcro di tutto. Non è un caso che la consolle si chiamasse “booth” cioè cabina. Dall’avvento dei rave, e in generale delle one night o dei festival oggi, la necessità di comunicare a livello pubblicitario non il posto in cui la serata avveniva (il club), ma il dj, ha fatto in modo che questi venisse messo su un palco come catalizzatore della serata stessa in una trasposizione malriuscita della performance come è avvenuto per decine di anni nella musica, dalla classica al jazz, passando per funk, soul, rock, eccetera. Con la differenza che il dj a livello di performance, a meno che non faccia cutting e scratch, non ha molto da offrire. Non è un cantante o un chitarrista o un batterista… anche se molti vorrebbero esserlo, credo. Non voglio negare al dj di essere egocentrico ed eclettico e capisco che ci si possa affezionare ad atteggiamenti gigioneschi alla Villalobos o San Proper, ma io personalmente sono più legato alla centralità della musica e dell’esperienza che deve vivere chi viene a ballare. Vedere ad una serata quasi tutta la gente direzionata verso il dj invece che verso le casse o le luci o anche a chi gli/le sta vicino, mi lascia sempre stranito. Forse perché ho vissuto la differenza o semplicemente perché non l’ho mai pensata così. Quando faccio una serata chiedo sempre chi suona con me che musica mette e a che BPM pensa di suonare per gestire al meglio il flusso della serata secondo la giusta metafora aeroportuale/musicale di Mancuso della partenza e dell’atterraggio che applicava al Loft. La gente ad una serata è più importante del dj e per me il dj è colui che, assieme a chi fa le luci o i visual ed il tecnico del suono, sviluppa un’esperienza sensoriale ed emotiva, al pari di un montatore od un regista con un film. Per cui iniziamo a togliere i palchi, ridisegniamo le serate mettendo al centro il sound system, le luci, i visual e soprattutto la musica.
Come mai i tuoi moniker New Acid Generation e Skull si sono fermati ad una sola release ognuno?
Quando ho fatto quei pezzi non avevo deciso un mio pseudonimo che poi è stato Sprawl. Li ho registrati allo studio di Lory quando lui era fuori per serate e avevano preso una piega completamente diversa l’uno dall’altro: uno più dark industrial ed uno più acid per cui ho deciso i nomi dei progetti al momento della grafica dei 12”. Una volta deciso lo pseudonimo Sprawl ho usato solo quello. Questo nome è venuto fuori da un’idea di Giampiero Fagiolo dei T.E.W. quando stavo registrando con lui e Simone Renghi, sempre dei T.E.W., il mio primo 12” su Plasemk nel 1993 (due pezzi li feci con loro). Ultimamente alcuni miei pezzi li ho firmati direttamente con il mio nome di battesimo. Ho iniziato a farlo con le mie uscite su MinimalRome con cui collaboro da anni e poi per altre compilation recenti come quelle per le ultime due 808 Box su Fundamental Records.
(continua sotto)
Come ci si sente a essere una delle figure chiavi del “Suono di Roma”? Un movimento, una subcultura, non solo un collettivo.
Io mi sento ancora come quello che andava ai rave a sentire Lory D e Leo Anibaldi. Loro per me sono state le vere figure chiave del movimento. Senza la loro musica non ci sarebbe stato nulla. Io ho solo avuto la fortuna di essere nel posto giusto al momento giusto e di aver seguito la mia passione e la loro. Quello che mi riconosco è aver sempre voluto diffondere idee, concetti e storie di musica che potessero magari creare curiosità negli altri per continuare a scoprire altra musica in linea con quella fatta fino a quel momento. E’ successo quando ho deciso di fare Tunnel, la prima fanzine techno in Italia, ma mettendoci anche qualsiasi cosa che potesse supportare quello spirito di cambiamento che aleggiava nell’aria come il cyberpunk o la ricerca sulle nuove tecnologie. Ed è successo tutte le volte che ho contattato persone che amavo musicalmente per intervistarle e cercare di capire cosa volevano veramente fare con la loro musica.
Parliamo di attualità. Gente come Sync24 con la Cultivated Electronics, Brokentoys, CPU, Vortex, sta dando sempre di più alla scena. Qualcosa si sta evidentemente smuovendo. Qual’è il tuo pensiero a riguardo?
Non posso che essere felice. Suono electro da sempre. L’ho vista nascere e ha rappresentato la prima espressione della fusione fra cultura musicale nera e bianca, fra ricerca e groove. Spero che abbia sempre più spazio, anche perché per me ora ha colmato quella visione di futuro che la techno ha perso. Mi piace il fatto che si sia contaminata con una visione più wave o industrial, anche se per me deve sempre avere una forte carica di groove e bassi. Il basso è il mio suono preferito in un pezzo che si deve proporre in un dancefloor. Oltre il vinile, compro anche molto digitale e mi piace acquistare direttamente dalle label su Bandcamp dove ho scoperto artisti come N-TER, Holon, Dr. Floyd, Scott Robinson, Tetuan Tapes e tanti altri che rendono la scena electro viva nel migliore dei modi. Quello che vorrei sarebbe più libertà di espressione ed essere meno legati a suoni già esistenti. Negli anni ho sentito troppi cloni di Gerald Donald. Ma credo che siamo sulla strada giusta. L’electro per me rappresenta da qualche anno lo spirito inziale della techno e cioè di una musica che rappresenti il futuro che, oggi come oggi, è sempre più il presente e quindi va raccontato in tempo reale.
Guardando la tua discografia, posso immaginare che quando nel ’92 la Warp pubblicò “Artificial Intelligent”, eri già attivo musicalmente e nella scena. L’impatto che la saga dei Varius ha avuto sul panorama inglese è fatto storico. Ma in Italia?
Io e Marco abbiamo prodotto tanti EP o album con vari artisti perché aveva anche un significato di comunanza, prima di tutto. Mettere assieme artisti da varie città e nazioni voleva dare il senso di far parte di uno stesso linguaggio e di una stessa tensione al cambiamento, e cercavamo tracce che ci piacessero, sì, ma ovviamente anche artisti che avessero quelle stesse idee. Su Plasmek abbiamo fatto la serie “The Dark Side of the Sword” su cui sono usciti, oltre a me e Marco, Mat 101 (ovvero Francesco “Francisco” De Bellis e Mario “Raiders of the Lost Arp” Pierro, il nostro fratello olandese I-f, un giovane Anthony Rother che aveva fatto uscire il suo primo ep da poco, Max Durante, Keith “K1” Tucker e Ra-X ovvero Drvg Cvltvre). Su Nature invece facemmo uscire due album “Mission Two: connection Electronix Network” e “Mission Three: establishing Electronix Network” in cui il significato di questa comunanza era chiara sin dal titolo e ci parteciparono fra gli altri A Credible Eye Witness, Phoenecia, D’Arcangelo, Somatic Responses, Amptek, Vendor Refill, V/Vm, Dynamic Wave, M.S.B., T.E.W., Ambit 3, J’s Pool, Jollymusic e Adult.
Riusciresti a identificare 5 etichette, che secondo te, hanno segnato il corso della musica elettronica nella storia? Ovviamente, vorrei sapere il perché di ognuna.
Prima di tutto Underground Resistance perché hanno rappresentato e rappresentano il fatto che la label viene prima dell’artista e quindi la musica prima dell’apparenza. Poi la Djax-Up-Beats, perché ha creato un sound techno europeo perfettamente riconoscibile ma allo stesso tempo rispettoso della scuola di Detroit e Chicago nelle forme più pure. Poi la Warp, perché ha trasformato la musica elettronica post rave in musica di massa, cosa assolutamente non facile. Poi la Direct Beat: perché ha riportato al centro della scena mondiale l’electro nella sua forma più radicale alla metà degli anni ‘90. E infine la Sounds Never Seen, perché è stata la prima etichetta techno italiana e resta una delle più originali e sperimentali di sempre.
Con questa intervista, ho cercato quanto possibile di ripercorre i momenti più “romantici” del tuo rapporto con la musica. Ma cosa riserva questo 2018 per Andrea Benedetti?
Nel 2018 ho molte cose in ballo. Sto collaborando ad un programma radiofonico settimanale che si chiama “Back to the beat” ideato da Andrea Prezioso e Alex Paletta per la radio online U-FM. C’è ogni domenica, dalle 23,00 alle 24,00 circa, e propongo tutta la musica che ha formato le mie radici musicali: dall’electro alla wave, dall’house all’acid, dalla techno al funk. Un mix fra classici e rarità che sarà un mix fra un archivio sonoro ed un sano accumulo di bei ritmi e melodie (o rumori). Dal punto di vista produttivo, ho una traccia electrofunk in uscita su una compilation della Nodezero Electronics di Roma, un 12” sulla Flash Forward di Napoli con una mia traccia acid ed una deep house a nome The Experience, progetto che facemmo con Eugenio Vatta nel 1992 per la Mystic Records e che sempre la Flash Forward ha ristampato l’altr’anno. Ho poi un altro 12” acid ed electro in fase di finalizzazione con l’inglese Furthur Electronix ed uno con la art-aud di Kreggo/G-23, talentuoso produttore di Biella che l’altr’anno ha già pubblicato un mio 12” “Time Tunnel EP” con remix di D’Arcangelo. Dopo l’estate uscirà anche un album ambient su Glacial Movements a firma Frame, che è un progetto multimediale live che avevo fatto con Eugenio Vatta negli anni ’90 in cui suonavamo con un sistema audio quadrifonico seguendo un video che avevamo realizzato ad hoc. Si trattava di un mix fra cinema e improvvisazione con cui suonammo soprattutto in festival e teatri e per la cui realizzazione avevamo prodotto tantissimo materiale che era rimasto inedito. Alla fine con Eugenio abbiamo deciso di rieditarlo e montarlo con un concept. Eugenio, che è un bravissimo ingegnere del suono oltre che musicista, ha aggiunto effetti e sue composizioni e ne è venuto fuori qualcosa di molto intenso. Sono poi contento che uscirà su Glacial Movements perché il ragazzo che la gestisce, Alessandro Tedeschi aka Netherworld, comprava i dischi da me e Marco e prima da Remix e, in breve tempo e con tanta passione, ha trasformato la sua etichetta in un riferimento per l’ambient facendo uscire artisti come Scanner, BVDUB e Eraldo Bernocchi fra gli altri. Un altro grande progetto su cui ho lavorato in questi mesi e che vedrà la luce a maggio/giugno 2018 è la riedizione del mio libro “Mondo Techno”. Essendo esaurito da tempo e avendo ancora molte richieste, ho parlato con la casa editrice, Stampa Alternativa, per una ristampa e loro volevano un’edizione aggiornata per farlo. Allora mi è venuta un’idea: ho sentito Christian Zingales che conosco da 25 anni e gli ho proposto un remix del libro. In pratica si trattava di rieditare il libro partendo dal testo originale in word, lasciandogli campo libero sul da farsi. Lui è stato entusiasta dell’idea e anche la casa editrice. Lui ci ha lavorato tre mesi circa e a gennaio abbiamo consegnato il tutto alla casa editrice che lo ha programmato appunto per maggio/giugno. In più ho coinvolto la semiologa Claudia Attimonelli che ha scritto un altro bel libro sulla techno per la Meltemi “Techno: ritmi afrofuturisti” dal taglio più accademico e sociologico per scrivere la post-fazione del libro. Volevo mettere assieme le uniche tre persone che avevano scritto di techno in Italia a livello editoriale e ci sono riuscito. Non vedo l’ora che esca ufficialmente.