Gli antichi proverbi cinesi racchiudono in sé un senso della vita tutto orientale in cui si ripete sempre con una certa insistenza: “Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”. O ancora “Vi sono due cose durevoli che possiamo sperare di lasciare in eredità ai nostri figli: le radici e le ali”. Il problema però è che da queste parti la parola Cina è da prendere con le molle: loro sono Hong Kong (ex colonia Inglese), con una densità di abitanti spaventosa in relazione al territorio, con uno sviluppo massiccio della città tutto in verticale dove palazzi e grattacieli non sono inferiori ai trentasette piani. I famosi “hongonghini” hanno veramente poco a che spartire con i cugini di Pechino: dalla lingua, qui c’è il cantonese che differisce dal mandarino, a un certo cibo da strada, “dumplings” su tutti, una sorta di agnolotti ripieni di carne e verdura fritti o bolliti. Hong Kong rimane quindi tra le città asiatiche più europee in assoluto, una città dove incrociare per strada inglesi ed anche molti americani è quasi la consuetudine.
Il nostro viaggio non può che incominciare nei record shops. Su internet infatti una certa news gira velocemente: “Hong Kong is a great place to visit, record shopping isn’t one of its major highlights but the odd thing pops up; italo-disco must have been massive here in the 80’s”. Seppure l’attrazione principale cittadina non sia il “digging”, nei negozi di musica pare che l’italo-disco abbia avuto una certa diffusione massiccia da queste parti. Peccato però non averla intercettata in giro, ma in una centralissima “causebay” di Honk Kong HMV si materializza impetuoso. Storica catena di store di articoli musicali (ormai quasi estinta in Europa), con una vastissima scelta di vinili e cd è lì, proprio a portata di mano. Il problema principale è ovviamente non riuscire a decifrare tutte quelle scritte in cantonese/mandarino, ed oltre a pescare Yoshitaka Minami e una certa Sara dallo scaffale “Asian pop/folk”, tanti vinili fatti girare sulla puntina del giradischi resteranno un enigma che ci accompagnerà a vita. Se si vuole provare a descrivere il sound che è venuto fuori dopo i tanti ascolti possiamo catalogarlo così: una certa marcetta synth-pop anni 80 con un cantato che strizza l’occhio al nostro neomelodico tutto in chiave prettamente asiatica.
Vi ricorda in parte il progetto Liberato, tanto per tornare in argomento Sónar? Con un’ampia e folta line-up apre il sipario per la seconda edizione del Sónar Hong Kong. Per chi ha preso già parte alle edizioni parallele (vedi Reykjavik, Istanbul e Stoccolma), sa benissimo che qui il concept è ben differente, gli orari si accorciano, l’atmosfera è molta più rilassata, gli spazi poi sono abbastanza raccolti. Il vero filo conduttore è la ricerca, da sempre l’attenzione spasmodica e una certa cultura musicale prende piede e cammina su un binario tutto privilegiato.
(Uno dei palchi diurni; continua sotto)
Lo Science Park è la location del festival. Tra i main sponsors notiamo: “Una bionda per la vita”… ehi, la tanto cara e amata birra Peroni! Però mentre si è già pronti a sventolare il tricolore con il petto all’infuori e la mano destra sul cuore, orgogliosi dell’imprenditoria nazionale, si intercetta questa news: “La birra peroni diventa giapponese: Asahi fa shopping in Europa per 2,55 miliardi di euro”. Altro made in Italy volato altrove. Ma questa è un’altra storia, diciamo. Due piani con varie scale mobili conducono facilmente all’ingresso di ogni sala. Quatro gli spazi adibiti al festival: Sónar Village, ovviamente all’aperto; il Sónar Dome, come da prassi la zona sponsorizzata da Red Bull; Sónar Lab e Sónar Club sono le location indoor che chiudono l’elenco delle venue della manifestazione.
I chilometri che ci separano dall’Europa quasi si fa fatica a contarli dai tanti che sono, ed è proprio per questo che una parte della nostra attenzione è molto concentrata sui “locals”, o quanto meno sugli asiatici. Se di nativi si parla è giusto buttare nella mischia qualche nome che vale comunque la pena seguire. Cocoonics, all’anagrafe Athena Chan, è forse uno dei nostri primi impatti del Sónar, dove in un ambiente ancora semivuoto il suo sound di ottima fattura avvolge il Sónar Lab in un mix perfetto di breakbeat e qualche assaggio disco orientaleggiante, regalando ampie vedute musicali con una cassa mai banale e un sound fresco e inteso allo stesso tempo. Qualche ascolto precedente (playlist del Sónar HK 2018 su Spotify) aveva scaturito un certo interesse sui giapponesi Mouse Of The Keys, artefici di una sorta di jazz rivisitato e contaminato, con qualche piccola correzione elettronica, scivolando talvolta anche verso il più cupo post-rock. Sono in assoluto una piacevole rivelazione, una performance di gran qualità che scivola via leggera e soave come solo pochi gruppi posso avere l’onere e l’onore di saper fare. Sul fronte sempre orientale, una menzione speciale va fatta all’intero showcase delle radio asiatiche: due di Hong Kong, HKCR e Fauve, e la più conosciuta Seoul Community Radio (che da un paio d’anni ha una buona collaborazione con Boiler Room): le tre si prendono l’intera apertura del Sónar Dome. Alzando i bpm e spostandoci verso il Sonar Lab, K-Melo affronta la folla con un set piuttosto improntato su un hip hop molto sporco e graffiante, ma di cui possiamo evidenziare il piglio anche nel miscelare in modo più che sensato bordate di dubstep con qualche intercalare houseggiante di buon respiro. Si sale al Sónar Complex e, come di consuetudine, ci si siede: i suoni IDM\ambient si dissolvono tra la gente con tanto di tappetone musicale che prende il nome di Hong Kong Electronic Music Society.
Il Sónar Village veste i panni di attore principale del festival, è il “core” dove si sviluppa gran parte della manifestazione. I tanti live che vi si succedono hanno tutti un sapore molto particolare. Il francese Jacques è forte, frizzante e fuori dalle righe. Di solito si finisce solo in età avanzata stempiati con il riporto tipo onda a coprire la cute – lui invece lo fa di proposito, a colpi di rasoio. La sua è una bella performance, fatta campionando live tutto ciò che ha davanti nel suo banco: una vera e propria jam session di articoli casalinghi, che passa dal metro che si allunga e si chiude alla pallina da ping pong fatta rimbalzare su un piatto, con qualche intercalare sonoro di barattoli che strusciano tra di loro; ad amalgamare il tutto, un groove di sottofondo secco e persuasivo. Il tempo di spostarsi non c’è, perché in un freestyle di emozioni a catena si susseguono Mount Kimbie, Squarepusher e i canadesi Keys’n’Krates. Che dire di loro? Le performance sono talmente corpose e ben strutturate che tanti aggettivi potrebbero solo che rovinare il senso delle esibizioni. Squarepusher, su tutti, è pazzesco: trasformatosi per l’evento in alieno con tanto di casco e tuta spaziale, alza e abbassa i ritmi della sua esibizione a suo piacere trasportando completamente la platea in sentieri sempre più nascosti, senza ovviamente mai perdere di mira la rotta principale. Genio vero.
(Jacques in azione; continua sotto)
Nel Sónar Lab si gioca una partita prettamente dubstep\reggae\trap, dove forse a brillare più di tutti è proprio Lauren Halo. Per quello che è stato, il suo set si discosta molto dal mood della sala ed apparecchia la tavola con un sound soft di buona fattura non rischiando mai più di tanto portando così la performance a casa senza mai dover ricorrere ad effettacci speciali. Per chi ancora non l’avesse mai sentita, invece, l’iraniana/olandese Sevdalizia oltre ad essere molto scenica e stilosa sul palco è anche molto coinvolgente (…infatti, un approfondito ascolto del suo ultimo album “ISON” è consigliatissimo). Grande prova canora la sua, senza ovviamente dimenticare una ricercatissima cura della veste sonora che avvolge ogni singolo brano.
Il cerchio verso la fine si restringe sempre di più, e la vecchia e cara cassa in quattro spinge il festival verso la parte notturna: il Sónar Club risponde presente. Ad aprire i battenti ci pensa Floating points (live set in solitaria): ci dà dentro di gran carriera. Abituati forse a sentirlo più rilassato nelle nostre latitudini, da queste parti è invece piuttosto dritto e deciso. A chiudere i battenti c’è un terzetto rodato, saldo e ben strutturato: Heidi, Black Madonna e Laurent Garnier, con quest’ultimo che magari non mette in campo – come invece fa di solito – “The Man With The Red Face” ma rispolvera per dire “Domino” di Oxia che, in un contesto come quello, effettivamente funziona.
Il pregio di trovarsi da tutt’altra parte del mondo è quello di osservare e scrutare nei movimenti e nelle gesta delle persone qualche piccolo dettaglio da portare con sé: le reazioni e gli approcci alla musica cambiano notevolmente di persona in persona, figuriamoci di cultura in cultura. Di sicuro questa parte del mondo (Cina, Corea) ci sta facendo capire che vuole sedersi al tavolo dei grandi, nel campo degli eventi legati alla musica elettronica. E ci riuscirà in brevissimo tempo. Hanno mezzi economici spaventosi, hanno un approccio al lavoro molto focalizzato sul profitto e sull’efficienza. Sulla qualità, vedremo col tempo che piega prenderanno le cose; di sicuro qua al Sónar Hong Kong c’era.