Macao, a Milano, è una “creatura ibrida”. Volendo lo si potrebbe descrivere come un centro sociale di nuova generazione, dove si cerca di rinnovare i codici di una certa sinistra antagonista storica e di incorporare pure nuovi temi e nuove battaglie, con un approccio “laico” e senza per forza schieramenti politici o partitici tradizionali. Ad esempio sotto il punto di vista della musica elettronica è sempre interessante quello che viene fatto: si tratti del festival Saturnalia o degli appuntamenti più o meno regolari del sabato, si va sempre verso scelte non convenzionali, verso indirizzi musicali che abbiano la ricerca e la sfida artistica nel proprio DNA, verso realtà che sono fuori dal solito giro di agenzie&eventi. La cosa notevole è che questo finora ha funzionato alla grande, con un successo di pubblico altissimo: vuoi per la qualità della proposta, vuoi per la politica dei prezzi (popolarissimi), vuoi per la libertà che solo uno spazio occupato (fuori quindi dalle regolazioni di legge) ti può dare. Non un modello perfetto, ma sicuramente un modello di cui sicuramente c’è bisogno (anzi: veramente bisogno) come stimolo e come luogo di elaborazione di idee, nuove suggestioni, nuove pratiche. Domani 30 marzo ci sarà un appuntamento sulla carta molto interessante: preceduto alle 22 da una tavola rotonda dal titolo “Difference as a culturally-propelling force” (“La differenza come forza culturalmente propulsiva”), da mezzanotte in poi saliranno in console alcune esponenti del collettivo Discwoman, realtà newyorkese fin dalla sua fondazione attento a lottare contro razzismo, sessismo, discriminazioni di genere in una realtà, quella del clubbing, che – troppo spesso ce lo dimentichiamo – nasce proprio come fuga&risposta a discriminazioni, omologazioni e sessismi). Una realtà nata quasi per scherzo una sera a New York, ma che in poco tempo ha avuto una grande crescita e ha ricevuto molta credibilità (grazie anche a testimonial importanti come The Black Madonna), trasformandosi anche in vera e propria agenzia. Ne abbiamo parlato Frankie Decaiza Hutchinson.
Allora, andiamo proprio alle fondamenta della storia: com’è nato il progetto Discwoman? In teoria, a veder quel che si legge in giro, inizialmente è nato come un semplice party di due giorni. Quali erano le persone coinvolte? E com’è andata, questa due giorni? Ma soprattutto, quando avete iniziato a pensare che forse si poteva creare qualcosa di più strutturato e continuativo?
Allora, prima di tutto sono stata io ad incontrare Emma, aka Umfang, in un posto chiamato Bossa Nova: ad un certo punto suonò un disco fantastico (“Threshing Floor” di Call Super, per la cronaca) che riaccese il mio amore per un certo tipo di suono che avevo sentito in certi rave londinesi. Insomma, attaccai bottone con lei in console e diventammo subito amiche. Ma tipo che dopo pochi giorni eravamo già in vacanza assieme a Portorico! Sai no quando trovi una persona con cui ti capisci immediatamente, e su tutto? Di lì, uscimmo insieme una sera e finimmo in un locale dove c’era una ragazza che suonava e – ehi, ci venne la stessa idea allo stesso momento! So che suona abbastanza bizzarro, ma è andata veramente così. Fissammo una data al Bossa Nova però ecco, pensammo subito che avremmo avuto bisogno di un nome per questa cosa e devo dire che Discwoman venne fuori subito, spontaneamente. Al che arrivò la nostra amica Dylan, a dirci che avrebbe fatto molto volentieri la grafica per la comunicazione della serata. Poi c’era Christine, con cui già avevo organizato cose in passato, amavo la sua serietà e la sua etica del lavoro quindi rimasi entusiasta quando si disse ben disposta a farsi coinvolgere. Lei ha delle qualità che né io né Emma abbiamo, è grazie a lei probabilmente che il progetto è diventato fin da subito molto serio e concreto. Il party andò benissimo. Oltre ogni nostra aspettativa, credimi. Ricevemmo anche un sacco di attenzione da parte dei media. Sai, nelle nostre intenzioni doveva essere una cosa estemporanea, da fare una volta sola. Devo dire che non è andata proprio così (Ride, NdI)… Fin dall’inizio davvero tanta gente si è dimostrata interessata al progetto, e fin dall’inizio davvero tanta gente ha proposto di fare qualcosa di simile nella propria città. Insomma, non potevamo che dare seguito a questa esperienza. Ed eccoci qua.
Fino a che punto una esperienza come Discwoman è necessaria, nel campo della club culture contemporanea? Mi spiego meglio: Discwoman è semplicemente una interessante piattaforma artistica ed organizzativa, o è qualcosa di cui davvero c’è bisogno per (ri)equilibrare un po’ di aspetti e visioni per quanto riguarda la questione di rispetto e di parità di genere all’interno della sfera del clubbing?
Non lo so. Difficile rispondere – e mi piace il fatto che sia difficile rispondere. Penso che ci si possa approcciare alla nostra esperienza in molti modi. Per qualcuno possiamo essere importanti, per altri poco: mi va benissimo così.
Quando qualcuno porta avanti un messaggio così importante, e così essenziale per la propria esperienza artistica, quando è difficile doversi confrontare coll’aspetto più prosaico delle cose, quello legato al business? Perché per dire, e correggimi se sbaglio, Discwoman come agenzia di booking nasce come un’attività non-profit, giusto?
Mmmmh, non direi che siamo mai stati un’entità non-profit. E’ invece vero che, tramite le nostre attività, siamo riusciti a sostenere finanziariamente molte realtà non-profit. Anzi, all’inizio ogni guadagno legato alle nostre attività finiva appunto a queste realtà: i dj non erano pagati, nessuno era pagato, eccetera, quindi ogni minimo guadagno veniva assorbito dal contributo a cause che ritenevamo giuste. Ma ad un certo punto ho capito che questo modello non era sostenibile, anche perché non prendeva in considerazione che poi ho capito molto bene: pagare le persone per quello che fanno (i dj, grafici, noi stesse) è il modo migliore per valorizzarle, per dimostrare che stanno facendo qualcosa di valido e di importante. Creare un modello di business sostenibile anche all’interno di un discorso etico è un atto politico tanto quanto lo possono essere altri più espliciti e diretti, come le donazioni e il volontariato. Certo: il nostro non è un modello perfetto ed idilliaco, ma di sicuro cerchiamo di essere la “casa” migliore possibile per gli artisti che rappresentiamo.
A chi dobbiamo dare la responsabilità per questo squilibrio nella parità di genere a livello numerico nel mondo della club culture (e mi riferisco ad artisti, promoter, anche i media stessi)?
A tutti, e a noi stessi.
C’è il pericolo che, con un’entità come Discwoman o una qualsiasi entità che abbia un funzionamento di base simile, ci siano artisti che vengano sopravvalutati o eccessivamente supportati solo per la loro appartenenza di genere e/o per le loro preferenze sessuali?
Non lo so. E, se devo essere sincera, odio queste domande. Perché guarda, negli anni un sacco di uomini artisticamente di scarsa qualità sono stati spinti parecchio ma non ho mai sentito nessuno lamentarsene troppo, no? E allora perché se magari succede con qualche donna è improvvisamente un problema gravissimo? Sai, io credo sia molto maschile tirare fuori questa questione – e quando lo fanno, gli uomini, pensano anche di essere acuti, di aver individuato un punto focale. Io invece la trovo un’osservazione decisamente noiosa.
(Frankie Decaiza Hutchinson; continua sotto)
Come collettivo Discwoman avete suonato in posti di enorme prestigio come Berghain e Dekmantel: com’è stata come esperienza? Avete avuto l’impressione che la folla abbia capito la valenza di Discowoman come progetto, oltre ad apprezzarne la musica?
Mi piace pensare di sì! Poi chiaro, certezze non ce ne sono, ma ti posso dire che sia al Berghain che al Dekmantel sono state esperienze magiche! In generale credo che non riuscirò mai ad abituarmi all’idea che c’è gente che ci conosce, ci vuole sentire, compra il nostro merch, e lo fa addirittura all’estero. E’ qualcosa che non finirà mai e poi mai di meravigliarmi! Per fortuna!
E’ giusto considerare un club come un posto, almeno sulla carta, migliore e più coerente con chi crede fermamente in un mondo di eguaglianza di genere e senza discriminazioni? Intendo, è più facile trovare queste dinamiche questo spirito in un club rispetto a quello che si trova nella vita di tutti i giorni?
Complessivamente penso di sì. Se guardo alla mia esperienza personale, mi sento molto più al sicuro fra le mura di un club che altrove. Però bisognerebbe sentire caso per caso. Non per tutti e non per tutte magari è così. In una serata in un club è difficile tenere sempre tutto sotto controllo. Non puoi essere certo al cento per cento che sarà tutto perfetto e sicuro, ma puoi fare ogni sforzo possibile affinché ciò possa avvenire, quello sì.
Prima di questa vostra venuta a Macao, avete mai avuto contatti con la scena italiana?
A dire il vero non tanto. Certo, per me l’Italia è un’ossessione, lo è per motivi molto banali: amo Fellini tantissimo, amo da morire il vino e la pasta! Però è successo che io ed Arcangelo di Macao ci siamo incontrati all’Unsound ed è scattata subito l’intesa. Ci ha presentato Giant Swan, che continuava a ripetere come Macao fosse un posto assolutamente eccezionale, quindi l’idea di fare qualcosa lì è nata praticamente fin da subito.
Senti, domanda fastidiosamente banale, ma mi tocca farla: perché ci sono così poche ragazze che producono musica elettronica? Fino a che punto, e in quale modo, dobbiamo combattere questa idea per cui la musica elettronica è soprattutto una faccenda “da uomini”?
Non è vero che ci sono poche ragazze che fanno musica elettronica, ce ne sono invece così tante da non crederci. Io credo che le questioni siano due. La prima: le donne sono condizionate dall’idea che non sarebbe tenute a fare musica elettronica, che non è roba “loro”, quindi partono già dal presupposto che non sono brave abbastanza e fanno quindi più fatica ad autopromuoversi. Due: a lungo tempo nessuno fra i media prestava attenzione alle ragazze che facevano elettronica, per fortuna negli ultimi tempo le cose stanno cambiando.
Se mai qualcuno volesse entrare a far parte di Discwoman, cosa deve fare?
Detta così pare quasi una gara con un premio finale, quello di essere preso da noi, ma le cose non stanno assolutamente così. Il nostro roster è fatto da persone con cui siamo entrate in contatto e con cui sentiamo delle affinità. Quindi, molto semplicemente: fate il vostro. Se qualcosa deve succedere, succederà. Non dovete mai agitarvi troppo per farvi apprezzare dalle persone, che si tratti di noi o qualcun altro, perché questo non è il modo migliore di agire. C’è gente che non ci fila proprio, e anche questo va benissimo.
(Foto di Tyler Jones)