Il piglio ironico un po’ cazzone di tutta la generazione Italo Disco, il basso come strumento e vettore fondamentale per questo tipo di musica, le passioni, i riferimenti, i Van Halen e un padre figlio del fusion da cui è partito tutto: ad una settimana esatta dall’uscita di “Ghetto Falsetto”, abbiamo incontrato Bruno Belissimo per una chiacchierata in cui trash, Lol, e film soft porno non sono stati argomenti di discussione.
Tu nasci bassista, orgogliosamente bassista, aggiungerei. Da dove nasce e come arriva questa passione per l’italo disco, o norwegian disco, o disco e basta, visto che poi più o meno nei tuoi lavori ci sono tutte quelle influenze lì?
È vero, orgogliosamente bassista. La passione per tutti questi generi credo sia una conseguenza della mia formazione musicale. Io nasco da una famiglia di musicisti, mio padre chitarrista è sempre stato un grande figlio della fusion e quindi credo sia stata una naturale evoluzione delle cose il fatto di imbracciare uno strumento e cominciare a suonare. Considera che ho anche un fratello gemello batterista, quindi diciamo che è un affare di famiglia. All’inizio, avendo una grossa impronta orientata verso il jazz, ovviamente portata da mio padre, non c’era nulla di questa disco a cui mi ispiro. La passione per la disco è arrivata dopo, con l’amore verso il funk e con i dischi Motown. Da lì cominciando a scrivere musica e cominciando ad avere sempre più a che fare con l’elettronica, che per me è una grande dipendenza, è bastato unire le due cose e si è arrivati alla disco music o – come hai detto tu – alla disco scandinava, che poi si rifà a ciò che c’era qui. Queste passioni credo siano anche il riassunto di un periodo in cui andavo tanto a ballare. Per i miei dischi, per la mia musica, penso sia stato fondamentale andare alle serate e a ballare. Secondo me il fatto di frequentare serate e discoteche è un processo importantissimo per chi vuol fare musica che faccia a sua volta ballare la gente.
Del resto il focus sulla norwegian disco è un po’ un cerchio che si chiude. Terje suona nei suoi set “Il Veliero di Battisti”, Lindstrøm adora Daniele Baldelli…
A me ha fatto ridere una volta Beppe Loda, che ho conosciuto perché sono cresciuto sul Lago di Garda come lui. Quando gli chiedevo di questi producer che impazzivano per le sue produzioni rispondeva “Questi qui mi chiamano grande maestro, ma io non so, ogni volta casco dal pero, non pensavo di aver fatto tutto questo“.
Secondo te per un bassista c’è una certa facilità nel fare questo genere? Mi spiego meglio: magari un bassista ha più facilità nel trovare certe armonie che per questo genere di musica sono importantissime. Il giro di basso in questo tipo di produzioni è importantissimo, penso ad esempio al giro di “Around The World” dei Daft Punk.
Io credo di sì, anche perché credo che questa sia musica molto “bassocentrica”, basata su questo motore portante che è dato soprattutto dal basso. Se ci pensi in molti pezzi di questo genere la melodia è data solo dal basso, ci sono anche altre melodie ovvio, ma sono più colori, più accenti che altro. Non dimentichiamoci poi dell’armonia che parte dal suono di un basso. Per me, lo ripeto, è stato naturalissimo arrivare a questa musica.
Tra le altre cose in questo modo si restituisce un po’ di orgoglio alla figura del bassista. Quando penso al bassista penso a quello che è vestito male nella band, mentre tu sei un bassista molto accentratore. Meno male sia così perché il ruolo del bassista è importantissimo, mi viene in mente una figura come Marcus Miller. Quali sono i tuoi riferimenti?
Ah cavolo, sono andato al suo concerto la settimana scorsa. Lui è un grande esempio, come ovviamente tantissimi altri. Hai però citato uno fondamentale per la musica, sicuramente tra i miei riferimenti c’è Mark King, magari qualcuno si vergognerebbe di fare questo nome, ma secondo me uno ci deve passare dai Level 42. Un’altra figura che mi ha dato molta ispirazione generale sull’utilizzo del basso all’interno di una forma canzone è Meshell Ndeogoncello. Lei credo sia il mio più grande idolo musicale, pur seguendo una carriera magari un po’ un sordina o comunque underground, è la mia massima fonte di ispirazione, da sempre il mio idolo assoluto.
Pensa che io ascoltando “Ghetto Falsetto” ci ho trovato dei riferimenti a Billy Shehaan ai tempi della band con David Lee Roth e Steve Vai. Ecco, ora sei liberissimo di rispondermi “Questa è una cagata”, ma per questa ritmica anni 80 io ho anche pensato a quei dischi lì.
Davvero? Ti racconto questa cosa un filo naïf riguardo a David Lee Roth: mio padre, essendo un chitarrista principalmente fusion, è stato anche, tra virgolette, vittima di quegli anni in cui spadroneggiavano i Van Halen. La sua più grande forza era suonare davanti agli occhi miei e di mio fratello “Eruption” dei Van Halen. Da piccoli c’era questa tradizione per cui all’ora di cena correvamo nello studio mettevamo su “Van Halen” (primo disco omonimo in cui è presente “Eruption”) e arrivava mio padre a farci il solletico.
Secondo me allora inconsciamente te lo sei portato dietro un pochino quel suono…
Infatti tu mi hai citato questa cosa qui e devo dire che è stata abbastanza strana come situazione. Sì può essere davvero sia andata così.
Veniamo al tuo prossimo lavoro: sei riuscito a fare un album ancora più fresco rispetto al tuo album d’esordio. Sei riuscito ad avere uno spirito ancora più allegro e poteva essere anche difficile come obiettivo, si rischiava di finire nella tamarraggine. Mi sembra invece tu abbia mantenuto la tua linea.
È così! Tutto quello che cerco di fare io è cercare di mantenere questo bilanciamento, mettendo delle cose che fondamentalmente suonano zarre, pensa a quel “po po po” di “Ghetto Falsetto”, mantenendo però un certo equilibrio in modo che il tutto suoni anche ironico. Poi in realtà nel live questo bilanciamento si perde, perché quando sei lì a ballare che sia zarro o meno te ne frega poco.
Il disco in realtà riesce a suonare anche molto intelligente. Mi sembra ci siano delle trovate in cui non ti abbandoni al giro più scontato o alla melodia più semplice. Si sente un certo virtuosismo…
Fa sempre parte di quel bilanciamento di cui ti parlavo prima e di mascherare un pensiero dietro ad un livello armonico o ad elementi che vengono via via inseriti. Mi piace mettere sempre dell’autoironia nella mia musica, il virtuosismo fine a se stesso rischia di annoiare. Cerco di dare una profondità a pezzi principalmente legati al live e al ballo in cui scavando puoi trovare, come hai detto tu, quelle linee non proprio semplici. Questo è anche il mio modo di lavorare, mi è capitato di dirlo anche in altre interviste: io non scrivo cinquecento pezzi per fare un album, a me piace fare dieci pezzi e poi lavorarci sopra andando a rifinire, a cesellare, sentirli crescere e metterli in una grande esperienza come quella di fare una tracklist.
È una battaglia trovare il giro di basso perfetto? Lo è stato in questo disco e lo è in generale?
È una battaglia fermarsi e capire che quello è il giro giusto. È una guerra con se stessi capire che “…ok è quello lì, basta“, perché se no tutte le volte è un continuo andare avanti, fare, rifare. Io poi parto da lì, parto sempre dal giro di basso.
Mi affascina molto l’idea di parlare con un musicista che mette al centro di tutto il basso. Allora ti chiedo, qual’è la bassline perfetta? Tu ci sei già arrivato?
Allora, ti faccio degli esempi, mi hai fatto ragionare (ride, NdI): se prendiamo il disco vecchio, i bassi del disco vecchio dal vivo non riesco a suonarli. Tutte le canzoni, anche le più famose come “Pastafari”, non hanno più lo stesso giro di basso. La cosa che fa ridere è che quella è l’unica cosa che ho cambiato di quelle tracce. Secondo me è super interessante il processo di cambiamento che ho pensato per i pezzi del primo album. Questo per dire che nel disco vecchio non credo di aver trovato le bassline perfette, come dici tu. In questo nuovo, prendi ad esempio “Bologna Balearica”: quel pezzo non può avere un altro giro, non credo lo cambierò mai. Lì, per come la vedo io, la bassline è perfetta.
Qual è il trucco per non farsi prendere la mano in live e cominciare a jammare sulle proprie canzoni, immagino che sia la tendenza principale di ogni bassista…
Il trucco è essere consci che c’è il rischio di diventare pesanti. È una critica che mi è stata anche rivolta con le dovute ragioni. Cerco sempre di mettermi nei panni di chi va a un concerto di un bassista, chiedendomi cosa mi piacerebbe di più sentire: un’ora di deliri o tre minuti fatti bene? Certo ci sono momenti in cui cerco di limitarmi ed altri dove invece lascio molto spazio al mio divertimento: credo che alla gente piaccia anche vedere che mi diverto, che non c’è nulla di preparato.
Proprio sulla parola divertimento, volevo invitarti a questa mia riflessione: nel momento in cui ascolto Ghetto Falsetto con il piglio da recensore mi sono trovato a pensare “Ok non è un capolavoro però cazzo quanto mi diverte”. Questo pensiero ovviamente, mi ha portato a sentire molte volte “Ghetto Falsetto” anche per piacere personale. In alcuni momenti non credi conti di più fare un disco molto divertente che dia buon umore piuttosto che il capolavoro che magari ascoltano in venti?
Sono d’accordo, perché il capolavoro è una cosa che può venire o non venire, mentre il disco sono sei mesi della mia vita che magari non mi hanno dato un capolavoro ma mi hanno dato l’espressione reale di questi sei mesi: non saranno stati perfetti ma a me vanno bene così.
Io però pensavo però più alla gratificazione personale nel sentirsi dire “Il tuo disco mi fa divertire” piuttosto che leggere che è un capolavoro. Ti porto un esempio: in questo momento il mio disco dell’anno è quello degli Young Fathers, però in questi giorni tolto il fatto che dovessi preparare questa intervista, mi sono trovato molto di più a sentire questo tuo disco in confronto a “Cocoa Sugar”. Ci sono magari dei momenti all’interno di una giornata in cui c’è bisogno di spensieratezza, di una corsa con le cuffie, giornate in cui suona meglio “Ghetto Falsetto” piuttosto che “Cocoa Sugar”.
Adesso ho capito quello che intendevi (ride, NdI). È gratificante, è vero, lo diventa ancora di più nel momento in cui riesci, come hai appena fatto tu, a contestualizzare perfettamente il mio disco. Io ho fatto questo album per creare in chiunque lo ascolti quel momento in cui si ha la necessità di ascoltare qualcosa di leggero, che non faccia per forza pensare a qualcosa di così profondo, come può essere ad esempio “Cocoa Sugar” che è un grandissimo disco.
Perché c’è bisogno di leggerezza a un certo punto…
C’è una grande mancanza di musica felice, allegra, soprattutto contestualizzata a questo periodo storico. Mi sembra che sia tutto molto più tendente al triste o al problematico.
Ai tempi moderni…
Anche! Devo dire pero che io per tempi moderni intendo più la mancanza di percepire un contenuto. Comunque mi fa davvero piacere tu abbia percepito l’idea di questo album e mi fa piacere che venga colta questa cosa per cui se hai bisogno di spensieratezza metti questo album.
Direi che se il disco è fatto con questa idea, la missione può dirsi perfettamente completata. Chi hai campionato in “Urlo Libero”?
Un vocalist del Papeete, lì cercavo una cosa proprio stupida che esprimesse un mondo che io poi adoro.
Tu lo sai che hai nominato il Papeete e rischi il linciaggio mediatico in pubblica piazza con titolo: “Bruno Bellissimo ama il Papeete“.
Ma dai, è troppo bello..
“Su le mani Papeete” l’abbiamo detto tutti dai…
Ma infatti! Poi quella canzone nasce come parodia al classico tormentone latino tipo “Despacito”. Io sono molto vicino al mondo latino, la mia ragazza è sudamericana e mi ha portato dentro questo mondo. Lei non è una che ascolta, non so, il Barrio Lindo della situazione o queste cose qua, sente proprio le cose mainstream. Quello che arriva in Italia dal lato mainstream è un pochino il male di questo genere, per cui mi piaceva molto l’idea di scimmiottare il tormentone latino o in spagnolo che ogni anno arriva puntualmente a devastare l’estate.
Ultima domanda: ti fai remixare da qualcuno? Hai un sogno nel cassetto circa il nome di qualche producer che possa andare a remixare il tuo nuovo album? Sei libero di sparare alto, eh.
Marcus Marr, ovviamente e poi gli Studio, te li ricordi? Quelli di Yearbook1 e 2, ah anche Fatima Yamaha.
(Foto di Erminando Aliaj)