Esce oggi, finalmente, “Singularity”, l’attesissima raccolta di un Jon Hopkins che ha scelto di giocare, sfidandola, con la pazienza dei suoi fan. Un buon disco, non ci sono dubbi, un album diverso dai precedenti nonostante sia tangibile il filo conduttore che lo lega a “Immunity”.
Qualche tempo fa abbiamo avuto il piacere di incontrare l’artista londinese in un lussuoso hotel nel centro di Milano, durante una giornata dedicata alle interviste di rito per uno degli album più chiacchierati degli ultimi mesi. Ci siamo confrontati con lui in lungo e in largo, cercando di entrare il più possibile dentro al nuovo disco, lasciando libero Jon di esplodere ogni suo pensiero: meditazione, melodia e su come inizi tutto con una singola nota. In attesa di sentirlo il 30 giugno, a Milano, ad Astro Festival, nell’anteprima italiana del suo nuovo live set.
È un piacere riuscire finalmente a intervistarti. L’ultima volta che ti ho visto suonare era al Nuits Sonores di Lione ed è stato bellissimo.
Sì è stato molto divertente, è bello suonare di giorno.
So che ti dedichi molto alla meditazione. Anche io, nel mio piccolo, provo a prendermi del tempo per la mente, ma lo faccio camminando e ascoltando musica. Spesso mi capita di farlo con “Immunity” in cuffia. Hai mai pensato che la tua musica potesse adattarsi anche a questo?
È bello sentirtelo dire. Sapere che la mia musica può in un certo senso aiutare qualcuno mi fa molto piacere. Mi sorprende sapere che succeda con quel disco, ci sono tracce pesanti lì dentro, ma è grandioso che le persone possano prendere i tuoi pezzi e utilizzarli in mille modi diversi. Io personalmente medito senza musica, pratico la meditazione Mantra. Per me è proprio il momento in cui accantono la musica. Devo dire che ci sono alcune tracce in “Singularity”, specie verso la fine, che io stesso sento come una specie di traduzione delle esperienze che vivo quando medito.
A me sembra proprio che la tua musica sia dedicata alla mente di chi la ascolta, molto più che al corpo. Il che può sembrare paradossale perché in realtà la gente balla sui tuoi pezzi. Forse è solo una mia percezione e ognuno può sentirci qualcosa di diverso ma io in “Singularity” sento molta irrequietezza. Tu, in realtà, quali sentimenti ci hai messo dentro?
In “Singularity” c’è tutta una serie di sentimenti. All’inizio è quasi oppressivo, direi addirittura aggressivo. La title-track è molto potente e molto scura. Poi il disco continua e si sviluppa in un processo quasi purificatorio, tanto che verso la fine diventa l’esatto opposto. Come se gli accordi di piano e l’atmosfera meditativa ripulissero il cielo e la mente. Cielo limpido, pensieri limpidi. Forse è proprio la traduzione della mia esperienza personale mentre lavoravo al disco: all’inizio è stata dura mentre alla fine tutto fluiva in maniera semplice e naturale, non dovevo più sforzarmi perché la musica veniva da sé. Mi sono goduto appieno questa esperienza, che si è riflessa nelle tracce.
Questa è proprio una dinamica che mi caratterizza molto, è successo con “Immunity” e anche con “Insides”. Questo è ciò che hanno in comune i miei lavori. “Singularity” è un lavoro che io considero “completo”, specie se lo si ascolta dall’inizio alla fine, cosa che fanno in pochi ma non ha importanza. Il modo in cui ognuno si gode le tracce più pesanti secondo me influenza tantissimo quello in cui ognuno si gode le tracce più tranquille e viceversa, e questo è un gioco di contrasti su cui mi piace sempre lavorare. Capisci la complessità e la completezza di questo mio lavoro solo quando percepisci la polarità che lo caratterizza.
Si può dire che “Singularity” sia un concept album?
Secondo me sì. Penso lo si possa dire anche di “Immunity” e di “Insides” ma di questo ancora di più. Avevo il concept nella mia testa dal 2005, avevo anche il titolo in mente. Sapevo che tutto sarebbe cominciato da una singola nota, per poi crescere, variare, girare in tondo, tornare indietro diventando tutto l’opposto di ciò che era in partenza.
Sembra un disco fatto più per gli spazi aperti che per essere ascoltato a casa. Sbaglio?
Questa è una sensazione strettamente personale, credo. Sicuramente ascoltarlo con buone casse può dare grandi soddisfazioni, ma sta ad ognuno decidere come e dove ascoltarlo.
Nei tuoi lavori le parti cantate sono un vera rarità. Questa cosa rende il tuo lavoro ancora meno terreno e più celestiale.
Dici a parte il coro di quindici voci nella quinta traccia? [ride, ndl]. Comunque sì, hai ragione, molta della mia ispirazione viene dalla natura, da quei momenti in cui sopra di me ho solo il cielo, in cui mi concentro solo sul delicato rapporto che ho con qualsiasi cosa che si possa definire come “cosmica”.
Esiste una connessione tra “Immunity” e “Singularity”?
Il mio approccio al lavoro è molto libero sotto questo punto di vista. Non ho la coscienza di ciò che sto facendo in termini di rapporto con i miei lavori precedenti, e non mi interessa. Penso sempre alla mossa successiva, mai a quella precedente, quindi sicuramente non esiste nessuna connessione voluta o consapevole. Non ho mai in mente un quadro generale del mio lavoro, né tantomeno esiste un percorso pianificato. Certo è che i miei lavori vengono tutti dalla stessa mente, la mia, quindi è normale che vi siano delle idee in comune. Quando ascolto il mio primo disco, del 2001, ci sento alcune cose, non troppe a dirla tutta, che mi porto dietro ancora oggi e sulle quali ancora lavoro.
Poi magari alcune tracce di “Singularity” sono state scritte prima; “Everything Connected”, per esempio, l’ho scritta mentre ero in tour per “Immunity” quindi è normale che ci sia dentro ancora molta dell’ispirazione che avevo per quel disco. È quella traccia di metà disco che funge da picco, un’idea che mi piace tantissimo: dopo mezz’ora di attesa arriva questa specie di drop ed è la svolta del disco, il giro di boa. Non vedo l’ora di suonarla live. Sarà divertente.
Qual’è la musica che ti somiglia di più?
Tutta quella che faccio, per questo continuo a lavorare su questo doppio fronte, su questa polarità. Non potrei mai essere felice facendo solo tracce tranquille o solo quelle più pesanti. Le une hanno senso solo quando ci sono le altre e viceversa. Ho bisogno della luce come del buio, vivo in un gioco di luci e ombre. Quando suono dal vivo amo poter scegliere tutte le tracce che amo, mettere le une vicino alle altre è la cosa più bella.
La mia preferita del disco è “Feel First Life”, con questo coro quasi ecclesiastico. Me la immagino suonata a tarda notte…la sentiremo nel live?
Non so se possa funzionare per ora, ma mi piacerebbe un giorno avere un coro sul palco. Ho sempre voluto lavorare con un coro, da quando ero un ragazzino. Non è mai stato possibile, è difficile mettere insieme un coro di quindici voci da registrare finché le cose non vanno davvero molto bene. Finalmente ce l’ho fatta, è un sogno che si realizza. Penso che un coro sia una cosa da gestire con molta cautela perché se nel bel mezzo di uno show arriva un coro dal nulla diventerebbe ridicolo. Penso che debba apparire gradualmente dal sottofondo, se ascolti bene il pezzo senti il piano, il drone, poi appare un coro molto filtrato che si apre gradualmente. Non capisci da subito che si tratta di un coro. Non è una cosa puoi tirar fuori dalla trama del pezzo così, all’improvviso. Solo alla fine si dissipano tutti i filtri e hai queste voci. Sono stato parecchio tempo in un grosso studio con tutti questi cantanti, per ascoltarli, per capire, ed è stato bellissimo, mi ha reso felice.
È una canzone triste?
No, non per me. Posso dirti da dove arriva il titolo. Ho un amico che a volte mi aiuta con i titoli dei miei pezzi. È capitato che ne parlasse con sua moglie, per questa traccia, e lei ha detto che le ha fatto ripensare alla prima volta che ha sentito il bimbo che aveva in grembo tirare un bel calcio. Quindi non è affatto triste, il titolo viene da lì. È molto forte, non triste.
È vero che in questo disco hai lasciato più spazio per la melodia? Penso a pezzi come “Luminous Beings”…
La melodia è molto importante per me, ma lo sono anche tutti gli altri elementi. Ho bisogno tanto del basso quanto del suono costruito ma sì, la melodia viene per prima. È quella che fluisce in modo naturale prima di tutte le altre cose. Ricordo che mentre lavoravo a “Luminous Beings” venivano spontanee tutte le note, era come una danza magica e mi sentivo come se mi fossi drogato. Ero talmente felice, mi sembrava tutto così attraente, così ben riuscito, che forse la considero una delle tracce più personali. È talmente lunga che non avrebbe mai potuto essere un singolo ma è decisamente tra quelle più intime, più sentite. Lì la melodia è la grande protagonista.
Che reazione ti aspetti da parte del pubblico quando uscirà “Singularity”? Pensi che verrà percepito come un lavoro completamente nuovo o che verrà interpretato come la naturale evoluzione della tua musica?
Cerco di non pensarci in realtà, perché non credo mi sia di aiuto preoccuparmi del pensiero altrui. Quando scrivo mi limito a seguire esclusivamente il mio istinto. Penso che ci siano delle piccole somiglianze tra questo disco e qualche lavoro precedente ma più che altro ci sono tante cose che non si sono mai sentite prima. “Feel First Life” per esempio, è qualcosa di totalmente nuovo, non ho mai fatto nulla del genere in precedenza. E anche la traccia successiva, “C O S M”, non ha nulla in comune con cose fatte prima. Quindi, per quanto si possa sentire qualche dettaglio ricorrente, che rende “Singularity” inconfondibilmente mio, di certo non si può dire che io mi sia creato una qualche zona di comfort, né ora né prima, con “Immunity” o con “Insides”. Tutti rappresentano un passo successivo, non mi sono mai adagiato.
Il mio approccio alla musica, che spesso passa attraverso la scrittura, tra recensioni e classifiche, mi forza a chiedermi per ogni artista quale sia il suo disco migliore. Posso chiedere direttamente a te quale sia il migliore tra “Immunity” e “Singularity”?
Questo ultimo, decisamente. È più complicato, più denso, ci vogliono più ascolti per sentire tutto quello che c’è dentro, perché è pienissimo di cose. È più profondo, ha una storia più complessa, e lo sento, in genere, come un lavoro più ricco. Gli anni che ci ho passato sopra sono stati non sempre facili, ma alla fine tutto è andato al suo posto ed io sono felice come mai prima.