Sì, davvero: dal jazz bisogna imparare tantissimo. Mai come in questa edizione del Torino Jazz Festival è apparso chiaro. Vale per chi organizza festival, per chi ne costruisce le line up, per chi suona. Vale anche per le istituzioni, per capire come devono (o non devono) intervenire. E’ giusto partire da questo punto, da quest’ultimo punto, perché la storia del Torino Jazz Festival nasce in maniera abbastanza contestata. O meglio: tanto grandiosa, quanto contestata. Era il 2012 infatti quando l’assessore torinese alla cultura dell’epoca, Maurizio Braccialarghe, un lungo passato in Rai, approfittava (lecitamente) della sua posizione per stanziare un finanziamento di quelli, diciamo così, dei bei tempi per metter su un festival nella propria città che avesse per protagonista la musica da lui tanto amata. Il risultato? Ecco, un po’ fantozziano, un po’ effetto Coppa Cobram. Fu sbagliato l’approccio. E il perché&come lo sintetizza benissimo una delle più corrosive ed incisive penne del giornalismo italiano da tempo a questa parte nonché figura crociale dell’informazione torinese, Gabriele Ferraris.
L’impressione infatti fu quella di una operazione sovradimensionata, imposta dall’alto: al di là dell’entità dei finanziamenti (enorme, in un periodo di vacche grasse), era proprio l’idea un po’ gramsciana un po’ ingombrante che un festival jazz dovesse essere imposto in modo quasi nordcoreano all’intera città, per farlo funzionare, che stonava. Anche perché implicava ammazzare altre esperienze che avevano dato lustro alla città (Traffic: sì, il festival che portò i Daft Punk con la piramide e Aphex e mille altre cose pazzesche ancora). Vero: Torino ha sempre avuto una grande tradizione nel jazz, e ancora oggi è una fucina di talenti con pochi altri paragoni. Vero: il jazz è una musica bellissima. Vero: sa anche essere una musica popolare, quando non è ostaggio di Michele, del suo caminetto, del suo Glen Grant. Ma uno sbilanciamento così netto di risorse pubbliche e di indirizzi politico-artistici fece storcere il naso a molti, e sembrò un capriccio di Braccialarghe avallato dall’allora sindaco Fassino. A rendere il tutto ancora più “pesante”, la scelta precisa di teneri molti eventi gratuitamente in piazza, nella piazza principale della città, gli eventi più grossi. L’intenzione magari era anche buona: consentire a tutti, anche ai più distratti, di approcciarsi al jazz e magari di iniziare ad apprezzarlo. Ok. L’impressione reale era pessima, però: l’establishment politico che “impone” i suoi gusti ai cittadini, con uno sfarzo fuori luogo.
Cambiato l’indirizzo politico di Torino, dopo le ultime elezioni, era guarda un po’ facile sparare contro il Torino Jazz Festival, come un monumento allo spreco della giunta precedente. L’unica vera vittima, in questa guerra, sarebbe stata la musica. E lo è stata, l’anno scorso, col Torino Jazz Festival ridimensionato pesantemente e accorpato, contro natura, al Salone Del Libro (…con quello sgradevole sapore di “Vabbé, uniamo le cose da intellettuali, tanto son quelle robe lì, razionalizziamo”: ovviamente è andata male, perché la cultura se la tratti con questo piglio da ragioniere o da ristrutturatore d’azienda ti si rivolta contro, e giustamente). Il rischio insomma era quello di ricordare il Torino Jazz Festival come simbolo di una stagione politica; simbolo che sì, aveva portato grandi artisti a Torino (e generato anche operazioni molto belle, come la sua parte “off”, il Fringe In The Box, che flirtò molto e bene con l’elettronica), ma che prima di tutto era un’escrescenza di vanagloria politica che era meglio rimuovere, assolutamente rimuovere ed accantonare. Abbattere.
Poi però è successa una cosa. E’ stata fatta, per una volta, una scelta giusta e ragionata. Una scelta molto semplice, molto logica: e si sa che in Italia le scelte logiche non sono mai amate, in favore dei machiavellismi di ‘sto cazzo o anche solo di bizantinismi formali per cui qua si eccelle e che sono spesso la vera palla al piede di questo paese. Ovvero: a fare il direttore artistico di un rinato Torino Jazz Festival (fortunatamente scorporato dal Salone del Libro) è stato chiamato un musicista jazz. Uno bravo. Non conosciutissimo internazionalmente. Ma ben radicato in città. Rispettato da tutti i colleghi. Che ha dimostrato, nella sua carriera, di avere sempre musicalmente una mentalità molto aperta, moderna e curiosa (qualità fondamentale); oltre ad essere una persona educata, rispettosa e umile, non uno che si crede un fenomeno (altra qualità fondamentale, non sempre scontata nei musicisti). Quando è venuto fuori il nome di Giorgio Li Calzi, nessuno ha avuto nulla da ridire. Certo, era stata una chiamata diretta da parte dell’amministrazione; certo, non era stato fatto un regolare bando; va bene. Ma accidenti, dovremmo renderci conto che ogni tanto esistono le persone giuste al posto giusto. E non sempre è una questione di “Sì, sarà anche bravo, ma di sicuro era raccomandato”. No: ogni tanto è come nelle aziende sane. Ovvero, devi portare avanti un’impresa, chiami quelle che secondo te sono le persone più qualificate a farlo. Del resto è una tua responsabilità, da amministratore. Se fai le scelte giuste, se ne giovano tutti. Tu per primo. Un filo logico talmente semplice che in Italia tendiamo a dimenticarcelo, rimpiazzando il tutto con dietrologie e complottismi; per combattere i quali alla fine – toh – si affidano le responsabilità proprio ai più “imbazzini”, dietrologhi e complottisti, in una concezione distorta e gaglioffa di omeopatia. Bella ironia della sorte.
Li Calzi, col prezioso aiuto del vicedirettore artistico Diego Borotti, ha fatto prima di tutto una precisa scelta di campo: i concerti principali non saranno gratis. Basta “portare la cultura al popolo” dall’alto, con la forza del “gratis” e del “in piazza”. Biglietti bassi (compresi tra i 5 e i 12 euro), ma comunque biglietti. Chi vuole venire a vedere i concerti, deve pagare. Deve mostrarsi interessato. Deve sceglierlo, di esserci. Il contributo economico delle istituzioni serve (anche) a tenere calmierato il prezzo dei biglietti, ma non a cadere nella logica – a lungo andare un po’ demagogica più ancora che gramsciana – del “tutto gratuito”: una logica che ai tempi di Traffic poteva avere il suo perché (pop, rock, indie, elettronica hanno in Italia un percepito diverso dal jazz, purtroppo: sono ancora viste come cose aliene e da “giovinastri”), il jazz per sua fortuna o sua malgrado è visto come una musica rispettabile, educata e “istituzionale”, quindi nel suo caso un endorsement così forte da parte dell’amministrazione comunale con la città colonizzata da eventi gratuiti, beh, si faceva davvero fardello, si faceva paternalismo.
Però ecco, proseguendo: sia che si tratti di musica per, ahem, giovanistri e drogati (come l’elettronica di cui di solito si tratta qui su Soundwall), sia che si tratti di jazz, sia che si tratti di qualsiasi genere musicale, quanto fatto da Li Calzi a livello di direzione artistica andrebbe portato ad esempio. Primo: ha evitato la corsa ai soliti, grandi nomi. Ha evitato poi l’effetto-circo chiamando la qualunque purché sia importante, un effetto che per ora nei festival di elettronica (ancora) non c’è ma che nei festival jazz è sempre più una sinistra ricorrenza (vedi Umbria Jazz e Montreaux Jazz Festival, due storiche e potentissime realtà, dove ormai chiamano anche i Metallica e i Kraftwerk, e non è una battuta). Soprattutto, nello scegliere ha avuto un piglio da curatore con la mente rivolta da un lato ai propri gusti, dall’altro alla voglia (e alla gioia) di rappresentare mondi diversi. Non è che se devi “parlare a tutti” devi per forza abbassare il livello, da un lato; non è che se ami una musica devi rappresentarne per forza solo un unico lato, dall’altro.
C’è stato di tutto, dal 23 al 30 aprile a Torino. Noi abbiamo avuto modo di vedere solo i tre giorni finali (ma sull’immarcescibile Archie Shepp, ad esempio, ci sono arrivati ottimi feedback). Le emozioni che ci portiamo dietro: un concerto assolutamente pazzesco di Terje Rypdal, che con una band di qualità estrema al seguito (tra gli altri Palle Mikkelborg alla tromba e il raffinatissimo Ståle Storløkken alla tastiere, già coi Supersilent e collaboratore estemporaneo pure dei Motorpsycho), che ha portato il pubblico letteralmente in un’altra dimensione tirando fuori il meglio della sua musica, “asciugandola” di certi orpelli un po’ zuccherosi in cui ogni tanto negli anni è caduta e arrivando invece al sublime e alla perfezione, tra jazz “artico”, ambient e prog rock; un concerto meno bello ma bello dell’altro norvegese in campo, il grande Nils Petter Molvær, che resta un fuoriclasse assoluto nel suo jazz futurista e contaminato ma che in questa svolta trentemølleriana (venatura di slide guitar e western rock…) perde qualcosa rispetto al vecchio assetto delle sue band, quelle in in cui svettava la chitarra urticante e visionaria di Eivind Aarset. Ci è piaciuta molto anche Melanie De Biasio, a proposito di jazz contaminato (qui col songwriting e con l’elettroncia), non sfavillante e scoppiettante ma molto calibrata e di gran classe, con un live che è andato in intelligente, sottile crescendo. Sono andati benissimo gli esperimenti di contaminazione tra stelle straniere e progetti a trazione italiana: l’hammondista Alberto Gurrisi si è giovato tantissimo ad avere nel suo trio un fuoriclasse della batteria come Adam Nussbaum, il Riccardo Ruggieri Quartet si è arricchito tanto con la presenza di un sempreverde Gary Bartz al sassofono, quasi ottant’anni e non sentirli, bravissimo a mantenere i “colori” della scrittura molto ariosa di Ruggieri. Benissimo anche l’Octet di Franco D’Andrea (sì, quello con Dj Rocca in formazione, ne parlavamo qui riguardo al bellissimo “Intervals”), partito un po’ imbastito ma che ben presto ha portato al massimo la capacità di lavorare su un jazz (in parte) tradizionale nei suoni ma modernissimo nell’impostazione, fatta di equilibri e tensioni in continuo divenire senza mai cadere nell’onanismo ma con sempre una grande competenza e chiarezza di idee.
Qualcosa ci è anche piaciuto un po’ di meno: una delusione Magic Malik, prolisso, petulante e prevedibile nel suo power trio di banale matrice fusion; meno magico del previsto il “Turin Project Reloaded”, concerto eredità dell’edizione del 2012 (doveva appunto tenersi in Piazza Castello, fu interrotto dopo un brano per un fortunale) riproposto in memoria proprio di Maurizio Braccialarghe, purtroppo scomparso a causa di un male incurabile nel frattempo: sì, l’emozione di vedere Carla Bley è tanta, anche a 82 anni una delle donne più affascinanti (e di piglio) del mondo, un genio del jazz, ma le sue partiture oggi per quanto raffinate suonano leggermente datate e l’esecuzione della Torino Jazz Orchestra è stata standard, nulla più; Fred Hersch, in piano solo, meno incisivo di quello che potrebbe e dovrebbe. Pollice su per un esperimento che poteva essere ad alto rischio: immergere la tromba serissima e ad alto tasso di virtuosismo di Fabrizio Bosso nel caravanserraglio comico della Banda Osiris, produzione originale del Torino Jazz Festival. Ne è nato un “concerto biografico teatrante” che non ha sacrificato la buona musica jazz in favore delle gag, e non ha sacrificato le gag in favore della buona musica jazz.
In questi tre giorni a Torino poi non abbiamo visto molte cose: ad esempio, tutti i concerti notturni (dalle 23:30 in poi) che hanno invaso i locali cittadini, e siamo particolarmente dispiaciuti di esserci persi Jason Lindner, uno dei jazzisti reclutati da David Bowie nel suo “Blackstar”). Ecco, questo è un punto importante, la cosa buona&giusta che è stata salvaguardata del “vecchio” Torino Jazz Festival: non limitarsi agli eventi-vetrina ma lavorare su tutto il territorio. Quest’anno probabilmente è stato fatto ancora meglio. Così come è stata fatta una cosa meravigliosa: con Jazz Blitz, spin off della programmazione ufficiale, è stato portato il jazz anche nelle carceri, negli ospedali, nella case di riposo. Una miriade di appuntamenti in luoghi troppo spesso dimenticati. Ecco, questa è un’idea che un qualsiasi festival di musica elettronica (e non solo elettronica) dovrebbe portare con sé.
Tutto questo cosa ha figliato? Ha figliato un Torino Jazz Festival con 22.000 presenze complessive dichiarate a occhio proprio reali, non numerati sparati alle stelle. Ha figliato un Torino Jazz Festival dove, al di là di ogni aspettativa, tutti gli eventi a pagamento sono andati sold out, con file di decine di metri di persone speranzose di poter recuperare biglietti da qualche accredito non recuperato. Sold out in location non certo piccole: le magnifiche OGR contenevano qualcosa come 1300 persone, il Conservatorio comunque sulle 400, più o meno stessa capienza del Ridotto del Regio. Insomma, un successo enorme, gigantesco. Tanto che ci si sta già chiedendo come fare l’anno prossimo, per venire incontro a questa ondata di interesse gigantesca ed inaspettata (Li Calzi sta chiedendo però un’altra cosa importante: far “vivere” il Torino Jazz Festival anche durante l’anno, indirizzando parte delle risorse a quegli “avamposti culturali” che portano avanti la fiaccola del jazz sempre e comunque nelle loro programmazione annuale). Un successo nato, lo ripetiamo, senza sparare grandi nomi mediatici, senza pavesare la città in modo quasi inquietante con gonfaloni e striscioni pubblicitari, senza ansie di gigantismo, senza la retorica de “Il jazz è l’unica musica davvero civile”. Un successo nato evidentemente perché comunque gli anni del gigantismo, pur tra mille errori e sprechi, qualcosa hanno lasciato e qualcosa hanno coltivato nel tessuto cittadino non dei super-esperti, ma nato soprattutto perché le scelte artistiche hanno convinto e hanno saputo parlare al cuore degli appassionati, che a loro volta sono riusciti a coinvolgere col passaparola amici e curiosi: perché solo un appassionato sa riconoscere quanto era ben calibrata la programmazione 2018, e solo aver coinvolto persone col passaparola spiega come sia possibile che artisti come Rypdal, Hersch o Molvær facciano sold out (o lo stessa De Biasio). Doppio punto da tenere in considerazione.
Vincere, convincere, rinunciare agli sprechi e ai gigantismi, tanto più se pilotati dall’alto, affidarsi alla competenza e all’umanità: la lezione del Torino Jazz Festival 2018 può essere davvero utile per tutti, insomma. Speriamo che ora si sia in grado di mantenerla, migliorarle, farla crescere in maniera “eco-socio-sostenibile” e non, come spesso accade dalle nostre parti, rovinarla perché una realtà di successo nel mondo della cultura scatena troppo spesso invidie o appetiti (o entrambe le cose assieme). Un’altra cosa, un’ultima cosa: Torino la frequentiamo da anni per Movement e Club To Club e, francamente, ci è parso davvero triste non scorgere quasi nessuna faccia nota – di quelle che sai che non mancano mai agli eventi di cui sopra – anche al Torino Jazz Festival. Jazz ed elettronica hanno una matrice bella pesante in comune: la cultura black. Ma anche non ce l’avessero, il jazz ha sempre guardato con curiosità all’elettronica, l’elettronica invece ha sempre teso più a riempirsi di bocca con la parola “jazz” che a studiarla e ad approcciarla realmente (grande errore: la ricchezza armonica, il gusto melodico, la capacità di “guardare avanti” del jazz dovrebbe essere d’obbligo se ci si approccia alla produzione di musica elettronica). Se le cose vanno avanti così, poi non lamentiamoci che “c’è solo Kamasi…”. E se abbiamo scoperto il jazz tramite Kamasi Washington e ci siamo divertiti un sacco nulla di male, ma ricordiamoci che lui è solo una goccia nell’oceano. Nemmeno la più preziosa. Un ultimo consiglio en passant al Torino Jazz Festival: occhio al lavoro di una realtà di frontiera come quella del festival Jazz is Dead. Nel 2019 sarebbe bello vedere una forma di collaborazione più stretta. Lo scrivi, e davvero inizi a chiederti come sia possibile che Torino sia talmente tanto piena di cose interessanti… ma su questo ci torneremo, ci torneremo sicuramente.