Qualche tempo ci è stato prospettata la possibilità di scegliere, nel mazzo degli artisti rappresentati da Media Nanny, una delle principali agenzie di PR nel campo d’Europa e non solo, qualcuno da intervistare. Deciso fin da subito di tralasciare al momento uno dei loro assistiti più momentaneamente famosi ma non per questo fra i per ora più significativi musicalmente (un cinquantenne brizzolato conosciuto per i balletti su Instragram, ci siamo capiti no?), la scelta è caduta decisa su Joris Voorn. Una vecchia conoscenza, per qualsiasi amante del giro tech-house; visto negli anni anche in posti come Dissonanze; presente oggi dappertutto, vedi ad esempio alla voce Ants, tanto per prepararci all’estate balearica in arrivo; ma soprattutto, un artista che senza particolari effetti speciali o senza hit radiofoniche, ma nemmeno senza traverstirsi da “soldato dell’underground”, è riuscito ad avere una carriera duratura ed anche insolitamente trasversale. Una trasversalità rischiosa: quella tra, diciamo, “underground” e contesti più magniloquenti, commerciali (tant’è che è uno degli artisti tech-house più conosciuti fra gli appassionati di EDM…). Ma, come spesso capita agli olandesi, Joris Voorn è uno molto lucido, che non fa giri di parole e va dritto al punto. Ne è nata una chiacchierata piuttosto interessante.
Ok, siamo qua, a fare promozione, hai uno schedule fittissimo e abbiamo i minuti contati, per farci una chiacchierata. Non posso non chiederti: ma ti diverti ancora, ad affrontare tutto questo? E intendo: tutto questo che va al di là della musica e dell’esibirti come dj…
La risposta è sì, assolutamente è sì. Per un motivo ben preciso: continuo ad avere bene in testa quanto sia importante non solo far arrivare la mia musica, ma anche far arrivare il giusto messaggio su di essa: da dove nasce, quali sono le intenzioni che vi stanno dietro. E’ un aspetto che non va mai sottovalutato.
E’ difficile comunicare il messaggio nella maniera più corretta possibile?
Dipende. Ma dipende da te. Da te giornalista. Io quello che dico lo so e sono d’accordo con me… (ride, NdI) Sta a voi dei media riportare le cose in modo corretto, no?
Di solito, lo facciamo?
Vuoi la risposta più onesta? Eccola: non lo so. Perché, te lo confesso, tendenzialmente non leggo quello che viene scritto su di me. Lo leggono le ragazze che mi seguono come PR ed ufficio stampa, loro sono bravissime e sanno controllare le cose nel modo giusto. A livello di impressione ti posso però dire che i giornalisti con cui parlo hanno in linea di massima un aspetto molto preparato e professionale, quindi non mi posso proprio lamentare. E non lo sto dicendo perché ti ho qua davanti!
C’è un motivo ben preciso per cui ho assolutamente voluto farmi una chiacchierata con te: sei atipico, come posizionamento, nel mercato odierno. Nasci come dj/producer tech-house rigoroso, di quelli che gli americani o i seguaci dell’EDM chiamerebbero “underground”, ma appunto hai una robusta popolarità anche nei contesti più statunitensi e diciamo così commerciali. Almeno, questa è la mia impressione. Impressione corretta?
Credo sia corretta, sotto certi punti di vista. Il punto è: cosa significa “underground”, oggi? Dove sta questo underground?
Che è la domanda successiva che ti avrei fatto.
Ed è una buona domanda. Una cosa è certa: io non appartengo alla scena EDM. Un’altra cosa è certa: le tracce che suono o che produco, beh, non le senti in radio. Metti insieme questi due fattori, quel che ne viene fuori è che avrei tutte le qualità di base per essere definito “underground”. Ma so che farlo sarebbe una forzatura. E so anche che la musica che suono e che faccio ha una ricerca della “accessibilità” che, in qualche modo, mi rende fuori luogo per alcune situazioni un po’ più rigorose ed intransigenti. Però riflettiamoci sopra: il problema è che oggi le persone hanno evidentemente questa sentitissima necessità di infilarti in una categoria, in un contesto ben preciso; nel momento in cui non ci riescono, vanno in confusione. O quasi si indispettiscono, in qualche caso. Sì, suono nei grandi club. Sì, suono nei grandi festival. Sì, suono ad Ibiza. Però sì, suono anche in piccoli club dalle radici e dal presente techno molto importante. Suono al Fabric. Suono ad Awakenings. Insomma: cosa sono? Per ma la cosa più interessante è invece proprio cercare di essere in situazioni differenti, mantenendo un personalissimo equilibrio. Anche perché sono convinto che per un artista il primo obiettivo dovrebbe sempre essere: far apprezzare la propria musica a più persona possibili. E per “più persone possibili” non intendo la quantità, attenzione, ma la qualità e la varietà. Questo è un concetto per me molto importante.
Come è però avere a che fare col mercato americano?
E’ in effetti abbastanza strano. Piuttosto differente rispetto all’Europa. C’è un paradosso: le città sono mediamente grandi, più grandi rispetto all’Europa, ma la cerchia di appassionati per il tipo di musica che faccio io – e che in Europa funziona bene – lì è piuttosto piccola. Ma quei non tanti che ci sono, proprio per il fatto di essere in pochi e di saperlo, sono davvero appassionati.
Ma è una scena, quella americana degli appassionati della techno e house che in Europa sono ancora egemoni nella dance, che conosce le radici o meno? Perché anche se sono stati gli americani ad inventarle, certe cose, è cosa risaputa che la vera valorizzazione è arrivata e continua ad arrivare dall’Europa…
Non lo so. Un po’ sì, un po’ credo che comunque nel loro essere profondamente appassionati rientri, almeno per qualcuno, la conoscenza delle radici. Ma per il ventenne medio americano appassionato di dance va detto che no, non c’è una conoscenza particolare delle origini di techno e house. Peccato, perché si tratta ormai di una storia lunga trent’anni, quindi anche ricca.
Non è un problema? Non trovi sia pericoloso questo essere sempre più lontani dalle radici?
Fino ad un certo punto. Penso a quando avevo vent’anni io: al rock mi sono approcciato sì attraverso band seminali come Pink Floyd e Doors, ok, ma anche e soprattutto attraverso le band che andavano per la maggiore in quel momento. Sono le stesse dinamiche che si ripetono oggi, per chi ha vent’anni. Nulla di nuovo.
(2004: gli inizi di Joris Voorn, la prima release su lunga durata)
Cosa è che invece ti ha portato ad appassionarti all’elettronica?
Non una traccia particolare, ma la grandezza di band come Underworld, Leftfield, Orbital, Chemical Brothers che sono state in grado di parlare ad un pubblico trasversale. Vedi, di nuovo ricorre la tendenza ad amare ciò che riesce ad “attraversare i confini”, ad uscire da regole e contesti prestabiliti. Sono tutte band al 100% elettroniche che però, per vari motivi, sono riuscite a parlare ad un pubblico molto più ampio.
Quand’è che ti sei reso conto che la musica non sarebbe stato più un hobby, per te, ma proprio la tua vita e il tuo lavoro?
Non subito. Considera che quando è uscita la prima release mai avrei pensato che avrei potuto vivere di musica. Ma già dopo la seconda o la terza è iniziata a diventare una prospettiva realistica. Anche perché vorrei sottolineare una cosa: quando io ho iniziato, c’erano molti meno dj, molti meno producer, molte meno release e quindi insomma, diciamolo, era molto più facile farsi conoscere rispetto ad oggi.
Quali erano i nomi-cardine, per te? Quelli più influenti a livello di ispirazione?
Uno che di sicuro lo è ancora adesso, Carl Craig. Poi chiaramente tutta la Detroit storica, includendo anche Jeff Mills. Fra gli inglesi, Ben Sims e anche Slam e tutto il giro di Soma, avevo una vera e propria venerazione per quella label. Ecco, se penso a quelle che erano le mie intenzioni “ideali”, volevo combinare il groove di Sims con le soluzioni armoniche e melodice di UR e Craig.
Che in effetti era un ibrido strano, per l’Olanda. Lo è ora, lo era in quegli anni.
Può essere ma, sinceramente, non me ne sono mai posto il problema. Guarda, proprio prima un tuo collega mi aveva chiesto “Che consiglio daresti ai giovani dj/producer?”. La risposta è facile: sii te stesso. Trovati la tua identità. Se ci riesci, in questo modo non hai la certezza che avrai successo ma di sicuro aumentano a dismisura le possibilità che questo accada. Perché se fai roba sì di qualità ma troppo chiaramente e linearmente ispirate a qualcuno o qualcosa, sarai sempre il numero due. E quando quel qualcuno o qualcosa non sarà più di moda, non per questo arriverà il tuo turno: anzi, “scomparirai” assieme a lui e anzi, sarai messo ancora peggio.
A questo punto, visto che siamo alla fase dei consigli, ti chiedo anche quali sono le regole da tenere a mente quando si vuole dare il via ad una propria serata.
Beh, prima di tutto devi essere abbastanza conosciuto da potertelo permettere. Non basta avere un concept figo, purtroppo. Non è sufficiente. Deve partire prima di tutto da te: il tuo nome deve essere abbastanza forte da poter vendere biglietti anche senza un concept preciso alle spalle. Il concept ti può e deve aiutare ad approfondire la cosa, renderla più interessante, appassionante, riconoscibile, popolare, ma se non c’è una buona base di partenza non verrà mai fuori nulla di veramente buono temo. Detto questo, e assodato questo, devi essere in grado di costruirti un buon team che sappia gestire bene tutte le mille problematiche esistono attorno alla serata e che tu umanamente non puoi controllare tutte. Infine, terza cosa: scegliere in modo consapevole il territorio su cui si vuole iniziare il tutto. Essere cioè sicuri di essere forti, conosciuti e presenti, di avere un following in grado di vendere fin da subito un buon quantitativo di biglietti per la serata.
Com’è l’italia, come posto dove andare a suonare?
Un gran bel posto. Perché il pubblico è veramente caldo, un po’ come in Spagna. C’è un’energia molto diversa rispetto all’Olanda, ad Amsterdam…
…la quale Amsterdam, tra ADE e altro, è però una delle capitali mondiali dell’elettronica.
Lo è senz’altro. E lo è sai perché? Perché qui c’è tutto: ogni genere ha un suo pubblico. Tante serate. Tanti club. Diversi fra loro. Però il pubblico è diverso: è più… “prudente”, ci mette un po’ ad accendersi, e anche quando si accende resta sempre entro determinati limiti. Hanno proprio un modo diverso di ascoltare e “sentire” la musica rispetto a voi. E ti dirò, credo che uno dei lati più affascinanti del mestiere che mi sono scelto sia proprio questo cosa di poter osservare in presa diretta come la musica possa essere fruita e vissuta in maniera diversa, a seconda del posto in cui stai.
I pubblici non si sono ancora omologati, insomma. Lì dove invece i generi spesso direi di sì.
I pubblici non si sono omologati. Lo stesso tipo di brano, suonato in un club del nord Europa o in un club della zona meditarrenea, dà vita ad effetti spesso decisamente diversi.
Chi è oggi il miglior dj?
Domanda difficile. Dovendo farti un nome, direi Kölsch. Anche le sue produzioni, vedi il suo ultimo album, sono interessanti: perché spostano i confini del genere musicale di partenza ed appartenenza, e perché cercano sempre di essere “comunicative”, con un uso intelligente di armonia e melodia. Non vuole “allontanare” le persone, vuole avvicinarle. Questo lo apprezzo molto.
Ma senti, tu quando produci quanti rischi ti prendi? Quanto invece cerchi di stare il più possibile nella tua personale “comfort zone” e in quella di chi ti ascolta e ti apprezza?
Qualche rischio credo che me lo prendo. Prendi “Nobody Knows”: l’ho intitolato così, l’album, perché lì dentro c’è molta musica che, immagino, non tutti avrebbero associato immediatamente a me. Io produco tantissima musica, e in tanta di essa ci sono i “rischi” di cui parli, solo che non tutta viene fatta uscire. Non è solo il produrre musica a far parte del mio mestiere, è anche il capire quand’è il momento giusto di farla uscire. Il timing è importante. Poi gli album sono un conto, i singoli invece va da sé è importante che funzionino, prima di qualsiasi altra cosa.