Ci sono molte cose negative rispetto al fatto di avere un corpo. Se questo non è così ovvio per chiunque da non richiedere alcun esempio, possiamo menzionare velocemente dolori, piaghe, odori, nausea, vecchiaia, gravità sepsi, goffaggine, malattia, limiti – ogni minimo scisma tra la nostra volontà fisica e le nostre attuali possibilità. C’è davvero chi dubita che abbiamo bisogno di aiuto per essere riconciliati? Devo proprio dirlo? In fin dei conti è il nostro corpo che muore…”
David Foster Wallace
Non so dire perché, ma dovendo scrivere di “American Dream”, il quarto album degli LCD Soundsystem – il primo pubblicato dopo il tanto eclatante scioglimento e l’altrettanto eclatante reunion dello scorso anno – mi è subito venuto in mente questo passo tratto da “Roger Federer as Religious Experience”, il saggio che David Foster Wallace aveva scritto per il New York Times nel 2006 come commento delle finali di Wimbledon dello stesso anno e dedicato interamente alla sua passione smodata per Roger Federer. In quell’articolo Wallace fa continui riferimenti a quelli che lui chiama “Momenti Federer”, i colpi sensazionali ma non solo, che sono fondamentali per spiegare la distanza enorme che intercorre tra il campione svizzero e tutti gli altri.
In un’epoca segnata da superstar che per forza di cose hanno dovuto fare dell’esteriorità un marchio di fabbrica, Federer rappresenta l’esatto opposto. Il talento puro. Il perfetto-atleta-imperfetto che si ritrova a essere volto da copertina pur non possedendo né la faccia giusta e né il carattere. Ma se Federer nell’iconografia popolare rappresenta la figura archetipica del vincente, James Murphy ha basato la sua poetica sull’esatto opposto.
I “Momenti Murphy” sono quelli in cui il senso di sconfitta e inadeguatezza si fa poesia e diventa arte. James Murphy è lo sfigato che ce l’ha fatta. Il nerd, il ciccione, il sociopatico, l’ansioso.
James Murphy sei tu. James Murphy sono io.
La sua storia musicale è legata a doppio filo a quella di New York: è lì che Murphy si trasferisce dal New Jersey e comincia a muovere i primi passi in band che hanno lasciato una scia nebulosa e impercettibile. Stiamo parlando dei Falling Man, in cui suona tra il 1988 e il 1989, dei Pony e degli Speedking. Poco più che piccoli culti cittadini, che però hanno un ruolo fondamentale per chiarire chi è James Murphy e da dove viene.
Il suo background, infatti, non è quello della musica dance come molti erroneamente pensano, Murphy non nasce come dj, ma batterista e cantante di gruppi indie rock. La sua formazione è quella del DIY e delle band che si autoproducono. Del post punk e dei chitarroni.
Steve Albini e Bob Weston.
In “Sonic Highways”, la serie di documentari realizzata da Dave Grohl per HBO, Murphy compare come guest proprio nella puntata realizzata a Chicago, dove racconta di avere scritto una lettera, una lettera di carta, a Steve Albini chiedendo aiuto – e ricevendo in cambio una planimetria – sul da farsi per costruire uno studio di registrazione.
“Mi ero stufato di spendere soldi per ritrovarmi con in mano dischi che non suonavano come volevo io”, ha dichiarato più volte nel corso degli anni, e infatti da lì a poco nasce il Plantain Studio. Vero e proprio centro di gravità permanente per band come, tra i mille altri, June of 44, Le Tigre e i Six Fingers Satellite di cui James diventa immediatamente produttore artistico e fonico di sala. In quel momento della sua vita l’idea di scrivere canzoni, l’idea di cantare, metterci la faccia, è la cosa più lontana e avulsa dalle realtà che possa venirvi in mente.
James è un nerd che ha trovato la sua salvezza nei negozi dischi e in studio di registrazione, quello è il suo mondo e del resto gli importa poco.
Ogni tanto si diverte a suonare in giro roba pescata dalla sua discografia, non proprio le cose che ti capitava di ballare nei club di New York nei primi anni 2000.
Si sceglie come alias Death From Above e più o meno continua a farlo a tempo perso fino a che non incontra David Holmes e in Tim Goldsworthy.
Holmes in quel momento è un artista sulla bocca di tutti, e Goldsworthy viene accolto a NY come una specie di salvatore della patria. Qualche anno prima, con James Lavelle, aveva fondato la Mo’ Wax e dato vita agli Unkle. Se James era il nerd sfigato, Tim era quello fico.
In qualche modo erano destinati a imbattersi l’uno nell’altro.
Insieme, proprio ai Plantain, co-producono “Bow Down di Exit Sign”, forse l’album più riuscito di David Holmes e cominciano ad accarezzare l’idea di creare qualcosa insieme.
La DFA nasce così: prima ancora di essere un’etichetta è uno studio di registrazione e un party che subito diventa un appuntamento fisso dell’East Village.
I soci sono James Murphy, Tim Goldsworthy e Jonathan Galkin, ex attore-bambino prodigio e che aveva già una carriera avviata come manager e organizzatore di eventi.
La New York di quegli anni è un posto strano, lontano anni luce dalla città gentrificata di oggi.
Siamo nell’immediato post-11 settembre, nel pieno dell’era Giuliani, gli affitti sono ancora abbordabili, i turisti pochi e la città nel suo momento peggiore sta vivendo l’inizio della sua rinascita. Dopo che gli anni ’90 sono passati senza lasciare una traccia tangibile se non per merito dell’hip hop e il focus degli appassionati si è spostato verso la provincia (Seattle e dintorni), New York sembra essere tornata al centro delle cronache musicali a causa del botto improvviso e velocissimo degli Strokes, ma non solo.
Manhattan torna suonare come non faceva da tempo: Liars, TV On The Radio, Yeah Yeah Yeahs!, Oneida, Interpol e mille altri. Si torna a parlare di scena e le feste della DFA dove si ballano le ESG e la italo disco in qualche modo ne fanno parte. Insieme alla droga, tanta droga.
È in questo contesto che emergono i Rapture, il primo investimento serio della DFA come label, il primo gruppo completamente prodotto da James Murphy e Tim Goldsworthy.
La leggenda vuole che del singolo di “House of Jealous Lovers” si narrassero meraviglie ben prima che il brano venisse pubblicato. Un piccolo segreto sulla bocca di tutta la comunità indie newyorkese dell’epoca.
In quella canzone, nel suono di quella canzone, ci sono tutti gli elementi che renderanno popolare la DFA: il crossover tra i generi, l’unione tra il rock e la dance, il piglio post punk e l’approccio da nerd-archivisti che non inventano un cazzo ma rivisitano ogni cosa. E buttano giù i muri.
Tutto quello che c’è da sapere sul James Murphy produttore è rintracciabile in quel pezzo: i Rapture sono il fiore all’occhiello della DFA e quando il brano viene finalmente pubblicato non ce n’è praticamente per nessuno. A sedurli arriva, però, un’offerta milionaria della Universal che li strappa letteralmente dalle mani di casa DFA (che nel frattempo aveva chiuso un accordo con la EMI proprio partendo da quel disco) e creando una frattura che all’epoca si credeva insanabile.
I Rapture, nel corso della loro carriera, hanno più volte raccontato di come quello sia stato l’errore più grande della loro vita da musicisti, ma è solo grazie a quell’errore se gli LCD Soundsystem esistono. Colmo di risentimento, infatti, James decide di chiudersi in studio e fare finalmente “la cosa sua”, con le canzoni sue e i suoni suoi, suonando tutto lui (eccetto la batteria di Pat Mahoney). È da quel contesto che viene fuori “Losing My Edge“, la prima vera hit di uno che, per sua stessa ammissione, non è capace a fare hit.
Eppure in quel brano c’è già tutto: gli LCD Soundsystem che verranno, il tracciato di un sentiero che partendo dai primi anni del decennio col doppio zero arriva fino a oggi, sono tutti lì.
Sulla nascita di “Losing My Edge” girano un sacco di leggende: la prima è che a far nascere quella canzone sia stata una ritmica di Casio, un piccolo loop venuto fuori quasi per caso su cui poi Murphy ha costruito tutto il resto. La seconda è che quella Casio gli sia stata regalata da Ad Rock (aka Adam Horowitz), membro dei Beastie Boys e avversario di James sul campo di pallacanestro, l’equivalente del calcetto del martedì per i cult hero (quelli che lo sono e quelli che lo diventeranno) residenti a NYC.Segno che l’accidentalità è da sempre uno dei motori dietro il progetto di una band che non doveva essere e di un tizio che si è ritrovato a essere una rockstar senza averne il fisico, il carattere e la mentalità.
E poi c’è il testo, quel testo, il suo primo vero grande “Momento Federer”.
“Losing My Edge” più che un inno alla resa e il grido di una resistenza.
Nei sette minuti e cinquantatré secondi della versione estesa si nasconde la prima stesura di un saggio sugli anni in cui tutto stava cambiando e venivano gettate le fondamenta della società del giorno d’oggi. James Murphy all’epoca ha più di trent’anni e si ritrova a essere parte di una scena composta da gente più giovane, più fica, più capace a vendersi e più scaltra di lui.
L’osservatorio privilegiato è il trespolo di una console per dj: James vede il suo pubblico, un pubblico composto per lo più da musicisti, e si sente inadatto, ma in quel modo passivo-aggressivo di chi sa di saperne di più, di essere il più bravo, il più competente, ma che porta con sé la consapevolezza che niente di tutto questo gli sarà utile. Neanche la sua collezione di dischi. Neanche quelli dei Sonics. I Sonics. I Sonics. I Sonics .
Tutto quello che accade da quel momento in poi accade alla velocità della luce: quel piccolo, feroce e autoironico inno al fallimento, nato da un profondo senso di rivalsa, finisce suo malgrado per diventare un simbolo e James Murphy si ritrova sempre suo malgrado a dover fare le cose sul serio.
A dare una forma precisa a una cosa nata con l’idea di non avere una forma. Gli LCD Soundsystem passano in un lampo dall’essere un’idea, un guasto, a diventare una realtà. La band che non esiste, ma da cui tutti si aspettano grandi cose.
Gli LCD Soundsystem diventano di colpo la miglior cover band possibile degli LCD Soundsystem.
La battuta è di Murphy stesso, ma alla fine, ancora una volta, il senso è davvero tutto lì.
Conoscere l’inizio della storia è essenziale per capire i tratti che l’hanno caratterizzata e segnata fino ai giorni nostri. La carriera degli LCD Soundsystem, passo dopo passo, disco dopo disco, è sempre stata contraddistinta da una certa difficoltà e riottosità ad accettare il proprio ruolo designato. Anche il percorso che arriva al primo album è tortuoso e ricco di tentennamenti: per James gli LCD sono solo un progetto da studio che a causa delle tante richieste è stato costretto a trasformarsi in una live band. Un progetto da studio che non realizza dischi ma solo singoli e li pubblica prima di tutto in formato 12’’, in modo che possano essere suonati dai dj.
Tant’è che quando poi il primo album venne effettivamente dato alle stampe – in piena epoca di quello che chiamavamo punk funk e sull’onda lunga del successo di massa delle compilation realizzate proprio da DFA – la percezione comune fu quella di un doppio greatest hits (perché di fatto lo era) che da una parte raccoglieva proprio i tanto celebrati singoli e dall’altra metteva in fila nove brani inediti composti con l’idea di dover essere già i classici di un repertorio che forse non avrebbe dato vita ad altri episodi. Con la sacra trimurti composta da Eno-Byrne-Bowie a fare da nume tutelare e l’idea dichiarata, e raggiunta, di provare a trasformare la sigla LCD Soundsystem in un qualcosa di diverso da uno sfogo da “pista”.
Quando esce “Sound of Silver”, invece, nel 2007, il contesto è del tutto mutato: la scena di New York non è più percepita come la cosa più fica nata nel posto più fico e dalla gente più fica, la DFA non è mai diventata la label che sembrava dovesse diventare, e i rapporti tra Tim Goldsworthy e James Murphy cominciano a farsi tesi; e anche se il primo continua ad avere crediti da autore nei dischi del secondo, è palese che la figura di James abbia finito per mettere completamente in ombra quella del suo socio. E in più questa volta l’idea è proprio quella di fare un album che sia un album a tutti gli effetti. “Sound of Silver” è il disco perfetto del decennio in cui sono scomparsi i generi e in cui tutto è stato mischiato con tutto. In un periodo storico attraversato dalla retromania e segnato dalle reunion, dai cofanetti e dal presente che vive di passato, gli LCD Soundsystem mettono su nastro una specie di portale spazio-temporale che verrà poi definitivamente chiuso dai Daft Punk di “Random Access Memories”.
“SOS” (e l’acronimo non è un caso) per la prima volta sposta il focus dal James Murphy producer e mette al centro le sue abilità di scrittore di canzoni e, ancora una volta, autore di testi.
Quel disco è pieno di momenti memorabili, ma dovendone scegliere solo tre sappiamo già che non si può prescindere da “New York, I Love You But You’re Bringing Me Down“, la traccia di chiusura. Una specie di risposta cupa e disincantata a “Frank Sinatra“, di cui riprende il mood da crooner e lo stile. Il formato è quello della lettera d’amore, in cui New York viene descritta come l’altra metà di una relazione che si è consumata ma a cui non si riesce a mettere la parola fine;
una commedia romantica che mescola passione e gentrificazione.
E poi c’è “Someone Great” che è forse il più bel brano dei New Order non scritto dai New Order, una canzone che parla di lutto e perdita e che per anni si è prestata alle più disparate interpretazioni. La leggenda, riportata anche da Lizzy Goodman nel suo “Meet me in The Bathroom”, vuole che a ispirarla sia stata la scomparsa prematura dello psichiatra che ha tenuto James in analisi da quando aveva sette anni.
Su “All My Friends” invece potremmo perdere delle ore, e anche qui citare i New Order.
Che sia una delle canzoni già più importanti di quel decennio è fuori discussione.
Che sia LA CANZONE per eccellenza, quella tutta in maiuscolo, degli LCD Soundsystem pure.
La frustrazione (be’, forse tutta quell’analisi è servita) di “Losing My Edge” lascia il passo a un senso di resa evidente quanto terrorizzante.
Hai speso gli anni migliori della tua vita a inseguire uno scopo e ora che è il traguardo è vicino pensi a tutto quello che ti sei lasciato alle spalle.
Dove sono i miei amici questa sera? Che fine ha fatto la mia vita?
“All My Friends” non è solo il cuore di “Sound of Silver”, ma può anche essere considerato l’incipit di “This Is Happening”. L’inizio della fine.
Il James Murphy che si sentiva vecchio all’alba dei trent’anni fa il suo ingresso nel mondo degli “anta” portandosi in dote una valanga di traumi: la fine di un matrimonio, in primis, e la certezza di avere detto più o meno tutto quello che c’era da dire. “I miei gruppi preferiti sono quelli che si sciolgono prima di invecchiare” ha sempre dichiarato, e non poteva essere altrimenti per un figlio del punk che aveva passato l’adolescenza a idolatrare band che scomparivano dopo un paio di singoli, figuriamoci arrivare a tre album.
La verità è che non c’era nessun motivo apparente per sciogliere gli LCD Soundsystem, se non tutta una serie di ragioni personali che in quel momento rendevano impossibile anche solo immaginare un futuro.
C’è una parola che aleggia tra le note di quell’album, le interviste di quel periodo e pure tra le immagini di quel documentario capolavoro che risponde al nome di “Shut Up and Play the Hits!” e che racconta il concerto d’addio tenutosi al Madison Square Garden e i giorni immediatamente seguenti.
Una parola che non viene mai pronunciata. Depressione.
James Murphy vuole riprendere in mano la sua vita e questo non sembra poter andare di pari passo con la carriera degli LCD Soundsystem.
In una recente intervista ha dichiarato: “Avevo conosciuto da poco quella che poi sarebbe diventata mia moglie, un giorno lei mi ha detto che aveva deciso di lasciare il lavoro per venire a stare da me a New York. Senza pensarci, le ho risposto subito ‘Se lo fai, io lascio il mio!”. Puff.
D’altronde non avevano mai fatto il botto, non erano diventati star, non erano mai stati headliner di un festival, non avevano mai pubblicato una hit (ehm).
Se doveva succedere qualcosa, be’, non era successo. Fine.
This is happening, adesso sì.
Quello che resta è un disco che abbandona qualsiasi velleità nu e old disco per approdare a un tipo di suono più freddo, tedesco (nel senso di kraut rock), kraftwerkiano proprio.
L’opening è affidata forse a una delle cose più complete mai scritte da James Murphy.
“Dance Yrself Clean“: quasi nove minuti di viaggio con un inizio in punta di piedi che esplode in un crescendo punteggiato dai synth e dalla batteria.
Una canzone nata per essere due diverse canzoni (parte uno e parte due) fuse in una canzone sola, con anche il testo che si muove su due binari perpendicolari. Da una parte la critica al mercato discografico, dall’altra il racconto di una relazione che muore. La fine di un’epoca.
In mezzo ci sono tutti i tòpoi della scrittura di James: l’inadeguatezza, la paura di invecchiare, la spocchia e quel senso di incompiutezza che con gli LCD Soundsystem diventa quasi un pregio.
So go and dance yourself clean
Go and dance yourself clean
You’re blowing Marxism to pieces
Baby, they’re arguments, the pieces
E pure:
Every night’s a different story
It’s a thirty car pile-up with you
Everybody’s getting younger
It’s the end of an era, it’s true
And you go
Stop, stop, stop, stop
Stop, stop, stop, stop
E quindi stop davvero..
Ciao James, chiama quando arrivi, ché poi stiamo in pensiero.
Così dopo un po’ di anni spesi a fare il produttore di dischi altrui (fino a dichiarare ben presto di non poterne più) e di caffè, senza tralasciare qualche incursione da dj in giro per il mondo (da solo o con i fratelli Dewaele), e dopo avere aperto una vineria a Brooklyn, si è ritrovato a dover fare i conti con se stesso, e con le ricchissime offerte che gli sono piovute sulla testa sin dal giorno dopo l’addio.
Che James Murphy si arrendesse a una vita da baby pensionato era davvero poco credibile. Puoi sciogliere una band ma è molto difficile scioglierti da te stesso, e anche se il modo in cui gli LCD Soundsystem avevano messo fine alla loro prima parte della carriera era incredibilmente potente, romantico, talmente insensato da essere bellissimo, non poteva che andare così. A squarciare il velo, e le valanghe di smentite, è arrivata una canzone lasciata uscire la notte di Natale del 2015 .
Una canzone triste come le canzoni di Natale sono sempre, anche quando vogliono essere allegre, pubblicata in digitale e in formato 7’’ (solo lato A).
La notizia della reunion vera e propria, e dei primi show da headliner in grandi festival come Coachella e Primavera Sound, è arrivata invece con un lungo post su Facebook scritto direttamente da James e che in qualche modo cercava di reagire – ma senza dare giustificazioni – al backlash che inevitabilmente sarebbe andato a colpirlo di lì a breve.
Riassumendo: dopo essersi ripreso dal trauma scioglimento, ha cominciato a scrivere canzoni, valanghe di canzoni, e a non sapere cosa farne.
“Hai uno studio, perché non le registri?”, deve avergli detto la sua compagna, e così è ripartito tutto. James Murphy si è ritrovato con decine di pezzi pronti e nessuno scopo.
“Che faccio? Mi scelgo un nuovo alias? Esco a nome James Murphy? Oddio, terribile! Ora le faccio sentire a Pat, Nancy e Al e vediamo cosa dicono…”
Pat, Nancy e Al hanno detto quello che tutti già sapevamo: “Un nome ce l’hai già, ed è LCD Soundsystem, e queste sono canzoni degli LCD Soundsystem”.
La band che non era mai stata una band e che forse lo è diventata per davvero proprio in quel momento.
A quanto racconta Murphy, un ruolo fondamentale in questo ritorno in pista lo ha avuto anche David Bowie. Il poster appeso al muro della cameretta e di cui James è diventato prima collaboratore e poi amico.
In pratica, avrebbe dovuto occuparsi, insieme a Tony Visconti, della produzione di “Blackstar”, ma dopo le prime session è stato “retrocesso” al ruolo di percussionista proprio perché: “Dovresti impiegare il tuo tempo a fare la cosa tua, sei sprecato come produttore, e dovresti farlo proprio perché la cosa ti mette in difficoltà e hai paura delle reazioni del pubblico. Un artista deve sempre essere scomodo, e la cosa scomoda da fare, per te, ora, è riunire la tua band”. Bowie dixit.
Wow.
“American Dream” arriva nelle nostre case alla mezzanotte tra il 31 agosto e il primo settembre 2017, dopo una lunghissima gestazione e qualche sporadica notizia che ne aveva accompagnato il percorso. In copertina c’è un cielo azzurro macchiato giusto da qualche nuvoletta, il nome della band e il titolo. Opera dell’artista Robert Reynolds.
Una copertina talmente brutta da fare quasi il giro e diventare bellissima, perfetta per fare i meme, e ideale a svelare il contenuto del disco (il fatto che ricordi quella di “Infinite Jest” di David Foster Wallace è un altro caso che di sicuro non è un caso). Un disco che è tutt’altro che un cielo azzurro. Il sogno americano degli LCD Soundsystem è cupo, disilluso (lo so, questa parola è tornata spesso in questo articolo), orgogliosamente wave e post punk.
Nel titolo è impossibile non vedere un riferimento all’America di Trump, ma anche una rivisitazione in chiave sarcastica della carriera della band.
Una band che nasce nell’underground, non esplode mai davvero, si scioglie, comincia a far parlare di sé, si riunisce, firma per una major, arriva ad avere un cachet di centinaia di migliaia di dollari e alla fine taglia pure il traguardo del primo posto della classifica di Billboard.
E se fosse stato tutto un calcolo? E se l’obiettivo dello scioglimento fosse proprio questo?
“Eccolo qua il nostro sogno americano, e per raggiungerlo abbiamo dovuto tradire noi stessi e il nostro pubblico”. O forse no. Chi lo sà.
“American Dream” è il disco rock della carriera degli LCD Soundsystem, sa di primi Cure, Joy Division e ovviamente – chi l’avrebbe mai detto? – Talking Heads, David Bowie e Brian Eno.
E i testi parlano tutti di inadeguatezza, fallimenti, invecchiamento. Ancora.
Insomma, i testi di James parlano di James. Come sempre.
Bellissimi, come sempre.
Anticipato dal doppio singolo “Call the Cops/American Dream“, l’album ha il suo picco in tre brani: “I Used To”, che parla di crescita, amore per la musica e abbandono, “Black Screen”, dedicata proprio alla morte di Bowie, e soprattutto “How Do You Sleep?”.
Il titolo del brano riprende una celebre, livorosissima, dedica del Lennon solista indirizzata a Paul McCartney. Una cavalcata lunga nove minuti, in cui James Murphy si toglie tutti i sassolini dalle scarpe nei confronti del suo ex socio e amico Tim Goldsworthy.
Ma dove Lennon attaccava McCartney alla giugulare, Murphy non riesce a non sentirsi corresponsabile della sconfitta, anche se dopo anni di cause e infamate a mezzo stampa non riesce ad andare avanti e perdonare.
Un passo avanti e sei passi indietro.
La fallibilità dell’essere umano è tutta lì.
Perché sì, alla fine James Murphy è proprio come me e te.
Nel bene, e forse soprattutto anche nel male.
Bonus Track: Lars Ulrich (Metallica) intervista James Murphy
La puntata di The Best Show (Podcast audio) con James Murphy (occhio, dura tre ore).
LCD Remix! La playlist con i migliori brani remixati degli LCD Soundsystem, selezionati da noi.