Avremo modo di entrare nei particolari, nei prossimi giorni, su quella che è stata l’edizione 2018 del Sónar, analizzando le cose set per set. Ma con la mente ancora fresca dei ricordi dello scorso weekend, è il caso prima di tutto di “fissare” alcune linee guida principali e di soffermarsi su alcuni particolari. Un’edizione importante, questa: la venticinquesima. Uno magari non ci pensa, uno magari lo dà per scontato per quanto il festival catalano è entrato come abitudine nel panorama delle musiche “nostre”, ma è un traguardo abbastanza impressionante. Voi vi immaginate ad avere per venticinque anni di fila lo stesso lavoro? Quante persone conoscete che stanno insieme da venticinque anni? O anche: se sette scudetti di fila della Juventus vi sembrano un’eternità, provate ad immaginarne venticinque… Paragoni da bar sport a parte, il punto è questo: una musica che è nata come avanguardista, sperimentale, concentrata sul presente (vuoi quello più di ricerca, vuoi quello del divertimento clubbaro) o al massimo sul futuro, ormai è arrivata ad uno spessore temporale per cui non può più essere – o fingersi – giovane. E anche: non può più riuscire a presentare novità radicali ed inedite. Perché ormai (quasi) tutto è stato fatto o pensato. Almeno fino a quando non arriverà una nuova rivoluzione a spettinarci, esattamente come l’elettronica e l’acid house spettinarono il rock (…ma usando molte metodologie del punk, che del rock è figlio diretto: delle connessioni ci sono sempre, anche nelle rivoluzioni).
Con la solita sensibilità rabdomantica, che è una delle chiavi fondamentali del successo del Sónar, ciò che abbiamo sentito in larga parte nel festival durante le parti diurne nel Village, il crocevia della parte diurne del festival, è un processo già annunciato nelle precedenti edizioni (o in altri punti nevralgici, come il CTM berlinese): ovvero un attingere moltissimo dalle musiche ritmiche un tempo considerate etniche nel loro mescolarsi col pop e con l’hip hop più digitale. Forme nobili insomma di baile funk, di reggaeton (eh sì), di richiami all’Africa, ai Caraibi, al Sudamerica oltre che all’hip hop da classifica, con una sensibilità da urban-pop-digitale-globale. La musica elettronica (intesa nella sua accezione più vasta, diciamo da discografia personale di un dj ecletticissimo) in questo momento, avendo attinto ormai dappertutto, da qualche anno si è tuffata in una delle poche vie che ancora erano inesplorate, perché considerate troppo pop o troppo commerciali. Il Sónar 2018 lo sa, lo testimonia, lo certifica. Certi suoni, certi ritmi, certe attitudini sono state sdoganati. E nessuno ha più nulla da ridire, o lo considera strano, o lo considera cheesy: anzi, ci si diverte. Perché in fondo son ritmi e suoni semplici ma simpatici, comunicativi, coinvolgenti.
(IAMDDB, foto di Natasha Cabral; continua sotto)
Per gusto personale, speriamo che passi. Per giudizio oggettivo, invece è un fenomeno che ci sta e che ha mille ragioni d’essere. A partire dal fatto che, arrivata a una età “adulta”, la galassia elettronica non può più appunto giocare a fare la giovane&scostante in eterno, ma deve iniziare a confrontarsi – o a mescolarsi – col mondo “adulto”, col mondo dove la musica è lavoro e professionalità, ovvero il pop. Per fortuna lo fa a modo suo (o, al contrario, crea carrozzoni finto-giovani e/o finto-underground come Ibiza). E per fortuna se vai al Sónar sai che saranno selezionate cose comunque interessanti, non scontate, con un “twist” particolare. Sai che, per quanto si flirti con il pop, ci sarà sempre una differenza di godimento d’ascolto tra l’ascoltare le radio FM commerciali (che fanno venire du’ palle così) e il sentire invece cosa si alterna sul palco del Village, il main stage diurno sonariano diventato appunto ormai ancoraggio di questo contesto musicale specifico, quest’anno in modo ancora più netto (tant’è che i George FitzGerald, con la sua house suonata perfettina e pulita e zero etnica, diventava praticamente un’eccezione).
(Liberato, foto di Giovanni Truppi; continua sotto)
Il fatto di essere laboratorio pop (…e il fatto che il pop, anche lui in cerca d’ispirazioni, peschi molto nel bacino dei vari folk locali) è stato confermato anche dalle due esibizioni, una dietro l’altra, di Liberato e Rosalia. Ciascuno a modo proprio, fanno la stessa cosa: prendere il proprio folklore tradizionale, rivestirlo di una coltre sonora urban e iper-contemporanea, costruirgli attorno una veste estetica e concettuale da pop modernista (la canzone napoletana per Liberato, il flamenco per Rosalia). Hanno funzionato? Hanno funzionato. Ecco, se non siete spagnoli non potete capire cos’è il fenomeno Rosalia. Un fenomeno che ha permesso, con ogni probabilità, di battere il record di biglietti venduti per una singola giornata di Sónar Dia (mai visto gli spazi della Fira centrale così pieni, mai vista una cosa del genere per entrare nella sala Sónar Hall), concedendoci anche la visione di scene mai viste prima nella parte diurna del festival, tipo il correre affannati verso le transenne per essere in prima fila di fronte al proprio idolo. Grazie alla veste sonora confezionata da El Guincho e a un corpo di ballo coreografato in maniera strepitosa, Rosalia ha fatto centro e ci è piaciuta parecchio. Ha reso credibile, e non kitsch, questa iper-modernizzazione del flamenco fatta in chiave glam e quasi beyonciana. Per quanto riguarda Liberato, qui il test era un altro: che effetto fa vederlo fuori dalla bolla di morbosa attenzione hipster-mediatica (o schiettamente popolare, concerto di Napoli docet) che c’è a casa nostra? Una risposta che non possono dare i duecento, trecento italiani che si sono accalcati nelle prime file, vuoi per amore verso l’artista o per tentativo di capire chi diavolo sia (ma è veramente così importante chi sia? Risposta: no, e ve lo diciamo non per l’effetto “volpe e uva”, visto che da queste parti l’identità ormai è stata scoperta). Facendo invece quaranta, cinquanta metri indietro, mettendosi a metà sala o addirittura nelle ultime file, si poteva immaginare Liberato come se fosse un qualsiasi artista argentino o francese o messicano o canadese di cui si sa nulla o poco, ma che un festival come il Sónar ti permette di scoprire e valutare. Ecco: l’effetto è buono. Liberato funziona. Anche senza tutto l’isterico hype addosso, funziona. Non è la fine del mondo, alla fine la ricetta sonora è un po’ scarna e manca ancora della malizia per renderla più efficace del vivo (ma arriverà – è questione di pratica ed esperienza), però il congegno sonoro complessivo ha senso e stile, la parte visuale architettata da Quiet Ensemble e Martino Cerati è da Serie A, l’immagine coordinata creata (anche) da Francesco Lettieri fa il suo notevole effetto pure se non sei un aficionado del San Paolo in Curva B. Insomma, se davanti gli italiani si accalcavano, nel resto della sala comunque un migliaio buono di non-italiani hanno ascoltato dondolandosi a ritmo, facendo cenni di assenso, mettendo su un’aria soddisfatta.
(Rosalía, foto di Alba Ruperez; continua sotto)
Parlando ancora di musica elettronica che deve (anche) farsi pop, visto che ormai è adulta e non può giocare a fare l’underground in eterno quando ormai sotto molti punti di vista non lo è più da un pezzo, va specificato che si possono comunque fare scelte di campo precise. E il Sónar l’ha fatta, dopo qualche edizione passata in cui in parte si è tentennato. C’è il pop che insegue i ventenni, c’è il pop invece che va bene ai trenta-quarantenni; il festival catalano si è schierato con decisione dalla seconda parte. L’età media del pubblico è alta. Anche nelle scelte di chi chiamare per quello che tempo era il “core” del festival nella propaggine notturna, ovvero la parte danzereccia, ci è parso di intuire chiaramente una precisa volontà: pochi o quasi assenti i nomi techno e house che ti riempiono il dancefloor di ventenni (stile Social Music City in Italia), molte scelte da pubblico anagraficamente più maturo (non strettamente dance, vedi LCD Soundsystem, Gorillaz, Thom Yorke, ma anche nel campo dance vedi le sei ore date a Harvey, o comunque il fatto che c’è stato molto downtempo). Una scelta che poteva essere rischiosa: si sa, i trentenni e quarantenni parlano tanto, fanno tanto opinione, ma poi fanno più fatica ad alzare il culo e venire agli eventi davvero, l’incasso vero lo fai coi ventenni. Invece, l’edizione 2018 del Sónar ha fatto registrare il record assoluto di presenze (126.000), e questo risultato non è certo arrivato grazie a Diplo, uno che sì arriva da quel meccanismo macina-numeri che è (stata) l’EDM, ma che al Sónar – ed è anche una sua scelta precisa, venire a un festival così – perde quello status stile Guetta o Calvin Harris che avrebbe, per dire, all’Ultra. La gente un po’ se lo ascolta, un po’ se lo fila, ma il festival barcellonese è una bizzarra repubblica indipendente dove il vero presidente del consiglio è Laurent Garnier, che vale dieci volte in popolarità e amore del pubblico un Diplo. Tra l’altro, nell’edizione del venticinquennale è stato giusto dare tanto spazio al francese: un set a chiudere la prima diurna dove suonare solo pezzi suoi, un mega-slot di quattro ore a fare chiusura l’ultimo giorno nella parte notturna. Non ha deluso, Laurent. Non ha forse incantanto, perché è in una fase neo-classica della sua carriera dove percorre strade sicure e non si prende troppi rischi musicali, ma resta una spanna sopra rispetto a quasi tutti gli altri.
(Diplo, foto di Fernando Schlaepfer; continua sotto)
Anche il Sónar resta una spanna sopra rispetto a quasi tutti gli altri. A differenza di Garnier, non è in una fase neoclassica, di ripiegamento su se stesso e sulle proprie sicurezze: cerca, indaga, esplora, anche quest’anno l’introduzione del quarto palco diurno (il Sónar XS) si è rivelato un toccasana; continua a essere un festival “di lotta e di governo”, anzi, lo è sempre di più. Perché da un lato la sua vocazione a essere il festival della musica “avanzata” del momento non cede di un millimetro, dall’altro ormai ha le dimensioni e la credibilità – anche politica – per trattare da pari a pari con l’establishment. Questo significa anche portare in un contesto di prestigio, come il Teatre Grec sul Montjuïc, in una giornata extra del festival Alva Noto e Ryuichi Sakamoto. Che hanno ricompensato il festival e tutti i presenti con una esibizione semplicemente magica. Ormai, per chi scrive, dopo trent’anni di concerti è raro emozionarsi, è raro sentirsi catapultati letteralmente in un’altra dimensione per merito delle scelte dei musicisti sul palco: invece in questo caso è successo. Un lavoro accuratissimo di timbrica, di sottrazione, di sensibilità ha dato vita ad un’esperienza sonora semplicemente straordinaria, superiore anche alle altre volte in cui abbiamo visto i due esibirsi dal vivo. Una chiusura maestosa, raffinatissima, per un Sónar che in questo 2018 ha dimostrato di essere più vivo e in forma che mai, pur senza assestare colpi clamorosi o facendo emergere novità pazzesche.
Il traguardo dei venticinque anni è stato scavallato alla grande. Dateci ancora un paio di giorni, e vi racconteremo più nel dettaglio come. Ma intanto era importante darvi prima una chiave di lettura generale. Bisogna saper ragionare d’insieme. E al Sónar lo sanno fare benissimo. Si arriva ai venticinque in questo splendido stato (anche) per questo.
(La chiusura all’alba di Garnier, foto di Ariel Martini)