“Questo è un regalo di un piccolo e distante pianeta,
un frammento dei nostri suoni, della nostra scienza,
delle nostre immagini, della nostra musica, dei nostri
pensieri e sentimenti. Stiamo cercando di
sopravvivere ai nostri tempi, così da poter vivere fino
ai vostri”
Jimmy Carter, Presidente degli Stati Uniti d’America, 1977.
Correva l’anno 1977 quando la NASA decise di preparare un mix-tape ante litteram da spedire nello spazio più profondo attraverso le due astronavi-sonda Voyager 1 e 2. In sostanza, due speciali dischi per grammofono – chiamati ciascuno “Voyager Golden Record” perché di rame placcati in oro – vennero caricati di immagini e suoni della terra e lanciati alla deriva dei confini spaziali conosciuti, in un viaggio di miliardi di chilometri, tutt’ora in corso, per trasmettere a chiunque le rinverrà mai, una sintesi audiovisiva di ciò che siamo. Di questa storia, affascinante di per sé, ci interessa ragionare sul comparto sonoro dell’operazione: immaginate la difficoltà di sintetizzare la storia dell’uomo in appena novanta minuti complessivi. Si optò per la registrazione di un gran numero di suoni naturali – le onde del mare; il vento tra i rami, il fragore dei tuoni – di versi di animali e di una selezione musicale che comprende Bach, Mozart, Stravinsky e Beethoven ma anche Chuck Berry e Willie Johnson, oltre che svariati canti tradizionali tra cui quello degli Indiani Navajo (qui trovate la lista completa).
Nessuna traccia degli sperimentatori del tempo, e non parliamo proprio dei primi arrivati: niente John Cage, Karlheinz Stockhausen, Terry Riley oppure, per dirne giusto un altro paio, dei Kraftwerk nell’anno in cui pubblicavano “Trans Europa Express” e di Brian Eno nell’anno di pubblicazione di “Before And After Science” (con quel titolo poi…). Occasione persa? Forse, benché l’operazione rimane grandiosa, non può che lasciare un po’ di amaro in bocca il constatare che non si sia riusciti a catturare lo “zeitgeist”, o spirito del tempo, di quel fatidico 1977.
Tutto questo per dire che oggi, anno 2018, dipendesse da noi, avremmo pochi dubbi e caricheremmo su una ipotetica nuova sonda interstellare da tramandare ai posteri, perlomeno “Age Of”, l’ultimo disco di Oneohtrix Point Never. I motivi di questa scelta sono diversi, ma riguardano tutti l’inafferrabilità di un disco che è complesso pur suonando semplice (su alcune testate è stato definito il disco “pop” di OPN, laddove il precedente lavoro “Garden Of Delete” poteva essere considerato quello dall’attitudine più rock), che contiene un’idea sonora postmoderna (un andamento iperdigitale da musica HD, che ingloba anche molti strumenti tradizionali, sfumando ogni confine plausibile tra generi), realizzata con il ghigno di chi sa che può permettersi di tutto, giocando liberamente col passato musicale e con il presente che viviamo, allineando riferimenti importanti che vanno da Rainer Boesch a James Ferraro, passando per gli ambientalismi di casa Warp (che infatti distribuisce il disco) e pure per certa new age degli anni ’70, che qui si contribuisce a rinnovare profondamente.
Lo aveva detto Daniel Lopatin in sede di promozione del disco, che “Age Of” sarebbe stato uno zibaldone musicale in cui vengono rielaborate le musiche di ogni tempo, da quella primitiva alla computer music, eppure non immaginavamo di trovarci per le mani qualcosa di così estremo, ma, badate bene, anche assai coeso: gli esperimenti sonori si ripetono ciclicamente, con il suo tocco produttivo “post-idm” a disseminare clagori assortiti, corde pizzicate, fiati e melodie cristalline che vengono d’improvviso rotte/glitchate per dare spazio a synth spaziali e voci costantemente in autotune, per una stratificazione sonora al rallentatore, che rende la resa finale più che mai simile ad un lavoro minimalista. Tante influenze, quindi, per altrettanti collaboratori illustri accreditati: James Blake (co-produttore), Antony Hegarty-ANOHNI, Dominick Fernow-Prurient, Kelsey Lu ed Eli Keszler, che in modo diverso hanno contribuito a modellare questa materia musicale sfuggente con le loro idee, strumentazioni ed ugole, anche se il risultato finale è perfettamente Lopatiano, sulla scia del suo acclamatissimo disco del 2013 “R Plus Seven”, ma più accessibile, essendo in estrema sintesi un disco di canzoni, per quanto destrutturate/dilatate.
Un consiglio finale per gli ascoltatori ci sentiamo di darlo: concedete a quest’opera il tempo che merita, perché ad un primo ascolto “Age Of” potrebbe apparire fuori fuoco, ma la forza dell’opera sta proprio nel suo insinuarsi lentamente, quanto inesorabilmente, nelle proprie coscienze, come se si trattasse di un “2001 Odissea nello Spazio” in formato cd, anzi in formato mp3, fruito dalle casse del sacro mac-idolo come quello immaginato/realizzato nell’opera di Jim Shaw scelta come immagine di copertina, al punto da far sembrare perfettamente coerente un suono che parte elettroacustico, si trasforma in midi e si conclude new age con venature industrial.
Non mandereste in orbita anche voi un disco così?