Ve l’avevamo promesso, dopo il primo report che mirava più su ragionamenti a largo raggio, senza entrare nello specifico dei singoli set: al Sónar di quest’anno eravamo presenti in forze, ecco allora un mini-report per ciascuno. Chiaro il mandato: spiegare chi prendere e chi invece lasciare. Ovvero, chi ci portiamo dietro nei nostri ricordi con un sorriso largo così al solo pensiero, e chi invece ci ha fatto storcere la bocca.
MAURIZIO NARCISO
Il sole è ancora un palmo sopra i grandi padiglioni che caratterizzano il “Sónar de dia”, eppure nello spazio organizzato da red bull music c’è la notte e uno strano silenzio, improvvisamente spezzato da un beat di una ferocia inaudita e da due ballerine in latex che alternano la danza a contorsioni erotiche; quindi entra una specie di Britney Spears in acido, che intona una zuccherosa melodia pop e, finalmente, SOPHIE che, statuaria, doppia la voce in sottofondo. E’ tutto “plasticoso”, come nelle hit più radiofoniche, ma anche torbido e sbagliato; si prova imbarazzo, eppure si balla col sorriso, come se sullo stesso palco salissero contemporaneamente Arca e le TLC. Vengono eseguiti molti pezzi del suo primo album lungo “Oil Of Every Pearl’s Un-Insides”, dato alle stampe lo stesso giorno dell’esibizione, e altri nuovi di zecca, tra stage diving selvaggi, la distruzione di apparecchiatura elettronica sul palco – tanto è tutto in playback – e altre trovate che mettono in scena una dissacrante parodia artistico-musicale. Una cosa che ricorderemo per molto, molto tempo. Gli altri momenti clou ce li regalano Lorenzo Senni, con la sua musica trance senza cassa dall’impatto incredibile – suoni HD fortissimi; un telo enorme con su scritto “rave-voyeurism is not a crime” a coprire la prima parte dell’esibizione e poi tirato giù per dare spazio a un fascio di laser ad accompagnare il ritmo forsennato – poi Errorsmith con il suo reggaeton digitale scarnificato e le improvvise aperture funk-carioca, come prodotte da un sintetizzatore scassato; ed infine Corneluis con la sua band, che dimostra una classe fuori dal comune, per un concerto che è elettronico e rock allo stesso tempo, accompagnato dai migliori visual visti da parecchio tempo a questa parte (tanto stop-motion e animazioni di vario genere che riproducono visivamente i suoni generati dalla formazione giapponese).
Una nota dolente la spendiamo per Amp Fiddler che fa coppia con un bolsissimo Tony Allen, tra problemi tecnici e groove ai minimi storici; Thom Yorke assieme al fidato sodale Nigel Godrich, che riescono ad annoiare anche i fan più imperturbabili, tra pezzi del recente passato che funzionano e canzoni nuove che sono parse invece del tutto incolore (al contrario della meravigliosa controparte visiva a cura del giovane talento Tarik Barri); e infine i due Demdike Stare, persi nel rumore/delay e incuranti di qualsivoglia struttura-algoritmo che possa catturare l’orecchio.
(SOPHIE in azione; continua sotto)
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DAMIR IVIC
Per i veterani del Sónar c’è una vecchia, immarcescibile regola che vale fin da quando si stava tutti quanti negli spazi del MACBA, in pieno centro: “Se ci sono dei giapponesi in line up, non perderteli per nessuno ragione al mondo, anche se non sai chi sono”. Qui poi il gioco era ancora più facile: Yuzo Koshiro ben sapevamo chi era (una leggenda delle soundtrack per videogame) e, credeteci, non ha deluso le attese. Anzi. Il suo live in coppia con Motohiro Kawashima è stato un highlight assoluto del festival, due decenni di rave culture, house, techno, electro strizzati in una veste sonora da gaming – senza che questo facesse perdere nemmeno un’oncia di potenza ed impatto. Strepitosi. L’onda lunga del focus sulle musiche da gaming giapponese, patrocinato da Red Bull Music con l’operazione Diggint In The Carts al Sónar Dome, ha fatto bene anche a Kode9, che col live “legato” ai visuals di un altro nippo-leggenda, Koji Morimoto, ha tirato fuori uno dei migliori set che gli abbiamo sentito fare da anni a questa parte. Già che siamo di Sol Levante: non ha magari sorpreso per chi già lo conosceva (e se lo conosci lo ami, punto), ma Cornelius ha deliziato tutti con la sua band potente e geometricissima e dei visual di un’eleganza ed inventiva strepitose. Ecco: il rock, quando arriva al Sónar, ha queste forme qui: aritmetiche, surreali, geniali, affilate. Oppure ha le forme punk-funk degli LCD Soundsystem: che incuranti delle giga-dimensioni del palco del Sónar Club, il main stage notturno, hanno comunque voluto “comprimersi” on stage come se stessero suonando in una venue intima per precisa scelta, hanno ridotto al minimo per non dire al nulla gli effetti speciali di luci e visual, eppure hanno dato una lezione a tutti. Concerto della madonna il loro, con una scaletta stramba (soprattutto verso la fine), un’attitudine da “Stiamo suonando per gli amici sotto casa ma comunque ci diamo dentro alla morte”, una compattezza di suono che in anni passato non avevano.
Passando alle delusioni, invece: Tony Allen e Amp Fiddler se ne potevano anche stare a casa loro, a rilassarsi, invece di ammorbarci con uno dei live set più raccogliticci, slabbrati e sconclusionati mai visti al Sónar (un funk afrobeat al piano bar suonato da due tizi passati di là per caso e che si vedevano tipo per la prima volta), mentre invece le belle aspettative che avevamo su Joe Kay della Soulection, in teoria l’erede della aurea tradizione dell’hip hop / downbeat creativo alla californiana stile Low End Theory, sono naufragate in un dj set sconclusionato solo-grandi-successi (ma di dieci, venti anni fa) messi lì a caso. Sì, qualche pezzo bello c’era, ma c’erano anche le commercialate, soprattutto c’era un filo logico pari a zero. Non è così che si fa un dj set. Manco alla festa di compleanno di tuo cugino. Figuriamoci al Sónar notturno.
(continua sotto)
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MATTIA TOMMASONE
Può un festival giunto alla venticinquesima edizione stupire ancora, soprattutto se, come dicevamo, punta a un target piuttosto avanti con l’età che quindi è difficile da stupire per definizione? Quando c’è di mezzo Sophie, tutto è possibile.
Avevamo già assistito al suo primo show nel 2015, ma quest’anno ha alzato ancora l’asticella, mischiando riferimenti alti e bassi, Arca e Madonna, punk e dance, suoni celestiali e devastazione uditiva: non è stato un live “bello” in senso stretto, ma è stata di sicuro una delle cose più magnetiche e affascinanti a cui abbiamo assistito di recente. Quanti altri artisti, d’altronde, con un album (sul quale torneremo) uscito letteralmente lo stesso giorno del live, presentano materiale inedito?
Non c’è solo la sorpresa per la performance di Sophie tra i ricordi migliori di quest’anno, però: ci sono anche alcune certezze, come “Laurent Plays Garnier”, che sapevamo sarebbe stato garanzia di qualità assoluta, e alcune piacevoli conferme, come Octo Octa e Preditah che non faranno certo la storia della musica ma ci hanno fatto sculettare e sorridere il giusto, e soprattutto come il live di Yuzo Koshiro e Motohiro Kawashima.
Chi scrive è fan dei due da prima che fosse di moda riscoprire la musica dei videogiochi degli anni ‘90, quindi l’idea di sentir suonare la colonna sonora di Streets Of Rage dal vivo valeva da sola il prezzo del biglietto: se poi questa costituisce solo il primo quarto d’ora dell’esibizione, che poi si trasforma in un live danzabilissimo in grado di coniugare l’approccio nipponico dei vari Ken Ishii, Takkyu Ishino o Shinichi Osawa con i suoni, dei giochi con cui siamo cresciuti un po’ tutti, capite bene che l’impatto è devastante.
Ovviamente non è stato tutto rose e fiori: speravamo in qualcosa di meglio da parte di Tokimonsta, che invece ha cercato di mettere assieme accessibilità da palco gigante e intellettualismi con risultati molto rivedibili, e siamo rimasti molto delusi dal set dei Jarami: è divertente infilare uno o due classici ogni tanto, ma sul main stage del Sònar due ore di hit mania house ci sono sembrate eccessive.
(Laurent suona Laurent, chiusura del primo giorno del Sónar Dia; continua sotto)
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MASSIMILIANO GRA(SS)I
Zigzagare tra i palchi del Sonar è sempre tanto una gioia quanto una sofferenza: per una perla in cui ci si imbatte, talvolta anche per caso o mossi dalla curiosità di un fugace ascolto preparatorio nei giorni precedenti al festival, qualcos’altro lo si sta necessariamente perdendo. Fa parte del gioco dei festival, vero, ma la cosa rischia di diventare piacevolmente straziante quando le perle iniziano ad essere molte, così come è stato per questo venticinquesimo Sonar. Dal ritorno della tre giorni disco di Despacio, da cui risultava ogni volta difficile staccarsi, al videogiocante live di Yuzo Koshiro x Motohiro Kawashima, a dir poco mitico per noi nostalgici nerd. Per non parlare poi di un Alva Noto tra i migliori mai sentiti e che ha regalato qualche mossettina di piede in più del solito, con un Daito Manabe in mistica adorazione tra il pubblico. Poi, l’ambizioso show da aspirante diva del pop di Rosalía, con il suo trap flamenco che ha rapidamente mandato in sold-out la SonarHall con vere e proprie urla di disperazione di chi era rimasto fuori, e il ritorno del giapponese Cornelius, tra raffinatissime sperimentazioni musicali e video di rara fattezza. Peccato invece per un alquanto piatto e noioso live di batteria e synth di Amp Fidder e Tony Allen, forse in parte anche a causa di un impianto dal suono non proprio perfetto. Passando al De Noche, sono due dei tre ospiti di eccezione che hanno sbaragliato tutto e tutti. I Gorillaz si sono rivelati dei veri e propri animali da palcoscenico, capitanati da un implacabile Demon Albarn che ha rubato il cuore a tutto il pubblico femminile. Ma sono stati gli LCD sounsystem a far letteralmente esplodere di entusiasmo il Sonar. Niente di inatteso ma forse questa volta gli LCD Soundsystem hanno davvero superato sé stessi. Quasi due ore volate in un istante per uno dei migliori concerti di tutta la storia del Sonar. Il terzo big, Thom Yorke, ha invece portato sul palco un concerto piuttosto introspettivo, troppo per aver suonato a notte ormai inoltrata. Se il richiamo di pubblico non ha lasciato agli organizzatori altra scelta che metterlo in scaletta nella immensa sala SonarClub, sarebbe forse stato più piacevole sentirlo in un altro momento e sicuramente non dopo che gli LCD Sounsystem avevano esagitato anche gli animi più pacati. E Laurent Garnier? Non si può non menzionarlo. Se la sua chiusura del festival al SonarPub è ormai quasi un appuntamento fisso, l’altro suo dj-set al De Dia, fatto di soli suoi pezzi, ha ulteriormente ribadito a tutti chi sia il vero re della musica elettronica quando si tratta di deejaying.
(Rosalía ripresa di seminascosto; continua sotto)
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MIRKO CARERA
Ero già stato al Sonar nel 2014, tornando mi ero appuntato e imposto che qualora ci fossi ritornato, sarei arrivato allenato, preparato e con un perfetto programma gestionale redatto nei giorni precedenti all’arrivo. Belle idee, belle regole: riposare la mattina, apporto ridotto di tetracannabinoidi, birra mai prima delle 20, carboidrati nelle quantità giuste, aver ben chiaro cosa vedere, quando e come. Bene. Sono in realtà bastate poche ore di Sonar Dia per capire che il codice di autoregolamentazione che volevo impormi a quarant’anni passati da tre, poteva andare a farsi fottere. Per quanto possiate arrivare pronti, preparati, concentrati a Barcellona, il Sonar vi prenderà, vi rapirà e vi restituirà a El Prat distrutti e stropicciati, ma con quel ghigno strano di soddisfazione di chi sa di non veder l’ora di tornarci. Questo enorme luna park, questo carrozzone culturale (oh sì, non mi stancherò mai di ripeterlo: culturale), ogni anno uguale e ogni anno migliorato, che quasi ha ignorato di aver compiuto un quarto di secolo nell’anno del signore 2018, ha vinto, anzi stravinto.
Dell’offerta musicale di questa edizione si è già detto e ridetto, inutile tornarci sopra. Certo, a voler fare i pignoli si potrebbe suggerire un’app per ricaricare da telefono i braccialetti che servono per le varie consumazioni di cibo e bevande col sistema cashless, ma insomma la fila, perché un po’ di fila al Sonar va messa in conto, si può anche fare. Rimane solo da capire e da discutere, come in un ipotetico bar dello sport musical/elettronico, cosa portare a casa e cosa lasciare al Sonar.
Premesso: al Sonar è impossibile o comunque molto, molto, molto difficile, vedere uno show brutto o anche solo poco interessante; ogni tanto qualcuno buca qualcosa, ma anche lì siamo nel gioco del voler fare le pulci. Parto quindi dal cosa lasciare, dal cosa non mi ha convinto: sicuramente Thom Yorke, noioso, lamentoso senza nessun tipo di verve. Viene da chiedersi, con un filo di malignità: se non fosse il leader di quella band chiamata Radiohead, questo progetto avrebbe un seguito? No secondo me no, ma sono opinioni. A fare il paio con la delusione va aggiunta Octo Octa, e qui qualcuno giustamente arriccerà il naso. Va chiarito come premessa che non ha assolutamente suonato male, anzi, qualcuno dirà che ha spaccato tutto, e probabilmente ha anche ragione; il problema è il come. A parere di chi scrive, fan dichiarato e amante dell’album, quello di Octo Octa è stato un set al minimo sindacale, molto lontano dall’album mirabolante sentito qualche tempo fa.
Cosa portare a casa invece? Il mio amico Rocco, mente dei Body Heat, il lunedì mi diceva: “Il Sonar è tanto, troppo di tutto”. Ecco, in buona sostanza ti porteresti a casa tutto in piena ingordigia, ma questo non è possibile – per cui scelgo chi mi ha fatto rimanere a bocca aperta, chi non appena arrivato a Milano ho contattato per un’intervista e dico: Dinamarca. La formula di questo cileno-svedese è totalmente bizzarra e, volendo, avanguardista: i synth sono trance, le ritmiche invece latinoamericane. Semplice, secco, lineare; il fatto poi che durante il set suoni “Children” di Robert Miles è solo un di più, perché a quel punto il Sonar era già bello che crollato sotto i colpi di una formula che magari è azzardato, come invece ho fatto poco fa, definire avanguardistica, ma che sicuramente è nuova, a modo suo geniale e soprattutto divertente.
(Octo Octa, bene ma non benissimo? Continua sotto)
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COSTANZA ANTONIELLA
Ai festival ci sono sempre andata sì con altissime aspettative nei confronti di quegli artisti che meglio conosco e mi piacciono, ma anche con la voglia di scoprire anche coloro di cui non ho mai sentito parlare o di cui meno mi sono interessata nel corso del tempo. Inoltre, ho sempre pensato che un act non lo faccia unicamente la musica, ma il mix tra dischi suonati (o cantati), il pubblico più o meno caldo e la situazione in generale. Secondo questa mia personale visione delle cose quindi, Damon Albarn e i suoi guadagnano un dieci pieno per la loro esibizione. I Gorillaz, (così come anche gli LCD Soundsystem) sono stati capaci di ipnotizzare il Sónar Club facendo cantare lo sciame di gente venuto a sentirli dall’inizio alla fine della performance.
Superiore anche l’esibizione di Olafúr Arnalds. La fila per accedere al Complex Auditorium al Sónar de Día era lunga quanto quella del Berghain a Capodanno e il live ne ha spiegato il motivo: il pianista islandese ci ha accompagnati in un sogno fatto di giri di piano e sintetizzatori che poche volte nella mia vita sono rimasta così colpita da una performance musicale. Menzione doverosa anche per Cornelius e i suoi, il cui indie rock giapponese non può che essere un’esperienza da fare almeno una volta nella vita. Se ci riuscite, chiaramente, visto che il produttore nipponico è restio a farsi vedere nel Vecchio Continente.
La chiusura del Sónar Dome (casa di Red Bull Music durante la rassegna diurna), affidata a Mumdance e Dj Stingray, è stato uno dei momenti più divertenti del festival. Se è vero che la selezione non è stata tra le più ricercate della storia, è anche vero che il balance tra i dischi suonati dal primo (più incentrati su sonorità UK, con riferimenti alla dubstep e alla jungle) e l’electro proposta dal secondo hanno dato alla tre giorni diurni la giusta conclusione, tra sudore e sorrisi dei vari inglesi rimasti ad applaudirli fino alla fine.
Sottotono invece Bonobo che non ha saputo regalare quell’emozione provata al concerto a cui ho partecipato qualche anno fa: scaletta già sentita nonostante l’album nuovo, più la cantante con la voce tremante: ed ecco che pure un brano come “Break Apart” perde tutto il suo charme. Stesso destino tocca a Thom Yorke che, vuoi l’ora tarda e la non sicuramente facilità dei pezzi cantati, hanno fatto sembrare il live del leader dei Radiohead, più che un concerto, il lamento di uno con un forte mal di pancia.
Assolutamente inspiegabile anche il successo che sta riscuotendo “Close”, il progetto live audiovisivo di Hawtin che riesce ad emozionare come una ciotola di insalata scondita: piatto e senza personalità sono gli aggettivi che mi viene da usare.
Concludo infine con un giudizio positivo nei confronti di Liberato che ha soddisfatto le mie (altissime) aspettative. Non sapere chi sia il misterioso cantante napoletano poco importa, perché il suo essere riuscito a riempire lo stage nonostante non giocasse in casa, vi fa capire quanto la potenza del suo live fatto non solo di brani cantati a squarciagola, ma anche di un gioco di luci e ombre davvero impeccabile, sia riuscito ad ammaliare ed entusiasmare un pubblico esigente come quello del Sónar Festival.
(Cornelius in forma smagliante!)