Questo articolo doveva inizialmente parlare della chiusura, dopo quarantuno anni di vita, del mensile (e per qualche anno settimanale) Il Mucchio Selvaggio. E che c’entra con Soundwall, come argomento? C’entra per motivi molto personali, visto che vi scrive queste righe è finito fra le pagine del Mucchio nel 2002 (con una lunga analisi su Moby, scritta all’alba sdraiato sull’erba di Piazza Vittorio a Roma dopo un weekend passato come tour manager di Frederic Galliano e Llorca) per non uscirne più fino all’ultimo numero. La mia storia lavorativa come giornalista, insomma, è legata a doppio filo al giornale nato nel 1977 da Max Stefani ma reso grande negli anni da firme che hanno raccontato la musica come pochi altri in Italia: fino alla fine degli anni ’90, a parte poche lodevolissime eccezioni, con un piglio abbastanza di retroguardia (tipo che la musica inizia con Neil Young e finisce con Bruce Springsteen, chi è troppo lontano da queste coordinate è una fastidiosa, irrilevante mosca), ma successivamente con uno sguardo a trecentosessanta gradi fresco ed incisivo.
“Sì, ok, ma a noi che ci importa? Se devi parlare dei fatti tuoi e del tuo rapporto col Mucchio, fa’ uno status su Facebook”: no? No. No, perché non voglio regalare le mie opinioni a Zuckerberg su un argomento che tocca comunque anche Soundwall, come qualsiasi testata editoriale musicale e non. Ho un piccolo numero di affezionati lettori in eredità dal Mucchio, più d’uno mi ha chiesto di dire la mia sulla chiusura del giornale, nel momento in cui lo faccio – quindi con la presunzione che ci sia un minimo d’interesse attorno alla cosa – non voglio farlo dirottando questo interesse sui numeri di Facebook. Preferisco farlo sui numeri di una testata come questa, questa che state leggendo. Perché il primo messaggio che vorrei far passare è: non facciamo morire i giornali. Non iniziamo a pensare che l’informazione ma anche la discussione di idee può passare anche solo ed esclusivamente attraverso l’atomizzazione di Facebook, dove non c’è una struttura redazionale, dove c’è disordine, entropia, dove le opinioni sono in libertà (e si vede…). Facebook non “cura” nulla: è un aggregatore, ci offre sì una piattaforma (ottima, molto usabile) ma di suo non dà un contributo intellettuale, di ragionamento. Eppure, è quello che si sta prendendo la più grande fetta di soldi anche dal mondo delle idee. Facebook non riflette, non elabora, non sviscera, non argomenta: quello lo facciamo noi, e appunto un nostro tornaconto lo abbiamo – il poter usare gratis una piattaforma per comunicare e farci conoscere molto solida e usabile, come appena detto – ma sinceramente bisognerebbe iniziare a porsi qualche domanda su quanto questo sistema sia equo. La Comunità Europea lo sta già facendo: magari nel modo sbagliato, magari con posizioni che sarebbero decisamente da aggiustare (e che, l’avrete notato, ha fatto infuriare anche una entità benemerita come Wikipedia). La questione è complessa, non ha soluzioni semplici: è Facebook che ha bisogno degli articoli e dei contributi giornalistici creati dalle migliaia di testate esistenti per il mondo, o sono le testate che hanno bisogno di Facebook altrimenti nessuno saprebbe più dei loro articoli e nessuno li leggerebbe? Non esiste, secondo noi, una risposta netta ed immediata. Ma esiste un problema di riequilibrio dei poteri. I social sono la novità: ma che i social vadano a drenare tutte le risorse economiche investite e generate dal sistema delle idee è un gorgo pericoloso. Perché se tutti i soldi finiscono a Facebook (o Instagram, o…), prima o poi le testate chiudono. Chi pagherà per creare informazione, possibilmente di qualità? E pensate sia possibile una informazione di qualità gratis? Sì, se siete dei ricchi di famiglia e potete lavorare gratis et amore dei perché tanto vi entra mensilmente l’affitto delle tre case che vi ha regalato papà, no se siete delle persone normali.
Quindi ecco: se anche solo dieci views devono arrivare da chi vuole sapere il mio epitaffio sul Mucchio, voglio che planino su una testata, una delle testate per cui scrivo (una di quelle a cui do il cuore), non sul giardino globale di Zuckerberg.
Anche perché il Mucchio è morto, in primis, perché le vendite non erano granché. Ridotte di un quinto rispetto a quando ho iniziato a scriverci, e già a sua volta quando ho iniziato a scriverci erano meno della metà rispetto al decennio precedente, che a sua volta erano meno rispetto ai tempi d’oro. Come mai questo calo, che peraltro non è del Mucchio ma dell’informazione musicale tutta? Facile, ovvio: perché un tempo potevi sapere di un disco, soprattutto se non mainstream, solo ed unicamente comprando una rivista specializzata. Solo ed unicamente andando dall’edicolante, e spendendo le tue lire – poi euro – per comprare Mucchio, Rumore, Blow Up, e prima ancora Rockstar, Ciao 2001, eccetera eccetera. Lì e solo lì trovavi notizie, suggerimenti, nuovi nomi; lì e solo lì, e in minima parte nei negozi di dischi, potevi farti un’idea se un disco meritava i tuoi risparmi, i tuoi sudati risparmi. Un altro mondo. Pare secoli e secoli fa, quando invece è solo questione di un decennio e poco più. Argh. Perché oggi la musica è ovunque, è gratis (o una quota risibile mensile, pari a meno di quello che costava un singolo album, per ascoltare semplicemente tutto quando vuoi e dove vuoi), e la tua opinione puoi fartela tranquillamente tu senza doverti affidare al Damir Ivic di turno e sperare che non abbia farneticato cazzate. I tuoi sudati risparmi ora li butti più a cuor leggero in vestiti, scarpe, viaggi, droghe. La musica – ovvero la forma d’arte più diffusa ed immediata – è gratis. Alé. Gli artisti come campano? Dai concerti, visto che almeno quella è una esperienza non digitalizzabile e non downloadabile, e dal vendere i diritti dei propri brani a sponsor vari e alla televisione e alla radio – con queste ultime due che sono tenute in vita dagli sponsor pure loro.
Insomma, ragazze e ragazzi, ci siamo consegnati mani e piedi ai brand. Sapete una cosa curiosa? Una delle ossessioni, dei lettori del Mucchio più stagionati e vecchio stile, era l’odio nei confronti delle pagine pubblicitarie. Erano viste come non una semplice intromissione, una parentesi che potevi tranquillamente saltare voltando pagina, ma come un insulto, come una bestemmia in chiesa. Un atteggiamento che personalmente ho sempre trovato ridicolo, eccessivo e forse perfino macchiettistico (che male può farti la pubblicità? Se non ti interessa, la salti; e se c’è, sappi che è lei che ti permette di tenere in mano questo giornale, basta che non interferisca coi contenuti), ma che col senno di poi forse bisognerebbe rivalutare. Ribadisco la mia contrarietà a chi è contrario alla pubblicità tout court, mi pare un atteggiamento infantile, ma forse inconsciamente si capiva che c’era una crepa potenziale se si inseriva un elemento terzo fra lettore e redazione. E si reagiva allora scalciando, come i muli.
Il problema è che questo elemento terzo è cresciuto a dismisura. Dalla carta si è passati al digitale, che ha abbattuto drasticamente le spese di produzione, ma senza i banner che appaiono di lato o sopra questo articolo, beh, voi Soundwall non lo leggereste, o se lo leggereste sarebbe meno aggiornato, meno fatto bene, meno qualitativo, molto dopolavoristico, sostanzialmente inutile. Vale per noi, vale per tutti i siti un minimo curati, di musica e non. Per non parlare dei giornali in carta stampata: senza pubblicità morirebbero tutti, con forse solo l’eccezione qua in Italia di Internazionale (e diciamo forse). La soluzione non è eliminare la pubblicità. La soluzione però è capire che esattamente come un mondo delle idee tutto economicamente in mano a Zuckerberg e a Google è un pericolo, lo è altrettanto che l’informazione possa stare in piedi solo ed esclusivamente grazie alle scelte dei direttori marketing di un brand e ai loro investimenti, grandi o piccoli. Perché si diventa ricattabili. E a certi ricatti, se è in gioco la tua sopravvivenza editoriale, in qualche caso proprio lavorativa e quindi direttamente di sussistenza, è difficile resistere.
Tranquilli: a Soundwall nessuno campa di questo quindi no, non siamo e non saremo mai nella condizione di farci condizionare dalle imposizioni di chi ci prende questo o quel banner. Non ci sono abbastanza interessi in gioco, e noi siamo troppo affezionati alle nostre opinioni in musica e dintorni, giuste o sbagliate che siano, quindi le portiamo avanti senza condizionamenti. Se parliamo bene di qualcuno, non è perché ci è stato sventolato davanti un mazzettone di euro per farlo, e al tempo stesso siamo un gruppo di persone abbastanza esperto e consumato nel settore per non farci sedurre dalla prospettiva di un free drink o un promo in più, o di una pacca sulla spalla da parte del dj o producer famoso.
Stiamo divagando, rispetto al Mucchio? Sembra, ma no. Il Mucchio ha costruito il suo mito e le sue prime fortune sul fatto di essere “irriverente”, di avere un approccio libero e non condizionato. Il Mucchio ha resistito tuttavia nel tempo perché poi, per fortuna, all’irriverenza si sono anche aggiunte professionalità e competenza (cose che sono andate via via scomparendo dal suo fondatore, Max Stefani, fino a risultare in lui drammaticamente inesistenti), ma la scintilla originaria dell’essere “contro”, del non farsi condizionare, dell’avere una opinione forte e definita ha continuato ad emettere luce e calore forti abbastanza da far sopravvivere il giornale per molti anni alla sopravvenente, pesante crisi dell’editoria musicale. Diciamo che è stata una compartecipazione di elementi: la fama originaria, il grande, grandissimi lavoro di alta professionalità che è arrivato da metà anni ’90 in poi. C’è stato un momento in cui il Mucchio aveva davvero un dream team di penne del giornalismo musicale: Carlo Bordone un fuoriclasse vero, Eddy Cilìa pure (anche quando non ero d’accordo coi suoi giudizi), Federico Guglielmi un metronomo come nessuno, Aurelio Pasini scandagliatore calibrato dell’indie, Alessandro Besselva Averame super conoscitore di mille cose, John Vignola grandissimo mestiere e capacità di muoversi, Luca Castelli incisiva semplicità e classe, Elena Raugei e Carlo Babando talenti emergenti veri e, insomma, sull’elettronica il sottoscritto non era proprio l’ultimo degli stronzi (anche se hanno scritto pagine molto più importanti di me Fabio De Luca su Rumore o Christian Zingales su Blow Up, per quanto mi riguarda). Eravamo insomma davvero bravi, davvero forti. E facile mi sia pure dimenticato più di qualcuno. Ma sapete che c’è? Eravamo già nella fase in cui la nostra bravura e la nostra forza non sarebbe stata sufficiente di per sé: c’era bisogno del cuscinetto di comprava il Mucchio perché “era il giornale irriverente, era il giornale di Max Stefani” (anche se Max Stefani era ormai irriverente solo di facciata ed era più prono ai compromessi e alla sciatteria di quelli che criticava), senza di loro i numeri sarebbero stati molto più magri. E abbastanza insostenibili.
Questa è una consapevolezza che è mancata quando c’è stata l’ultima grande diaspora, quella che – a Max Stefani vivaddio disarcionato – ha visto partire anche in rapida successione Guglielmi, Cilìa, Bordone, Pasini, Besselva Averame, Babando, Castelli. I motivi della diaspora erano anche possibilmente ragionevoli (una polemica nei confronti di Daniela Federico, colei che prese il posto di Stefani, che invece di fare il direttore-di-facciata e delegare le scelte redazionali decise di dare un’impronta al giornale, con l’aiuto anche di una bravissima professionista dalle idee efficaci e fresche come Beatrice Mele; o semplicemente il fatto di non volersi far coinvolgere da queste beghe). Ma la convinzione di alcuni che il peso della propria firma era decisivo e che senza sarebbe crollato tutto, si sono dimostrate nei fatti campate in aria. Non è una opinione, ci sono le prove: l’abbandono di tutti questi giornalisti non ha fatto crollare le vendite a metà oppure a un terzo, no; le ha intaccato per meno del 10%. Mezza redazione ti va via, una redazione ritenuta da tutti di campioni, di fuoriclasse, e in effetti tale era, però tu perdi solo il 10%? Mmmmh. Da rifletterci sopra.
Il giornale post-Guglielmi, contro le previsioni non tanto di Guglielmi stesso (sempre misurato nei suoi interventi) e degli altri fuoriusciti quanto in quelle del loro manipolo di fan più accalorati, ha avuto per fortuna dei picchi di qualità notevoli. Il manipolo di fan accalorati, spesso più somigliante ad una scalcagnata e spelacchiata canèa, ha avuto da ridire anche per la notevolmente accresciuta presenza femminile nel Mucchio. Messaggio sottinteso: la direttrice è una donna, la caporedattrice è una donna, mo’ vogliono infarcire il giornale di donne – solo perché sono donne, e che vuoi che ci capiscano le donne di musica. Ah be’. Che pena, ragazzi. La verità è che Elena Raugei si è dimostrata subito all’altezza delle accresciute responsabilità, e che altri nuovi arrivi femminili – Claudia Durastanti in primis, ma anche Giulia Cavaliere o la bravissima Chiara Colli – hanno fatto vedere di essere all’altezza delle firme storiche; in altro modo, con altri toni, certo, com’è giusto che sia, ma assolutamente all’altezza. L’anatema post diaspora “Dopo di me il diluvio” (propugnato più dai fan che dai diretti interessati, ripetiamolo) si è dimostrato insomma acqua fresca.
Il problema del Mucchio è stato un altro. Dopo decenni di vacche grasse per cui, giocando abilmente sulla legge dei contributi all’editoria e accettando di buon grado l’aggravio gestionale di trasformarsi in cooperativa, sul giornale diretto da Stefani e amministrato dalla Federico è piovuta una montagna assurda di soldi, roba da centinaia di milioni di lire all’anno a fondo perduto (che in minimissima parte è arrivata a noi collaboratori esterni, pagati più o meno secondo le regole di mercato, ma ha permesso a Max Stefani e Daniela Federico anni di vita tranquilla con stipendi full time di buon livello), quando questa fortuna è stata abolita improvvisamente ci si è scontrati pesantemente con la crisi del settore, con la realtà dei fatti. A Daniela Federico il grande merito di aver portato avanti il giornale anche a condizioni radicalmente mutate e drammaticamente più scomode (…sì, è arrivata allo scontro con Guglielmi e ha causato la diaspora delle migliori – allora – firme del giornale: ma i soldi erano a questo punto suoi, i rischi suoi, era comunque in diritto di farsi le sue scelte… e in buona parte non si sono rivelate errate, soprattutto all’inizio). Un giornale che ha infilato delle stagioni più che buone, e che ad un certo punto si è arricchito della grafica di Francesca Pignataro, che ha fatto un lavoro assolutamente fantastico trasformando il Mucchio – non si offenderà nessuno se lo diciamo – nel giornale musicale di gran lunga con l’immagine migliore in Italia (e, in assoluto, una delle migliori d’Europa).
Ma se tutto era fatto bene, in qualche modo veniva a mancare invece sempre più la componente passionale irrazionale. Che poi era quella che legava lo zoccolo duro dei lettori storici del giornale – pronti a passare sopra a tutte le diaspore e rivoluzioni – ma anche la generazione successiva, quella che ha scoperto il Mucchio tra la seconda metà degli anni ’90 e i primi 2000. Il giornale, insomma, in questi suoi ultimi anni di vita diventava progressivamente sempre più pulito ed elegante – hipster, quasi – ma forse veniva a mancare un po’ di “sangue”. Il che non significa il tremendismo cialtrone di Max Stefani (che infatti, disarcionato, ha provato a lanciare un altro giornale – Outsider – con risultati di vendita più che patetici, dissanguando così anche le risorse di un affezionato e facoltoso finanziatore che gli aveva creduto); significa piuttosto un clima di comunità, di calore, di interscambio non solo coi lettori ma anche all’interno della redazione, cosa che poi in modo quasi misterioso si “sente” anche tra chi legge e basta. Negli anni 2000, Max Stefani faceva la bella vita (e lo raccontava pure) e Daniela Federico teneva i conti (ritagliandosi scampoli di beato benessere pure lei, c’erano i contributi statali, ricordatelo), ma sulla base di un compenso comunque dignitoso il resto della redazione musicale – ma anche letteraria e cinematografica – ci dava dentro con passione, con gioia, ma soprattutto cercando e creando una “chimica speciale”, cosa non scontata. Riprendetevi l’elenco dei fuoriusciti, da Guglielmi in poi, riprendetevelo: sono tutte persone con cui sono stato onorato di lavorare, ma non solo, sono persone con cui è stato esaltante anche umanamente lavorare, e che ancora adesso sento come amiche, tranne un’eccezione, ma magari si sistemerà pure quella. Il Mucchio davvero mi ha donato un privilegio eccezionale, che vale più delle (piccola, risibile) notorietà acquisita nell’ambiente: lavorare con quella che era la redazione che ha portato avanti il giornale negli anni 2000, con quelle persone lì. La diaspora ci ha separato, ma non ci ha fatto perdere nulla della stima ed amicizia reciproca, pure al netto di alcune divergenze d’opinione (ad esempio, c’è chi è possibilista ancora oggi su Massimo Del Papa, l’opinionista politico a lungo tempo del Mucchio: dopo le sue mosse e le sue uscite degli ultimi anni per me è solo un povero frustrato rabbioso e patetico, uno che avrebbe fortemente voluto farcela ma, non avendocela fatta, è finito di brutto nella sindrome della vole e l’uva; ma sono opinioni, lui di me penserà ancora peggio, amen).
Esiste una verità poco poetica, però, ma cruciale: se le risorse sono scarse, si lavora peggio. Si ha meno tempo, si può dedicare meno tempo a “creare gruppo”, a scambiarsi idee, a creare la “chimica”; perché se tu da un giornale prendi 500 euro al mese, puoi dedicarci x tempo, se ne prendi invece 200, puoi dedicarci molto di meno. Fai quello che devi fare, e poi devi correre a pensare ad altre scadenze ed altre consegne per altri committenti, editoriali o meno che siano. E in questo modo la passione scema sempre di più. Ma vale anche per chi sta in redazione, a tirare le fila: avere sempre meno risorse per il giornale significa fare sempre più fatica ad ottenere contenuti buoni a costi però dimezzati o meno. Vero: la direzione negli ultimi numeri era sempre più distante o assente, e ad esempio l’ultimissimo restyling grafico – bello, elegante, ma freddino – è stato fatto coinvolgendo ad esempio zero il sottoscritto che, insomma, era pur sempre ormai anche solo per forza d’inerzia una delle firme principali del giornale; questo sarebbe il meno, è che in generale partiva dall’assunto per cui era il contenuto ad essere al servizio della grafica e non il contrario, e che era più importante avere un giornale “gestibile” (più facile e veloce da assemblare) piuttosto che uno ricco in quantità e qualità di contenuti testuali, all’inseguimento di una “essenzialità da web” che però, su carta, non ha ancora dimostrato manco una volta di poter essere una scelta vincente, ad oggi. Però ecco, ne faccio una critica fino ad un certo punto: con le vendite in calo (lo ribadiamo: in calo per il Mucchio, ma in calo per tutti, chi più chi meno) e con quindi le risorse all’osso, diventa tutto un’urgenza, diventa tutto una lotta per “fare” le cose – “farle bene” diventa un lusso non più sostenibile. Anche solo se si tratta di avere un rapporto più “orizzontale” con la redazione, che è una cosa che implica tempo da parte di entrambe le componenti.
Poi vabbé, giornale sarebbe andato avanti ancora un po’, ma quando è arrivata una sentenza ingiuntiva che rimetteva in campo alcune pretese di Max Stefani, col rischio quindi di depauperare di tot migliaia di euro le casse della società che già erano a filo, si è deciso di chiudere il giornale. Decisione razionalmente accettabile, e il fatto di chiudere così bruscamente, senza preavviso, dipende anche e soprattutto dalle appena citate beghe legali; però ecco, chiudere così è stato bruttino. Senza nemmeno un ultimo numero. Senza la possibilità di salutare i lettori. Senza un momento di orgoglio e di onore delle armi che faccia dire “Ok, la corsa termina qua, ma accidenti – è durata quarantuno anni. Quanti possono dire altrettanto?”. Onore che sarebbe stato meritato in primis anche da chi, negli ultimi anni, sul Mucchio ci ha scritto gratis, perché è successo anche questo (…no, non a me).
Si sono dilungati in tanti, sul web, sull’importante culturale del Mucchio, di un giornale come il Mucchio. Non lo faremo qui, non è questo il punto. Qui però vogliamo riprendere – legando gli argomenti – quella che è la notizia del giorni nel campo dell’editoria musicale: la scelta di Rolling Stone di fare una copertina non solo politica ma proprio politicamente schieratissima, in chiave anti-salviniana, chiamando all’arme contro il pericolo di un’Italia a misura di Salvini o comunque di quello che pare essere il suo elettorato di riferimento (parere personale, infatti: Salvini in fondo ci pare un gran democristianone col surplus dell’uso cinico del populismo, di suo non è razzista o para-fascista, lo è solo perché ha capito che per ora gli conviene elettoralmente). La cosa ha suscitato un mare di discussioni, andatevele a cercare sul web.
Proviamo a riassumere le varie posizioni? Da quelle dei fan hardcore del capo della Lega, che oscillano dai semplici insulti, alla derisione sarcastica, al ma-chi-cazzo-siete-voi, o dei fan più moderati, trincerati dietro all’occupatevi-di-musica (ma si sa, non avessero simpatie per Salvini non l’avrebbero mica detto “Occupatevi solo di musica”: se la copertina fosse stata pro cavaliere delle ruspe, gli sarebbe andato bene il non occuparsi per una volta di musica); fino alle critiche “da sinistra” alla scelta di Rolling Stone: sì ok il messaggio, ma lo fanno solo per farsi notare; sì ok la copertina, ma loro che credibilità hanno, son marci quasi più di Salvini. Ci si è messo poi pure Enrico Mentana a cannoneggiare l’iniziativa, non nei contenuti ma nella forma e nella correttezza (e giustamente: è stata sbandierata dal giornale una sua adesione al tutto che invece non c’è mai stata).
Ora: che possa essere stata anche una scelta paracula fatta per calamitare l’attenzione, lo penso anche io. Che ci sia del calcolo, sì. Che ci possa essere dell’ipocrisia o comunque un calcolato “due pesi, due misure” (perché presso un certo tipo di ceto sociale sparare a zero contro Salvini fa chic e non impegna, ma fare lo stesso con altri invece è un problema e una semplificazione volgare), anche. Ma la verità è che Rolling Stone avrebbe potuto fare l’ennesima copertina con un musicista (uno storico che fa da usato sicuro o uno trap che forse calamita i giovani in edicola, fate voi), sarebbe andato avanti più o meno tranquillo, non avrebbe scontentato nessuno. Non è detto che questo schierarsi pesantemente contro Salvini e contro l’idea di Italia che (per ora) propugna, faccia guadagnare fan e lettori. Potrebbe invece anche essere controproducente, certezze non ci possono essere, comunque è un rischio che si corre. Se calcolo c’è (e c’è: lo stile di Massimo Coppola è un po’ quello), è comunque un calcolo con un risultato dalle molte incognite.
Bene: a noi sembra un bene a prescindere che un giornale si schieri. Che dica chiaramente “Noi prendiamo questa parte, noi vogliamo difendere questo tipo di valori, eccoli qua”. Anche se è un giornale di musica, sì. E anche se lo fa pure un po’ per calcolo.
Il punto è che i tempi moderni, e soprattutto l’avvento dei social, ci hanno diseducato alla diversità e alla discussione. E’ un paradosso: proprio la moltiplicazione dei canali comunicativi gratuiti (che hanno affossato economicamente l’editoria, coi rischi descritti un po’ di paragrafi più sopra…), invece di educare alla diversità e alla pluralità ha accentuato un senso stizzito e tribale per cui una opinione non perfettamente coincidente con la propria viene passata e considerata subito come inaccettabile, come senza dignità; o, altra faccia della stessa medaglia, si cerca sempre il retroscena, il complottismo, il “so perché lo fai in realtà”, che diventa un altro modo per delegittimare la possibilità che una opinione che non sia la propria – che non sia proprio espressa da noi – sia messa sul campo.
Rolling Stone, con la sua copertina, ha sollevato un dibattito. Che ora starebbe a noi far diventare alto, invece di dividerci in ultrà che abbaiano al reato di lesa salvinità e di (supposta!) imparzialità della musica, oppure di quelli che deprecano anche una posizione su cui sono d’accordo perché, ecco, l’ha espressa Rolling Stone. La vera cosa da criticare sarebbero i modi con cui Coppola ha infilato Mentana (e forse altri…?) nell’elencone degli aderenti, quella sì; ma che un giornale di musica se ne venga fuori con una copertina con scritto “Noi non stiamo con Salvini” è un fattore interessante, importante, educativo anche.
E’ uno schierarsi. E’ un mettere sul banco un’opinione netta. Che è sempre sano. Che è stato un fattore importante, decisivo nella vita e nelle sorti del fu Mucchio Selvaggio, ad oggi ancora la più longeva testata dedicata alla musica (e dintorni) in Italia. Poi può anche essere (ed è) che il Mucchio maxstefaniano si schierava contro le ingiustizie e le pastette sì, ma poi il suo direttore era il primo a perpetrarle, predicando bene ma razzolando malissimo; così come può essere che oggi su Rolling Stone Massimo Coppola abbia messo in campo questo improvviso impegno politico solo per calcolo cinico. Ok. Ma quel che conta è riscoprire una passione civile sana, partecipata e pronta al confronto, non ‘sta roba attuale che da un lato è permeata di disprezzo ed indifferenza verso la cultura e la musica e l’informazione attorno ad esse (manco merita di essere pagata…), così come verso la politica, dall’altro però spinge subito a prendere posizioni manichee prive di qualsiasi forma di possibilismo, di mediazione, di “cerchiamo di trovare un punto d’incontro che possa andare bene ad entrambi, se analizziamo con attenzione la questione”. Perché tanto per stare al Mucchio degli anni più belli, potevi pure non essere d’accordo con una recensione, ma erano scritte spesso talmente bene e talmente con competenza che solo i più poveri di spirito e disperati – quelli fisiologicamente non mancano mai – potevano partire con gli strilli e gli insulti, per la maggior parte era “Non sono d’accordo, ma ti rispetto, hai preso una posizione”.
Ci sarebbe piaciuto leggere di più, sul web, pareri sulla copertina anti-ruspe di Rolling Stone del tipo “Non sono per nulla d’accordo politicamente, ma ok, almeno vi siete schierati, non per questo se mi date articoli di musica validi smetterò di comprarvi”, oppure “Forse è una scelta opportunistica la vostra e vi serve per farvi notare in edicola, però al diavolo, lanciate comunque un messaggio per me importante”. Questo è il tipo di civiltà che dovremmo recuperare, e che si sta perdendo. Tutti quelli che dicono che la scomparsa di un giornale storico come il Mucchio sia comunque una perdita per il dibattito culturale in Italia, ecco, iniziassero magari a ripopolarlo, il dibattito, con questo atteggiamento più pacato, più – possiamo dirlo? – intelligente. Un misto di passione ed equilibrio, dove uno chiama l’altro, esattamente come nel Mucchio migliore militanza musicale chiamava professionalità e competenza nella scrittura.
Nel frattempo, se vi manca il Mucchio, comprate quelli che erano i suoi primi, storici competitor: Rumore e Blow Up. Pur con tutte le difficoltà e le ristrettezze e le ormai fisiologiche imperfezioni, sono fatti con passione, competenza, provano a tenere alto il dibattito culturale attorno alla musica creando un lavoro di redazione, dando vita ad un salotto attorno a cui riunirsi analizzando con calma, non un abbaino da cui sporgersi da soli urlando solo la propria opinione, senza il gusto di leggere ed ascoltare quella altrui. Che è quello che un dibattito che passa solo su Facebook rischia di farci diventare, tutti.
Se siete qua perché volete sapere come la vedo sulla chiusura del Mucchio, sappiate che dando un clic a Soundwall e non a Zuckerberg avete dato un micro-contributo a farmi continuare a scrivere. Se siete qua perché pensavate di trovar zuffa su Rolling Stone, Coppola, Salvini e la copertina, sappiate che a me Coppola non piace – per quel che lo conosco come personaggio pubblico, solo per quello – ma la sua scelta come copertina sì. Se siete qua e siete arrivati sino in fondo nonostante il numero di caratteri sia prossimo ai 30.000, bravi: al di là che vi piaccia o meno quello che ho scritto, siete fra quelli che vogliono approfondire e, se sentono un ragionamento, vogliono seguirlo fino in fondo, anche senza andarci per forza d’accordo. E vaffanculo a chi dice che “…oggi, la gente, con internet, vuole solo articoli di due righe, inutile e stupido fare ragionamenti complessi, oggi vanno bene solo poche cose – poche, chiare e subito”. No. Non mi avrete.
Perché i ragionamenti sono preziosi. L’informazione anche. Il confronto pure.