Per chi non lo sapesse: Tony Colman, il deus ex machina della sigla London Elektricity, è una delle figure chiave per la drum’n’bass degli ultimi, mmmmh, vent’anni o giù di lì. La drum’n’bass più morbida, comunicativa, anche jazzy e di classe. La drum’n’bass della Hospital, una delle etichette più longeve e rilevanti nel genere, che appunto di Colma è la casa madre. Così come è la casa madre di eventi di grande spessore e riscontro numerico: Hospitality. C’è stata una declinazione “da spiaggia” le scorse settimane, in Croazia, mentre a settembre – il 23 – si torna a Londra, precisamente a Finsbury, con Hospitality In The Park (e headliner come Goldie, Foreign Beggarsi, Children Of Zeus). Insomma: questa è una chiacchierata con una persona di spessore, con un sacco di esperienza alle spalle e risultati notevoli, artistici e non solo, nel passato, presente e futuro. Spessore per spessore, abbiamo provato a sorprenderlo, impostando l’inizio della nostra chiacchierata non su, come sarebbe stato prevedibile, la drum’n’bass ma andando invece a scavare ancora più indietro nel passato…
Devi sapere che è veramente una soddisfazione parlare con te. London Elektricity, Hospital Records, certo; ma fammi aggiungere anche: Izit.
(risate, NdI) Accidenti! …però è vero, per qualche motivo in Italia gli Izit hanno avuto un bel seguito, all’epoca. In Italia, eh, e anche in Giappone. Davvero curioso. Dalle vostre parti abbiamo fatto date, ricevuto attenzioni dai media, addirittura stringemmo – se ricordo bene – un accordo abbastanza grosso con Benetton e Sisley, che volevano la nostra musica. Non male.
Ti riascolti ancora il materiale fatto ai tempi degli Izit? Riaffiora, di tanto in tanto?
E’ divertente, se ci pensi: praticamente qualsiasi genere musicale emerso negli anni ’80 e anche negli anni ’90 ha avuto il suo comeback, il momento in cui tornato di moda all’improvviso, qualsiasi; ma l’acid jazz, no. Almeno, in Inghilterra è andata così.
Anche in Italia, direi.
Ecco.
Ma come mai?
Perché, diciamo la verità, da un certo momento in avanti quello che usciva come acid jazz era veramente cheesy. Quindi ci può decisamente stare che si guardi ad esso ancora adesso con grande sospetto. Però, dal punto di vista personale, credo all’epoca di aver composto delle canzoni non male, almeno alcune. L’acid jazz è una musica di, quanto?, ormai trent’anni fa; però la cosa curiosa è che se la sposti su una ritmica drum’n’bass contemporanea ci sono alcune soluzioni che ancora oggi possono funzionare molto bene e suonano anzi molto attuali. E’ divertente pensare come molti fan di London Elektricity oggi all’epoca in cui uscivano le cose degli Izit non erano manco nati… Però sì, lavorando all’ultimo disco avevo tirato fuori ad un certo punto delle vecchie registrazioni, dei multitraccia, risalenti a quel periodo lì e sì, c’era del materiale buono, davvero buono. Non tutto però. Ci sono cose di cui vado orgoglioso e altre che… beh, erano veramente stucchevoli!
Com’è avvenuto comunque il tuo incontro con la drum’n’bass, che poi è quello che ti ha davvero cambiato la vita artistica?
1994 o 1995, non ricordo l’anno esatto. Ma ricordo bene cosa ha fatto scattare la scintilla: “Timeless”. Il disco di Goldie. Con un gran bella mano di Rob Playford alle produzioni. E la voce di Diane Charlemagne, pace all’anima sua. Quel disco, guarda… quel disco mi ha fatto scoprire una musica che avevo – come dire – sempre sognato e desiderato che esistesse. Ed era lì, eccola. Questo per molti motivi. Perché a me è sempre piaciuto il reggae, e nella jungle / drum’n’bass ovviamente ci sono molti elementi giamaicani; piacendomi il reggae, tra l’altro, mi sarebbe anche piaciuto giocarci un po’, portarlo su BPM inusuali, ma all’epoca nella scena acid jazz c’era questa specie di regola non scritta per cui non dovevi azzardarti ad andare sopra i 95 bpm. Quindi boh, figurati quando ho sentito queste cose folli a 140, 150 bpm… rimasi estasiato, a bocca aperta. A questo aggiungi il fatto che all’epoca vivevo a Tottenham, Londra Nord, e proprio nella via in cui abitavo c’era la sede di Shut, Up & Dance, uno dei pionieristici team di produzione jungle. Inevitabile arrivare a conoscersi, iniziare a sentire la loro musica… Ascoltavo e pensavo: “Ok, questo sono io”. E poi: “Questo è quello che voglio fare”. Ovviamente, a modo mio. Quando ho iniziato assieme al mio amico Chris Goss a far uscire roba come London Elektricity, la mia visione sonora era, mmmmh, lounge-core. La definizione che si potrebbe usare è questa. Molte parti analogiche, un sapore in certi momenti quasi “loungey”, anni ’60, musica da ambienti raffinati, ma il tutto adagiato su un’architettura drum’n’bass. Ecco, questo approccio mi ha fatto sentire talmente a mio agio che ancora adesso continua a essere quello che perseguo. Quindi sì, luounge-core ci sta come definizione, esattamente come ci sta una che ho usato più volte per definire quello che faccio, “fast soul music”. Sai, io amo le grandi orchestrazioni: uno dei grandi musicisti di sempre per me è Ennio Morricone, per intenderci. Ha scritto talmente tante di quelle cose che, ancora oggi, mi capita di scoprirne di nuove – e assolutamente bellissime. Il mio prossimo lavoro credo che sarà un tributo alla sua musica: no, non mi metto a fare delle cover di pezzi suoi, vorrò solo provare a fare un tributo, da compositore, alle emozioni che è stato capace di suscitarmi negli anni, con la sua musica. Tra l’altro, l’ho visto l’anno scorso a Londra, con l’orchestra, ed è stato pazzesco. Che poi torna pure quest’anno: ogni volta che dice che questo sarà il suo ultimo tour, ma invece… Comunque, dovendo citare un’altra influenza musicale per me importante, ti citerei anche gli Stereolab – sempre a proposito di quel sapore elegante, anni ’60.
Ormai sono venticinque anni che tu e la drum’n’bass siete “sposati”. Ci sono stati mai dei momenti di crisi in questo menage?
Ce ne sono stati all’inizio, guarda. Quando ho iniziato a fare drum’n’bass e abbiamo fondato la Hospital, ecco, credo che ci fossero un po’ di resistenze. A fine anni ’90 la scena d’n’b era molto circoscritta, e tra l’altro arrivava da un periodo in cui, ecco, erano molto importanti le “politiche” interne alla scena. C’era tutto un sistema di valori, regole, relazioni; arrivavamo noi, all’improvviso facendo qualcosa di molto diverso, dal nulla, e credo che all’inizio furono in tanti che semplicemente non ci capivano, non riusciavano a capirci. Quando io e Chris, assieme a un nostro amico di nome Oscar, facemmo uscire “Hard Of Gold”, a nome Peter Nice Trio (…nome scelto perché ci ricordava come assonanza l’espressione “penis tree”, pensa che scemi che eravamo!), mandandolo a negozi di dischi specializzati e dj vari ricevemmo dei feedback che, beh, diciamo che erano spesso un po’ così. Le reazioni arrivavano via mail o via fax, a seconda di quanto era tecnologizzato all’epoca il tuo interlocutore, e un giorno ci arrivò un fax di un negozio di dischi dove era scritto a mano, in caratteri giganteschi, “WE DON’T SELL GAY JUNGLE”. Abbiamo riso tantissimo! Anzi guarda, col senno di poi ho un grosso rimpianto: non aver conservato quel fax. Avremmo dovuto incorniciarlo. Perché lui, proprio lui ci ha fatto capire che poteva avere un senso quello che stavamo facendo, che avesse un suo perché: visto che se era in grado di provocare reazioni così forti, vuol dire che aveva una identità, nel bene o nel male era significativo, non passava indifferente. Sai, in quegli anni nella drum’n’bass tutti erano nel trip del cupo, scuro, c’erano teschi, alieni, quelle cose lì; il che va benissimo, sia chiaro, ma noi volevamo trovare il modo di differenziarci, di avere una nostra identità. E’ stata comunque “Song In The Key Of Knife”, come release, a cambiare definitivamente le cose. Lì hanno iniziato a prenderci tutti sul serio. Noi, la Hospital. E’ lei la traccia che ha veramente fatto fare il salto di qualità. E che ci ha fatto capire che sì, quello che facevamo avrebbe potuto avere una storia, un futuro…
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…e l’ha avuto. Praticamente venticinque anni di futuro. E chissà quanto ancora ne avete davanti. Quali possono essere stati i momenti migliori, in questi venticinque anni?
Ma guarda, le cose sono andate avanti in modo direi incrementale: tante piccole cose belle, stratificatesi man mano andando avanti. Dura scegliere due, tre momenti ben precisi. Forse la prima volta che suonammo “Song In The Key Of Life” dal vivo, praticamente due giorni dopo averla terminata: io e Chris avevamo già bookato delle date in Giappone, andammo là, la provammo e… la reazione della gente fu incredibile. Un altro momento cruciale sicuramente è stato imbattersi, quasi per caso, in Hight Contrast, in un negozio di dischi a Cardiff. Poi, non so, il primo live di London Elektricity con una band vera e propria, quello con la big band poi, una vera e propria orchestra, o anche quando nel 2000 abbiamo iniziato a fare le nostre prime serate, a nome Herbal, in un piccolo club di Londra: io facevo praticamente il barista e le liste all’ingresso, mia moglie mi dava una mano, la serata nacque così. Mentre guarda oggi, facciamo eventi da migliaia di persone. Incredibile, no? Guarda, Hospitality come evento è cresciuto così tanto che addirittura abbiamo deciso di sbarcare con una versione estiva, in Croazia. Non l’avrei mai creduta possibile, una cosa del genere, invece niente, fra una settimana siamo lì, succede davvero. E’ fantastico, tutto questo. Tra l’altro, credo che questa prima sortita in Croazia regalerà sicuramente dei ricordi memorabili. In bene o in male questo ancora non lo so, ma sento che li regalerà… (ride, NdI)
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Perché hai scelto la Croazia?
Per capire dove andare a fare un “beach party” abbiamo impiegato qualcosa come tre anni di ricerche. Il Garden, a Tisno, è perfetto: ha tutte le infrastrutture. Non è un caso che Outlook abbia iniziato da lì, o che ora ci siano Defected, Soundwave, tutti festival più o meno delle nostre dimensioni. La capienza è quella giusta: 3000. Anche dal punto di vista logistico-geografico il posto è interessante: è isolato, lontano dal paese vero e proprio, l’impianto è rivolto verso il mare quindi non disturbi nessuno, volendo puoi andare avanti con la musica ventiquattro ore su ventiquattro. Attorno ci sono le strutture perfetto per l’accomodation, poi. Insomma, tutti si incastra alla perfezione. Per almeno un paio d’anni, sarà un posto perfetto per noi, per le nostre esigenze. Poi vediamo se sarà necessario cambiare.
Fino a che punto sarà un festival di, per citare quel negozio di fine anni ’90, un festival di “gay jungle”?
(risate, NdI) Beh, noi siamo molto tolleranti! Scherzi a parte, oggi la parola “gay” viene usata spesso in senso dispregiativo, e questo non va bene. Negli anni ’90 aveva una connotazione meno pesante, più giocosa, ci stava venisse usata in quel contesto da quel negozio. Comunque, venendo alla risposta: ad Hospitality In The Beach in Croazia ci saranno tanti stili diversi di drum’n’bass. C’è una cosa di cui siamo molto orgogliosi: abbiamo un pubblico in cui c’è una forte presenza al femminile. Ci sono alcuni filoni della drum’n’bass odierna che hanno un pubblico quasi esclusivamente maschile, che hanno insomma un po’ una estetica “da salsiccia” – esiste in italiano l’espressione? Non così con Hospitality: i nostri sono eventi dove c’è un pubblico veramente vario e multiforme e, sinceramente, questa è una cosa di cui vado molto orgoglioso. Più c’è diversità, più io sono contento. Fammi anche sottolineare come ci siano anche in line up varie dj donna. Noi incoraggiamo molto la presenza femminile in console: per troppi anni è stata sottorappresentata e pensiamo, invece, che faccia molto bene alla scena tutta.
A proposito di “scena tutta”: come vedi il futuro della drum’n’bass? Una musica, che a sentir molti, dovrebbe essere già morta e stramorta… fuori tempo massimo, fuori moda…
E’ dal 1999 che la drum’n’bass sta per morire! Ogni singolo anno lo dicono! Eppure, eccoci ancora qua. Per me la drum’n’bass è ormai come il reggae. E’ una musica lunga una generazione: ha trent’anni, iniziano ad esserci i primi casi in cui figli e genitori vanno insieme agli eventi. E questo, credimi, è splendido. Tra l’altro significa anche che l’audience a cui ti rivolgi è diventata molto più vasta, altro che crisi, altro che genere che muore. Un tempo la drum’n’bass era ascoltata esclusivamente da un range di età circoscribile diciamo ai 18-25. Oggi? Oggi, siamo al 10-50, anzi, 10-60. Si sta molto meglio così. In generale, la drum’n’bass è diventato un sistema abbastanza grande da poter sopravvivere in modo completamente indipendente dalle mode, ma al tempo stesso non è così grosso come sistema da attirare gli opportunisti, quelli che usano la musica per ottenere successo volecemente. Amo questa cosa. Chi sta accanto alla drum’n’bass lo fa perché la ama, non è perché è di moda – o perché gli serve. Difficile immaginarsi una situazione migliore.