Il riferimento inevitabile, beh, è David Foster Wallace, esattamente questo libro qui. Recuperatelo, se non l’avete letto: è una delle sue opere più divertenti. Uno sguardo disincantato – e non per forza prevenuto – su cosa significa farsi l’esperienza di una crociera. Un “divertimentificio” di (finto) lusso, dove in qualche modo sei obbligato a divertirti, a stare bene, e dove la malinconia – che un po’ ti viene – la devi tenere nascosta per conversazioni un po’ carbonare con altri dissidenti del divertimento come te.
Temevamo un po’ questo, vero; e temevamo anche una situazione un po’ claustrofobica pure dal punto di vista del clubbing, perché questo format delle “crociere techno” (passateci il termine ultra-grossolano) c’aveva sempre insospettito un po’, visto da lontano. La paura, a dirlo senza troppi giri di parole, era ed è di trovarsi giorni e giorni intrappolato in una nave con orde di giovinastri inglesi e centro-europei strafatti e molesti, con l’ansiogena sensazione di non avere vie di uscite (…sei in mare aperto, che vie d’uscita vuoi avere?). Finivi insomma in un girone dantesco di forzati del divertimento, e non ne potevi uscire. Poi, per carità, bello il divertimento, bello bere e bello viversi la vita, chi lo nega mente: ma pensare e fare solo quello, ecco, non è l’ispirazione della nostra vita, men che meno ne è l’aspirazione.
Però le crociere ci sono, son lì. Anzi, stanno prendendo piede, come format. Le cose van provate. E se poi ti invitano pure gentilmente, sarebbe stupido dire di no. Quindi eccoci: alla fine ci siamo imbarcati su The Ark, nel suo secondo slot, quello della prima settimana di settembre. Siamo stati prudenti, abbiamo optato per l’opzione breve: si partiva a Barcellona, si faceva scalo a Sete (la cittadina che ospita il Worldwide di Gilles Peterson, per inciso) il giorno dopo, poi ai giornalisti veniva data la possibilità di abbandonare definitivamente il tutto il terzo giorno ad Ibiza, rinunciando così al quarto giorno (scalo a Palma) e quinto (ritorno a Barcellona). Del tipo: “Ok, vediamo com’è, se proprio è una cosa insostenibile tanto dopo due giorni e mezzo è finita, possiamo fuggire”.
La partenza è stata, beh, qualcosa che un po’ alimentava i pensieri un po’ foschi: nel terminal crociere di Barcellona, non solo c’era già la fila per le pratiche d’imbarco ma c’era anche una console pronta a sparare house – di buona qualità, peraltro – a tutto volume all’interno del gate del terminal, per la soddisfazione generale. Bello? Volendo, sì; ma volendo, anche qualcosa che ti fa pensare “Ecco, la musica mi perseguiterà 24 ore su 24, non ci sarà un momento di pace, aiuto. E sono attorniato da gente che vuole invece esattamente questo”.
Ok. Facciamola breve. Non è andata così. E’ andata in un modo che effettivamente ci ha sorpreso. Prima cosa da dire e da raccontare: la gente. Età media sorprendentemente alta, se arrivi lì pensando (appunto…) al girone dantesco di ventenni infoiati col chiodo fisso della festa in testa: sì inglesi e centro-europei, erano loro il primo pubblico di riferimento, ma tanti trentenni, tanta gente sorridente ma tranquilla, a dimostrazione di come il clubbing possa essere – e sia diventato, almeno all’estero – anche un hobby e una passione da gente un minimo cresciuta e rispettabile, non la parentesi giovanile prima di “…mettere la testa a posto”. D’altro canto il prezzo per imbarcarsi in una crociera di questo tipo non è bassissimo, devi avere un potere di spesa di un certo tipo, e all’estero non è uso farsi pagare le cose e i divertimenti da mamma e papà. Quindi, se ti puoi permettere di sganciare dai 700 ai 2000 euro per persona per un’esperienza del genere, o sei ricco di famiglia o sei uno che si fa il mazzo (e sa cosa significa farsi il mazzo).
Terza soluzione per avere grana in tasca, quella politically uncorrect, ma anche quella spesso percorsa da chi vuole andare a Berlino o Ibiza a sbarcare il lunario pensando che si possa far fiesta ventiquattro ventiquattro e che la vita sia soprattutto quello: magari fai lo spacciatore. Bene: ciao. Ciaone proprio. La policy è strettissima, i controlli sono accurati, droga a bordo non ne puoi portare. Punto.
Mettete insieme tutto questo. L’idea di trovarsi a fare tre giorni con una masnada di ventenni in botta perenne, beh, è caduta quindi subito, rimpiazzata da qualcosa di molto più piacevole nella realtà dei fatti. Rimpiazzata da gente come te, ecco: gente curiosa, che aveva voglia di rilassarsi qualche giorno, di respirarsi un po’ di aria di mare, di stare a mollo in piscina sotto il sole e di farlo potendo contare su una colonna sonora di qualità. In relax. Sì: il relax è stata veramente la parola d’ordine dell’esperienza. Un relax così diffuso e pervasivo che la sera, quando c’erano le club night vere e proprie (con headliner notevoli, grazie in primis a Burn: Luciano, Loco Dice, Nastia, Hot Since 82), non ti sorprendevi manco di più di non ritrovarti in un mega-club galleggiante con gente assatanata, ma invece in spazi che erano o open air ed ariosi (bordo piscina) o clubbettini da 300 persone dove la vibra era perfetta: felice, appassionata ma mai eccessiva. Alcol? Certo, se ne beveva; ma non in quantità smodate (anche perché quello era a pagamento, su The Ark, al contrario del cibo – pure molto buono – che era a disposizione 24 ore su 24 gratis per gli ospiti). Scene di deboscio e degrado? Non ne abbiamo visto. Ok, un inglese che cantava, solitario, inni da stadio sulle scalinate interne della nave, una notte. Stop. Questo il massimo di teppismo riscontrato.
(lunch with a view, su The Ark; continua sotto)
La cosa importante da dire, peraltro, è questa: club culture è cultura e socialità, come ripetiamo spesso, ed è soprattutto un bel tipo di cultura e socialità. Nelle crociere standard, come raccontato anche da Foster Wallace, c’è appunto il “divertimento forzato”, una serie di attività molto banali e molto da “generazione passata” e/o da “gente normale” (o supposta tale), attività che dovrebbero divertirti ma sono davvero molto il prodotto di una visione banalizzante e massificata del divertimento, quel format insomma di animazione-da-villaggio-turistico che a chi scrive piace zero e, insomma, spero sia lo stesso per voi che leggete. Chi segue la club culture, tendenzialmente trova un po’ sorpassate e poco interessanti queste cose, cerca di più, cerca altro: meglio parlare, fare amicizia, ascoltare, ballare, farlo senza bisogno di un animatore che ti dia ordini (meglio un buon dj che suoni buona musica!) e di un programma di bordo che ti tratti come una pecora che va fatta pascolare, offrendoti una serie di intrattenimenti anacronistici ed iper-collaudati nei decenni. Per noi, scusate, è un gran bel passo in avanti.
Non abbiamo mai trovato, in The Ark, quella sensazione di divertimento obbligatorio, imposto e standardizzato, che invece caratterizzava l’esperienza di Foster Wallace (che pure, lo ripetiamo, ha scritto un libro che non era un inno al pregiudizio). E’ stato tutto a misura d’uomo. A misura di appassionato di techno e house, ma senza gigantismi, senza massificazioni. La nave era sold out: eppure, è stato sorprendente vedere come non ci fossero mai assembramenti, mai ammassamenti, mai spintonate, mai molestie, tutto il campionario insomma che spesso a volentieri affligge gli eventi di clubbing puro che sono sold out o che raccolgono grandi numeri. Anzi, ti chiedevi ogni tanto: “Ma la gente dov’è? Non è che un sold out finto?”. Poi però quando il tempo era bello e la brezza marina dalla tua, salivano tutti sulle piscine in cima alla nave e sì, la gente c’era. Tanta. Tutta presa bene. E’ stata davvero un’esperienza di qualità.
(Nastia in azione, foto di Nachtschaduw; continua sotto)
Noi poi di qualità ne abbiamo trovata parecchia anche in lunghe chiacchierate con Nastia, Loco Dice e Luciano su un tema ben specifico – ma di questo ne parleremo in un altro articolo, fra qualche giorno. Una cosa sicuramente da dire è che, come accennato, era fortissimo il marchio Burn e della Burn Residency su questo secondo slot dell’esperienza The Ark: hanno suonato tutti i ragazzi finalisti di quest’anno (compreso il nostro David Di Sabato, che ha fatto un’ottima figura e ci è sembrato molto cresciuto rispetto a un anno – segno che è un’esperienza che fa bene), c’è stata qualche ospitata molto gradita (sempre parlando di italiani, Lollino – campione mondiale due anni fa), gli headliner citati prima erano e sono tutti ambassador della Burn Residency (e sembravano tutti molto coinvolti nel progetto), soprattutto la terza sera c’è stata durante il set di Loco Dice la proclamazione del vincitore. Anzi, della vincitrice: la spagnola Anabel Sigel. Brava, simpatica, umile, motivata nel modo giusto: questa l’impressione che ci ha fatto nei due, tre incontri avuti quest’anno e, insomma, ha tutte le carte in regola per costruirsi una bella carriera.
(Anabel Sigel, la vincitrice 2018 della Burn Residency, complimentata da Loco Dice, foto di Marc Sethi; continua sotto)
In definitiva: quando si è trattato di scendere, ci è quasi dispiaciuto. Siamo saliti a bordo della Visions Of The Sea (nave bella e nuova, nulla da dire) già pronti ad elaborare piani di fuga, ne siamo scesi invece pensando che “…altri due giorni ci stavano proprio”. Ci sentiremmo di consigliare l’esperienza? Sì. Anche in considerazione del fatto che non è proprio una esperienza economica? Calcolate bene la profondità del vostro portafogli, però sì. Molto meglio di altre esperienze da vacanza-da-clubber dove ti senti quasi “obbligato” a fare questo e quello, ad avere un certo tipo di orari, a marcar visita in questo o quest’altro club (spendendo alla fine uguale); l’atmosfera da crociera smussa gli angoli e le ansie.
Ha fatto bene Burn, infine, ha scegliere The Ark come atto conclusivo per la Burn Residency di quest’anno, anche perché ha permesso un contatto più ravvicinato e più umano con gli ambassador del caso. Fuori dal contesto dei superclub, dove c’è solo una cerchia di eletti e/o amici-di che può salire in console, gente come Luciano o Loco Dice o Nastia era più semplice da approcciare, da salutare, da “vivere”. Belli gli spettacoli di folla, il carnaio appassionato e le braccia al cielo, son belli anche loro; ma ogni tanto provare un’esperienza diversa, davvero, non è male.