La musicista di Montreal, già metà degli Essaie Pas, arriva al quarto album da solista, “Working Class Woman”. Un album minimale eppure complesso, un album sotto molti aspetti geniale. Electro, industrial e italo-disco in un mix di (prevalente) inglese e francese.
“The music is so nice / I feel like I could die happy!”, canta Marie nel techno-pop con bassline groovy del primo singolo “So Right”, non troppo distante da certe uscite di Róisín Murphy e già oggetto di un remix di John Talabot, interrogandosi sul senso del divertimento sul dancefloor. “Tell me, are you / Sexual? Conceptual?”.
I riferimenti “alti” sono ormai un vizio: se nel precedente lavoro in studio, “Audieux Au Dancefloor” del 2016, veniva citato per esempio l’etnobotanico Terence McKenna, stavolta fra le varie influenze ci sono la psicologa Alice Miller (che, riassumendo, considerava l’abuso infantile come la radice di ogni forma di violenza e si distaccava dalle teorie psicanalitiche), il medico Gabor Maté e lo scrittore/regista Alejandro Jodorowsky, in particolare il suo celebre saggio “Psychomagic” (in italiano, “Psicomagia”).
Nonostante i problemi di connessione via Skype, riscontrati sia in Italia sia in Canada, la conversazione procede spedita. “C’mon”.
“Audieux Au Dancefloor” era stato un turning point per la tua carriera, anche nella sua impronta maggiormente dance. “Working Class Woman” è ancora più compatto-e-d’impatto, tanto nel sound quanto nelle idee. Per di più, sei approdata a un’etichetta di prestigio come Ninja Tune. Ti sei resa conto che stavi lavorando a un disco, in ogni senso, “importante”?
Sì, sentivo che stavo lavorando a un disco importante, ma per me stessa. Credo tuttora che probabilmente questo sia il disco più importante della mia carriera, da un punto di vista personale. È il disco più vicino a ciò che volevo ottenere quando ho iniziato a fare musica elettronica, circa sei anni fa. È quello che c’era nel mio percorso mentale, ma che in partenza non avevo gli strumenti per realizzare né la maturità per indirizzare in modo simile. Dal momento in cui ho cominciato a metterlo assieme in studio, a dicembre, appena tornata da Berlino, ho avvertito che stava succedendo “qualcosa”. Mi piace molto, è carico di un sacco di concetti, fisici, psicologici, emozionali. È un “bagaglio”. Sono lieta che Ninja Tune mi abbia messo sotto contratto, è meraviglioso e mi ha sorpreso. Sono contenta che a loro “Working Class Woman” sia piaciuto perché è importante fare qualcosa che sarà amato, ma volevo fare ciò che avevo in testa. Non ho pensato troppo all’opinione delle altre persone.
Il filo conduttore rimane la club culture, che continui a esplorare nella musica e nei testi: cosa significa, oggi, per te, questo campo sonoro, questo ambiente?
Per me la musica è sound, e il sound è un linguaggio. Quando lavoro al mio sound, mi sento davvero come se stessi parlando il mio linguaggio. Più faccio musica, più parlo nel mio linguaggio, più cresco. Come un bambino, sai? All’inizio un bambino pronuncia poche parole e col tempo comincia ad articolare frasi complete, e col tempo il teenager parte a formulare delle proprie idee, e col tempo l’adulto è pienamente consapevole e in grado di esprimere se stesso. Questo è quello che rappresenta, in generale, la musica per me. La musica è pronta, mi sento pronta. Come artista ma anche come essere umano, mi sento molto più emancipata e consapevole rispetto a prima.
Non capita spesso di ascoltare musica elettronica che, per quanto diretta, sa essere così intellettuale. Tu misceli humor e riflessioni vicine in qualche maniera alla filosofia. È musica elettronica “for thinkers, not only for dancers”!
Sì, assolutamente. Amo la filosofia, ma purtroppo non ne sono esperta. L’ho studiata al college, ma ho interrotto gli studi per fare la musicista perché sapevo che era ciò che avrei voluto fare a tempo pieno. Ho letto dei libri di filosofia, ma ne dovrei leggere di più. In compenso, leggo parecchia letteratura: poesia, narrativa (da una massima del suo autore prediletto, Charles Bukowski, deriva peraltro la ragione sociale Essaie Pas, in inglese “Don’t try”, ndI) e negli ultimi anni anche saggi psicologici, che mi hanno ispirato molto. E poi mi piacciono i film, specialmente i film italiani. Ma anche la musica italiana (Marie ha collaborato anche con Not Waving, nel pezzo “Where Are We” dall’ottimo album “Good Luck” del 2017, ndI). La vostra cultura è vasta. È un peccato che non suonare spesso in Italia, giusto una volta ogni tanto. Spero di capitare nel vostro Paese il prossimo anno, magari in estate.
Noi italiani, di sicuro, veniamo subito accontentati dalle prime parole della prima traccia di “Working Class Woman”, “Your Biggest Fan”, quelle di un annuncio ferroviario diramato proprio nella nostra lingua. La traccia in questione contiene numerosi flash sul disorientamento della vita spesa in tour e sulla necessità di gestire un’immagine pubblica, una proiezione di se stessi – una questione in tema con la tua passione per l’argomento identitario. Un bombardamento di domande: “Why are you so strange? / I love your music / Wait, do you play in a band?”, “Hey, are you doing a DJ set tonight?”, “So, frankly, is this album about taking risks?”, “Did you have drugs?”, sino a “Who the fuck are you?”. In tal senso, come ti destreggi nella realtà?
Faccio quel che posso, il meglio che posso. Non penso di aver trovato un modo per gestire l’intera faccenda. Sto ancora cercando di renderla vivibile ma non lo so, davvero non lo so.
Gli episodi interamente strumentali sono molto avventurosi, in crescendo, tanto che ho pensato che uno di essi, “Lara”, prendesse il suo nome da Lara Croft: sto delirando, vero?
Lara Croft è un buon riferimento, ma l’aspetto simpatico è che il pezzo si rifà alla mia cara amica Lara, di Berlino. Lei è una DJ e produce sotto l’alias Golden Medusa.
Tornando alla psicologia alla quale accennavi prima, non posso non pensare a un altro brano in scaletta, “The Psychologist” (“Do you like it when it’s over the top, when it’s insane?”): com’è nato?
Sì, beh, sono stata in terapia per due anni, prima di trasferirmi a Berlino. Proprio in quel periodo mi sono interessata alla psicologia perché mi trovavo all’inferno, sai? Ho letto alcuni libri che riguardavano il corpo, la mente e la storia. La psicologia lavora molto sulla storia, sulla tua storia: l’infanzia, l’adolescenza, eccetera. L’anno scorso ho letto un volume di Carl Jung, sull’inconscio, che mi ha ispirato sul serio. Durante i miei viaggi mi capita di incontrare gente con la quale discuto di psicologia, perché è un argomento fantastico e “selvaggio”. “The Psychologist” parla del fatto che tutti vorremmo essere qualcuno di più forte e saggio. È la personificazione della conoscenza, di qualcuno che sa come prendersi cura di te, aiutarti e capirti. A volte devi essere il tuo stesso psicologo, se non ne hai uno.
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Che si parli di linguaggio o psicologia, nei discorsi di Marie ricorre l’avvicendarsi delle fasi della vita. La sua storia, nello specifico, è partita con lo studio del violino e il coinvolgimento in alcune orchestre lungo gli anni del liceo. Diciannovenne, Marie è passata alla chitarra suonando in varie band di Montreal, per poi rimanere folgorata da synth e sequencer. Nel suo curriculum, sfilano almeno tre rilevanti esperienze in duo: Les Momies De Palerme con Xarah Dion, DKMD con David Kristian e soprattutto Essaie Pas con il marito Pierre Guerineau.
Tornando al presente, il titolo del suo nuovo album in proprio, “Working Class Woman”, si collega sia all’autoironico brano strumentale “Workaholic Paranoid Bitch”, con un “ritmo ossessivo in un’orgia di percussioni” quasi accostabile a Jlin e una rimanipolazione di Nina Kraviz già disponibile all’ascolto, sia al secondo estratto “Work It”, robotico e super sagace. “I work, all the fucking time / From Monday to Friday, Friday to Sunday / I love it, I work”. “Work to be a winner”, l’imperativo.
È vero che lavori così duramente? È vero che il lavoro nobilita l’uomo? Tu critichi il bisogno di mettersi sempre in vendita ma dici anche “When I say ‘work’, I mean you’ve got to work for yourself, love yourself, feed yourself”…
Viviamo in un mondo dove la performance ha molto valore. Tutto è performance. Tutto riguarda la performance. La gente fa video, foto… Le persone avvertono l’esigenza di far sapere che bravi performer sono, che sono superiori agli altri – o almeno pensano di esserlo. Talvolta anche io mi comporto così, è triste e voglio cambiare. Il mio lavoro è la mia passione. Lavoro e soddisfazione possono andare di pari passo. Poi tutto dipende se lo fai per te stesso o per gli altri, se lo fai per soldi o per piacere. Per me è difficile tirare una linea e capire quando si tratta solo di lavorare, quando si tratta solo di divertirsi o quando si tratta solo di amare se stessi. Oltretutto, per la maggior parte del tempo sono sola. Quindi sono il boss di me stessa.
Una curiosità: quando in “Work It” intoni la frase “Work it good”, è per caso un omaggio a “Whip It” dei Devo (“Whip it good”)?
No, è divertente, hai beccato il gancio, ma forse è soltanto un riferimento inconscio (ride, ndI). Non ci ho pensato, suonava bene e basta. “Whip It” è una gran canzone, mi piace anche se non l’ascolto da almeno un paio di anni. Era da qualche parte dentro di me.
Ma è anche vero che “Living is not a lucrative job. No one will do it for you. When you’re alone, you’re alone. Few years to live, than you’re gone”. Ecco, qui sto citando “Day Dreaming”: l’atmosfera è molto lynchiana e i sintetizzatori sono molto carpenteriani. È una canzone più sognante se paragonata alle altre – al pari della conclusiva, programmatica La chambre intérieure – che però colpisce all’istante.
A volte, sai, si può ottenere molto più impatto con la delicatezza e con il silenzio, anziché con l’azione e il divertimento. A volte il messaggio può essere molto semplice e comprensibile. Sono una fan dei film di David Lynch e John Carpenter, ma quest’ultimo è stato una grande influenza anche come musicista. Amo le sue colonne sonore e lo stimo molto come uomo perché è una persona splendida.
A proposito di stacanovismo, sempre nel corso del 2018 è stato pubblicato il fantastico (e fantascientifico) “New Path” degli Eassie Pas, una libera interpretazione del romanzo “A Scanner Darkly” (in italiano, “Un oscuro scrutare”, NdI). Dunque, dalla letteratura di Philip K. Dick sei passata in breve tempo alla parziale autobiografia di “Working Class Woman”, che a tua stessa detta è un album “egotico” che si focalizza “sulla sofferenza e sullo humour, sul divertimento e sulla cupezza di essere Marie Davidson”. Preferisci i riferimenti all’altrui arte o il metterti in primo piano?
Come ha dichiarato Pierre nelle interviste degli Essaie Pas, quando crei – anche se parli di qualcun altro – finisci sempre per parlare di te stesso. Quindi per me non sono due approcci così distanti. La differenza è che, lavorando in autonomia, ciò di cui parlo riguarda unicamente me e la gente che conosco. “New Path” si concentrava comunque su argomenti che a noi stanno a cuore e che avevamo già affrontato altrove, come paranoia, ansia, consumo di droga, autodistruzione.
Cosa cambia quando componi, produci ed esegui dal vivo musica in perfetta solitudine e quando lo fai invece al fianco di Pierre?
L’unica differenza è che, quando sono per conto mio, non devo scendere a nessun compromesso. Posso fare qualsiasi cosa, sono più istintiva. Ma è abbastanza similare. Quando lavoro, lavoro con i suoni, che sia sola o meno. Mi dedico alla musica.
Perche preferisci definire i tuoi vocals spoken text, anziché spoken word?
Lo spoken word è radicato in una tradizione, che sia nella poesia o nella musica, che rispetto e apprezzo, ma a cui non ho mai partecipato. Per intendersi, non sono mai andata a una serata open mic provando a jammare parole.
Il vecchio flirt con la recitazione ti ha aiutato con lo spoken? Me lo chiedo perché in “Working Class Woman” troviamo di tutto: basti pensare alla corsa a perdifiato e alle risate isteriche dell’horrorifica The Tunnel, piena zeppa di mostri simbolici (“Reality is disgusting enough”)…
Non ho praticato troppa recitazione ma senz’altro i due anni trascorsi al college mi hanno aiutato. Mi piace il teatro. E mi piace fare teatro, per i fatti miei, nei miei dischi.
Ciò che dici necessita di attenzione per essere colto nella sua profondità, nei suoi molteplici livelli interpretativi: come butti giù le parole?
Di solito, mi occupo prima delle musiche. Mi concentro sul suono e su cosa mi sta trasmettendo. Non voglio essere troppo concettuale, ma mi piacciono i concetti quando subentrano riferimenti esterni. Mi definirei uno spirito libero.