Quando hai alle spalle quasi vent’anni di carriera, molti dei quali spesi a mettere dischi in uno dei club più importanti del mondo, non puoi (e non devi) essere considerato un dj qualsiasi. Per te parlano la tua longevità, la tua storia, la tua esperienza e le tue avventure, molte delle quali tanto appassionanti quanto pittoresche.
Basterebbe questa considerazione per fare di Craig Richards uno di quei nomi dinnanzi ai quali tacere e ascoltare le migliaia di storie e aneddoti che ne hanno contraddistinto e segnato il percorso, ma nel caso del londinese c’è molto di più. C’è la voglia di vivere di arte, sia essa la musica o la pittura; c’è il desiderio di dare il proprio contributo alla scena senza paura e senza compromessi, costruendo un contenitore, il Fabric, fedele per decenni alla sua idea originaria. Ma c’è soprattutto quell’occhio sempre vivo e vispo, al cui interno brilla forte la scintilla della passione per l’elettronica. La stessa che ha tenuto in vita il club di Charterhouse Street anche nei suoi momenti più duri e che spinge lo stesso Richards a “diggare” come pochi altri in città.
Insomma, a questo punto vi sarà chiaro: oggi, a poche ore dal terzo (e ultimo) appuntamento di “I Like You But I Find It Difficult” per Fondazione Prada, abbiamo l’onore di ospitare sulle nostre pagine uno dei dj più significativi e interessanti degli ultimi due decenni; un artista vecchia scuola, uno di quelli da cui c’è solo e soltanto da imparare. Signore e signori, Craig Richards.
Per un sacco di tempo è statodifficile vederti e sentirti fuori dalle mura del Fabric, poi direi che negli ultimi anni è diventato molto più semplice trovarti in vari club in giro per il mondo. Cos’è che ti ha spinto a diventare progressivamente più un guest che un resident?
Guarda, la vita sempre in tour non ha mai fatto molto per me… quindi ecco, il ruolo del dj resident ha sempre avuto un sacco di fascino ai miei occhi anche per questo. Aggiungici il fatto di poter lavorare con sound system di qualità eccezionale e un pubblico, quello londinese, tanto entusiasta quanto competente… potendolo fare per giunta ogni settimana…beh, la risposta è ancora più chiara, no? La cosa interessante è che anche se non mi muovevo fisicamente, dovevo comunque di continuo “muovermi” musicalmente. Mi sono fatto le ossa ed ho imparato bene il mestiere suonando in tre sale diverse, dentro il Fabric, misurandomi con slot orari diversi. Questo è stato molto importante. Senza contare che potersi esibire prima di artisti che ai tuoi occhi sono sempre stati eroi, non può che fare da grande ispirazione. Detto questo, io comunque i miei giri me li sono fatti: America, Giappone, in Europa in effetti selezionavo invece abbastanza. Non lo sanno in tantissimi, ma ad un certo avevo perfino una residency in Nuova Zelanda! Poi, come tutti sanno, ad un certo punto è arrivata la chiusura del Fabric. Credimi: lì per lì nessuno pensava avrebbe riaperto. Quindi mi sono dovuto mettere di piglio buono per andare in giro con la mia borsa dei dischi. Suonare in dancefloor diversi è comunque un processo fondamentale nella preparazione di base un dj versatile che si rispetti.
Restando sul Fabric, club che è indissolubilmente legato alla tua figura e alla tua biografia: si tratta di un club di cui sei stato e sei anche direttore artistico…
…no no, aspetta, sono stato per molti anni il direttore musicale, scegliendo i dj che dovevano suonare la sera del sabato e quelli con cui avrei dovuto dividere la console. Però c’è qualcosa di vero, in questa cosa del “direttore artistico”: quando abbiamo aperto il club eravamo in pochissimi, ciascuno di noi doveva fare un sacco di cose, e sì, volendo per un po’ di tempo ho fatto anche le veci del direttore artistico tout court. Devo però dire che quando entrano in campo delle dinamiche in cui devi tenere conto anche di aspetti commerciali, beh, questo non fa per me.
Fra tutte gli artisti che si sono succeduti al Fabric, quali sono secondo te quelli che più hanno contribuito alla crescita e al consolidamento del club fra i posti più fondamentali d’Europa, per un certo tipo di scena? E quali invece quelli che sono stati fondamentali proprio per te personalmente?
Essere parte di un’esperienza fin dal giorno zero è qualcosa di unico. Mi sento fortunato ad essere entrato nella storia di un progetto che così tanto ha significato per quello che è il peso della musica dance elettronica non pop e non commerciale. Per quanto riguarda lo specifico della tua domanda, il primo nome da fare è quello di Ricardo. Lui è un artista di un talento eccezionale, che è riuscito tra l’altro a sviluppare un proprio stile personalissimo ed immediatamente riconoscibile, cosa rara. Fin dalle prime volte che è arrivato da noi si è capito che sarebbe diventato una leggenda. Lui a Londra non ha mai suonato da nessun’altra parte, e la sua presenza costante in line-up ha giocato un grande ruolo nel creare una identità precisa per il Fabric; in generale, devo dire che avere dei nomi che ricorrono in line-up è molto importante per creare una “storia” comune tra club e pubblico. A livello più strettamente personale, per me la musica è sempre stata tutto, nel suo insieme. Non mi sono mai fissato su un genere specifico, e in questi vent’anni ho veramente potuto sentire una quantità incredibile di musica di qualità – cosa per cui mi ritengo immensamente fortunato. Quando il Fabric ha aperto, la nostra intenzione era chiara e semplice: rappresentare quello che era il lato più underground della musica dance, e farlo attraverso impianti di altissima qualità. Beh: credo che un po’ ci siamo riusciti.
Però nel giugno 2010 c’è stato uno dei momenti più difficili: crisi finanziaria, club in vendita. In quei momenti, come ti stavi sentendo? Ti veniva l’ansia al pensiero che rischiavi di dover reinventare la tua vita da capo?
Nonostante il grande riscontro avuto praticamente fin dall’inizio, il Fabric non ha mai avuto vita facile. Negli anni abbiamo dovuto fronteggiare molte situazioni critiche. Sai, fare le cose a modo tuo, esattamente nel modo in cui vuoi tu, non rende mai semplice la vita. Però il fatto di essere indipendente da tutto e da tutti è sempre stata una delle grandi forze del club. Per quanto riguarda me, invece: no, non ho mai avuto la paura del dovermi reinventare da capo, anzi. Boh, magari invecchiando se pensi a uno scenario del genere forse ora un po’ più di paura ti viene, ma sono sempre stato convinto – e lo sono tutt’ora – che i “nuovi inizi” sono fondamentali per tenersi in forma mentalmente.
Altro momento durissimo: settembre 2016. Due ragazzi muoiono di overdose, la cosa viene usata come pretesto per chiudere il Fabric. Una volta che siete riusciti a riaprire, in cosa è cambiato il club? E credi che questo drammatico evento abbia se non altro aiutato la gente a prendere più consapevolezza di certi rischi e certe problematiche?
E’ una questione molto complessa, questa, che deve essere analizzata da più parti. La morte di una qualsiasi persona di giovane età è qualcosa di tremendo, a maggior ragione se avviene in quello che dovrebbe essere un contesto di gioia e divertimento. Se chiedi la mia opinione, il comportamento della polizia in questo caso è stato pessimo: c’avevano preso di mira, volevano farci chiudere a prescindere, ma con la forza del nostro pubblico e del movimento d’opinione sui social media siamo riusciti a resistere, siamo riusciti a vincere noi. E’ stato un momento incredibilmente non solo nella storia del Fabric ma, credo, anche in quella dell’intera scena dei club. Oggi, il club più o meno è sempre quello: un labirinto di mattoni dentro una grande cella frigorifera. Per quanto riguarda invece i rischi, le problematiche…guarda, tutto quello che posso dire è che una informazione più aperta ed esplicita sui rischi a cui ti espongono gli eccessi non può che far bene, stop. E per me il problema principale resta l’impreparazione e l’inettitudine delle forze dell’ordine. Il mondo in cui si sono comportati in questa situazione drammatica che ci ha colpito è stato sbagliato dall’inizio alla fine. Non lo so, vorrei concludere il discorso dicendo semplicemente che la forza della musica elettronica è profonda, e non sarà così facile arrestarla.
Profonda, e ormai anche lunga. Tu hai condiviso con la console con ormai tre generazioni diverse di dj anglosassoni. Quali sono quelli di maggior talento?
Sono troppi da nominare, credimi; quello che conta è saper suonare col cuore e con personalità. E poi, una cosa molto ovvia, ma non per questo meno importante: devi amare la musica. Io, per dire, ancora oggi sono assolutamente ossessionato dall’andare in cerca di nuovi dischi, nuove release, perle nascoste. E una volta che trovi qualcosa di buono, devi sentire l’esigenza bruciante ed immediata di suonarlo ad alto volume. La nostra è una roba che va ascoltata ad alto volume…
A proposito di persone con cui ti trovi bene e di cui apprezzi cuore e personalità, ultimamente il tuo partner artistico preferito probabilmente è Nicolas Lutz. Cos’ha di così speciale il giovane uruguaiano?
Prima di tutto, Nicolas è diventato un grande amico e una grande fonte d’ispirazione. Il suo approccio molto speciale: meticoloso e disciplinatissimo, ma con la capacità di figurare all’esterno come selvaggio e assolutamente spontaneo. Una sua caratteristiche è che suona solo vinili, quando suoniamo insieme ci immergiamo completamente nella loro magia ed energia. E sì, effettivamente quando siamo insieme scatta qualcosa di molto intenso.
Lui è stato uno degli ospiti che hai invitato ad “I Like You But I Find It Difficult”, nel trittico di eventi che la Fondazione Prada a Milano ti ha chiesto di curare. Eventi che si svolgono appunto in un contesto molto particolare ed iconico – e comunque diverso da un club. Quali sono le caratteristiche peculiari di un trittico di eventi come questo?
Che un evento sia speciale o meno, c’è una cosa che resta importante, anzi, che resta fondamentale: la risposta del pubblico, l’energia che esso riesce a generare. Nello specifico, per quanto fatto in collaborazione con la Fondazione Prada non so, ci sono alcune cose per me effettivamente sono speciali, belle, non so se lo possano essere in assoluto: l’alternarsi ad esempio di live set e dj set. Però il punto fondamentale è che si tratta di una esperienza musicale giocata al di fuori del “solito” club, in un contesto artistico, appunto; questo forse ha portato a concentrarsi ancora di più sull’ascolto, che sul puro e semplice fare festa. La Fondazione Prada si è rivelata un contesto eccezionale, per questo progetto: è un onore per me aver avuto la possibilità di lavorare con loro. Ritrovarsi curatore di un programma artistico, in questo caso musicale, all’interno di una galleria d’arte è una esperienza di grande valore, che mi sta anche aiutando ad immaginare nuove avventure e nuove prospettive.
Qual è il fil rouge che collega le tre line-up di questo trittico di eventi e il modo in cui le hai assemblate? Quanto tempo hai impiegato, prima di poter confermare definitivamente il cartellone?
La mia intenzione, con la mia curatela, è stata quella di creare un grande “ombrello” sotto cui racchiudere diversi stimoli e diverse sperimentazioni sonore. Io spero che ciascuno dei tre eventi abbia potuto avere vita e valore in sé ma, allo stesso tempo, che in qualche modo sia stato intelligibile il fil rouge a cui accennavi. La location ha giocato un grande ruolo nella riuscita del tutto. La corte interna della Fondazione è uno spazio meraviglioso.
Del resto da quel che ne sappiamo il mondo dell’arte non è certo qualcosa di sconosciuto per te: hai fatto anche fatto i tuoi studi alla Saint Martin’s School of Art di Londra, pittura e disegno sono sempre stati fra le tue passioni…quando ti sei reso conto che invece il tuo futuro sarebbe stato proprio la musica?
Oh, io non sono mai riuscito a farmi un’idea di quale futuro mi spettasse, mai. La mia unica ambizione è sempre stata quella di non essere costretto a lavorare. Tolto questo, non c’era nessun altro piano preciso. Alla Saint Martin’s ho passato sei anni della mia vita, dopodiché mi sono anche iscritto al Royal Collage of Art. Ti devo dire che in quegli anni il sistema educativo britannico era molto diverso da adesso: la fine degli anni ’80 era davvero un gran bel periodo, per frequentare delle scuole d’arte. Comunque sì, sono sempre stato appassionato di pittura, ho sempre dipinto e a dire il vero continuo a farlo tutt’ora. Oggi mi guadagno da vivere come dj, ma in un futuro più o meno lontano mi piace vedermi tranquillo, in solitudine, con un pennello in mano e una tela davanti. Che poi, guardati attorno: mai come in questo periodo storico gli artisti si ritrovano coinvolti in diversi ambiti creativi.
A proposito: se mai ci ritrovassimo a cena con te, quali potrebbero essere gli argomenti di conversazione? Musica, arte, ma in realtà hai anche una enorme passione per l’abbigliamento vintage, una passione che declini maniera molto personale e particolare…
Oh, io ho speso tutta la mia vita in mezzo ad abbigliamento vintage! Colleziono capi esattamente come colleziono dischi. Per anni avresti potuto trovarmi a Camden o a Portobello mentre vendevo capi americani anni ’40 e ’50. Sai, la mia generazione è cresciuta in un periodo storico in cui il modo migliore per esprimere la propria identità era farlo attraverso la musica, o attraverso l’abbigliamento; e tutto quello che potevi far tuo mettendoci impegno e ricerca, non solo comprando finendo nella prima catena o cliccando sul web, era un valore aggiunto non da poco. I vestiti creati qualche decennio fa erano fatti in un modo molto diverso da oggi, con un taglio sartoriale diverso, con un’estetica diversa. Quindi sì, nella nostra cena ci vestiremmo ricercati, senz’altro, e la lista degli argomenti potrebbe essere abbastanza vasta: da quelli più stupidi a quelli più seri…