A che cosa serve l’arte? Le opere e le vite dei più grandi artisti hanno da sempre turbato ed emozionato il pubblico, sia quello a loro contemporaneo sia – ancora di più – quello venuto successivamente. L’arte è spesso riuscita a muovere le coscienze, a spingere verso la riflessione e – ogni tanto – verso il cambiamento, la reinvenzione, il progresso. Ci sono momenti storici in cui l’arte sembra vera solo quando è cupa, quando ammette l’inquietudine del suo presente. David August sente il bisogno di avvicinarsi a qualcosa che appartiene sia alle sue origini, al passato lontano in cui affondano le radici della sua cultura, sia al presente, all’attualità preoccupante che stiamo vivendo noi, adesso. Con “D’Angelo” (PIAS, 2018) il producer di Amburgo – già tornato a Palestrina, la città di sua madre, per realizzare “DCXXXIX A.C.” (99CHANTS, sempre 2018) – sceglie di raccontare il lavoro e le sventure di Michelangelo Merisi. Si rifà dunque all’oscurità del Caravaggio, a quel buio angosciato e temibile della Controriforma, raccontandola con synth in lontananza e droni svuotati, ma anche al suo utilizzo della luce come bagliore, che rivive nella stratificazione rigogliosa di suoni e battiti. Si rifà, infine, al realismo crudo e sincero del pittore, aggiungendo una voce pulita e profonda.
In questa intervista, rigorosamente in italiano, August ci racconta il suo ultimo album, ricordandoci quanto sia importante il ruolo svolto dalla memoria. Il prossimo 2 novembre sarà al Club To Club, il cui tema “La luce al buio“, citazione presa dal set di Nicolas Jaar dello scorso anno, sembra calzargli alla perfezione.
Con “D’Angelo” sei tornato alle tue origini italiane, già sondate in “DCXXXIX A.C.”. Per il precedente album ti eri immerso nella natura, lasciandotene influenzare se non addirittura sopraffare, ed era venuto fuori un disco ambient. Per “D’Angelo”, invece, a che cosa ti sei ispirato?
Intanto, vi voglio ringraziare per questa intervista. Dovrei andare un po’ a ritroso per spiegare meglio. Due anni fa ero in una fase in cui mi sono posto delle domande, che probabilmente vengono in mente a ogni persona che passa dai venti ai trent’anni. Parlo di domande semplici, sull’identità, sulle mie origini e così via. Domande essenziali per continuare quello che stavo facendo. C’era l’esigenza di confrontarmi con determinate tematiche ed elaborarle nella musica. Fino a quel momento mi sembrava che quello che stavo facendo fosse raramente autentico, che fosse il risultato di alcune insicurezze. I due album usciti quest’anno sono un tentativo di trovare delle risposte a queste domande, connettendomi a ciò che evoca in me l’emozione più significativa: le mie radici, che sono per l’appunto in questo Paese. Diciamo che ho visto il confronto con questo patrimonio culturale come una via o un sentiero per avere accesso alla mia storia personale. “DCXXXIX A.C.” è il prologo, rispecchia lo spirito di una città e di un periodo sconosciuto ma allo stesso tempo tangibile. Parlo di Palestrina, la città di nascita di mia madre. Il genere ambient a quel punto del percorso rispecchiava bene i miei sentimenti. È musica che racconta i reali stati d’animo nel modo più immediato possibile, perché non pretende di essere niente. Non lavora in strutture, è libera da qualsiasi aspettativa. Ed è questa libertà di movimento che ti fa connettere all’inconscio con maggior facilità. Devo aggiungere che detesto sempre più l’idea di pensare per generi musicali. Alla fine, è tutto un unico linguaggio, ma questo sarebbe un altro discorso… Tornando a “D’Angelo”, le ispirazioni sono più sparpagliate nelle varie epoche, dagli anni ’60 e ’70 – spinti da prog e krautrock – al presente. I vari artisti italiani con cui ho provato a instaurare un dialogo assumono significati specifici nelle singole tracce, ma i protagonisti che si ritrovano in tutto il disco sono soprattutto due. Uno è Caravaggio, che mi ha colpito molto per la sua ossessione di voler rispecchiare la verità a ogni costo, invece di seguire le intenzioni della chiesa cattolica. Pensando a oggi, alla nostra battaglia deprimente per trovare la realtà in tutto quello che ci sta attorno, ho assecondato il tentativo di respingere queste paure sociali e avere un dialogo il più onesto possibile con me stesso. Dall’altro lato, c’è Giovanni Pierluigi da Palestrina, compositore del Rinascimento che prese il suo nome proprio dalla città di provenienza di mia madre. L’uso delle voci corali che si riferiscono a lui – infatti ho fatto persino una sessione di sampling con il Coro Polifonico “Città del Palestrina” – rappresenta immediatamente le mie radici e si connette all’origine del primo strumento, il più importante di tutti: la voce umana. Voglio prestare questo omaggio all’Italia, dopo quello che questo Paese mi ha dato per ventotto anni, provando anche ad apportare qualcosa di rilevante alla società di oggi.
Mentre “DCXXXIX A.C.” era un lavoro fluido, senza soluzione di continuità (tu stesso lo hai descritto come “one long breath” ), “D’Angelo” è un disco più tradizionale, in cui ogni pezzo ha un significato e crea un proprio spazio, pur rimanendo sempre coerente con l’opera nella sua completezza. Come ti orienti tra queste due forme di espressione? Si tratta di una scelta formale o di linguaggi legati a momenti e sensazioni diverse?
In realtà, dipende sempre dal concetto/narrativa dello sviluppo musicale. “DCXXXIX A.C.” era la prima uscita sulla mia casa discografica 99CHANTS e ammontava a un’ora precisa di durata, quindi il concetto di avere un respiro lungo mi è venuto naturale. Essendo più varie nelle ispirazioni, per “D’Angelo” c’era la necessità di concedere ogni tanto delle pause all’ascoltatore, invece di costringerlo a un respiro unico. Anche in questo caso ho comunque cercato di creare una narrativa fluida in un quadro coerente. Ho sempre un approccio cinematografico, avendo una visuale che mi indirizza. Come se fosse una soundtrack.
A proposito di cinema: ascoltando “D’Angelo” si avverte chiaramente l’influenza di tanti elementi legati alla cultura italiana. Le chitarre, per esempio, mi fanno pensare a certi vecchi film di Sergio Leone. C’è qualcosa in particolare che ti fa pensare all’Italia?
Quando ero piccolo, l’Italia era sempre il luogo delle vacanze durante gli anni scolastici. Ho visto questo viaggio come un rifugio. Sono cresciuto prevalentemente con mia madre e mio fratello, e lei ci ha fatto un po’ da guida per quanto riguarda la cultura italiana. Mi sono reso conto che inconsciamente questo rifugio è il luogo che riporta una certa serenità nella mia vita, probabilmente per via dei ricordi dell’infanzia. Il background e la bellezza di questo Paese, come anche la sua cultura culinaria, hanno sempre evocato in me un’emozione e un legame.
La cultura, in generale, ha un peso notevole nella tua produzione. Hai avuto un’educazione classica e questo sicuramente ti permette un’eccezionale libertà compositiva ma, in un certo senso, potrebbe anche frenarti…
Penso che un’educazione, di qualsiasi tipo essa sia, non abbia mai degli aspetti negativi. La voglia di sviluppare la curiosità, per vedere come sarebbero le cose in un altro colore, dipende poi da noi. A volte mi interessa fare musica come se fossi estraneo alla materia, trovando metodi ancora non esplorati che, anche avendo un’educazione classica, mi fanno sentire come un principiante. È lì che escono fuori le cose interessanti, perché c’è una certa ingenuità. Magari puoi commettere degli errori o non trovare la strada giusta. In quel momento ti puoi rifare all’esperienza che ti aiuta a uscire dal buco nero.
Sei stato capace di mettere in musica non solo l’arte ma anche la vita e – soprattutto – i tormenti di un personaggio come Caravaggio. Lo hai fatto molto bene, pensa che quando ho ascoltato il disco per la prima volta, dopo aver dato un’occhiata distratta ai titoli, ho subito riconosciuto il pezzo dedicato proprio alla sua vita, “The Life Of Merisi”, e questa è una cosa pazzesca. Come ci sei riuscito?
Mi fa molto piacere sentirtelo dire! L’album aveva bisogno di uno “statement”, un contrasto intenso come pezzo centrale della scaletta. Anche se Caravaggio ha creato arte incredibile, come sappiamo bene, è stato un artista tormentato e ha vissuto la maggior parte della sua esistenza scappando dalla morte. Ho provato a mettere tutta la violenza dei suoi quadri – che rispecchiano la violenza che lui stesso ha visto – in un contesto musicale. È solo la mia interpretazione, ci sono sicuramente altri punti di vista. Ma probabilmente questo carattere agitato, quasi ansioso, ha evocato qualcosa anche in te. Il percorso della traccia, che passa dall’oscurità fino a una trascendenza ambivalente, potrebbe essere il percorso di una persona come lui.
Quando guardi una delle opere di Caravaggio, cosa vedi davvero? Cosa ti trasmette? Non penso che il tutto si riduca soltanto agli aspetti osservabili…
Quello che si vede e che resta da scoprire è davvero tanto. È sempre stata la sua realtà a commuovermi. Io vedo una grande rilevanza della sua arte nel mondo di oggi. Come hai già detto, non si tratta solo del piacere visuale, ma del contesto in cui ha inserito il suo lavoro e il messaggio che gli sta dietro. Più mi confronto con l’arte di altre epoche, più mi rendo conto che in fondo non è cambiato niente. A parte l’evoluzione tecnologica, l’essere umano rimane anche dopo 400 anni con le stesse proprietà. Detto questo, le sue critiche sociali, sottolineate nei quadri, sono attuali anche adesso. È questo il motivo per cui ho voluto connettermi a lui e trovare un parallelismo con il presente.
Nella tua musica c’è sempre qualcosa di cupo, qualcosa che probabilmente emerge dal tuo stato d’animo o da quello che succede nella tua vita, dai tuoi pensieri e dalle tue ossessioni. Come si sviluppa il tuo processo creativo? Come permetti a ciò che hai dentro di venire fuori?
Come artista, intraprendi un percorso e arrivi a un punto in cui non puoi fare altro che riversare la tua personalità e i tuoi pensieri in quello che stai creando. L’arte è una necessità d’espressione umana. Tutto ciò che ci portiamo dentro lo elaboriamo tramite questo linguaggio dell’inconscio. Bisogna creare il “setup” giusto, perché purtroppo non funziona come un manuale. Lo stato d’animo e il luogo sono sempre importanti. Se mi sento tranquillo e predispongo un spazio accogliente, è già qualcosa. La meditazione può aiutare a ritrovare concentrazione e ispirazione.
Ultimamente hai lavorato a produzioni molto lontane dal dancefloor. Hai messo in pausa la tua attività da DJ?
Non lo so. La musica dance sarà sempre importante e continuerò a fare qualche DJ set ogni tanto. E rifarò anche delle tracce dance se me la sentirò di farle. Non mi interessa a che genere musicale appartiene quello che faccio. Basta che sia autentico.