E’ un paradosso: per molti, parlare con Luca Pretolesi sarebbe un’emozione fortissima. Lo sarebbe perché si tratta di uno più importanti nomi mondiali in fatto di mixing e mastering: il suo tocco ha fatto la differenza e ha giocato un ruolo importantissimo nel successo di gente come Diplo, Skrillex, Calvin Harris, Dj Snake, ma anche Beyoncé o Timbaland, insomma il gotha del pop mondiale più “modernista”. Certo: poter scambiare una lunga chiacchierata con un professionista di questo livello è una fortuna notevolissima, anche per capire come è arrivato a certi livelli. Ma per chi vi scrive, Luca Pretolesi è (anche) Digital Boy, ovvero un nome che nei primi anni ’90 della dance italiana, quella non addomesticata dal synth pop o dall’housettina commerciale ma quella più crudamente techno, è stato autentica leggenda. E’ strano: c’è oggi un notevole culto sotterraneo attorno a Digital Boy (un culto anche problematico nel modo in cui si è sviluppato ed increspato nel tempo, come potrete leggere), ma sono in pochi a collegare quella figura al Luca Pretolesi attuale. Durante un assolato pomeriggio berlinese, nell’atmosfera distesa dello JägerMusic Lab, abbiamo provato ad unire i punti. Ne è nata fuori una intervista preziosissima, che oggi è il momento di pubblicare perché proprio oggi diventa disponibile, on line, on demand, il Corso di Mix e Mastering di Luca (fidatevi, è oro), grazie all’eccezionale lavoro che sta facendo la Mat-Academy. Se siete producer, prendetelo – a dir poco – in considerazione. Se anche solo lontanamente amate la storia della musica dance, sedetevi, rilassatevi e godetevi quanto sotto. Merita.
Guarda Luca, in realtà questa intervista parlerà abbastanza dei tuoi primi anni, gli anni non di Luca Pretolesi ma quelli di Digital Boy…
Ah, la mia vita precedente!
Uh, “vita precedente” dici? C’è quindi una cesura così forte?
Sì, per certi versi è proprio un’altra vita… Ma poi, se guardi le cose nel loro insieme, tutto ha avuto uno sviluppo continuo, organico, non è in effetti nemmeno giusto parlare di due blocchi distanti, ci sono dei fili che collegano una fase della mia vita all’altra. Sai: io sin da bambino ho avuto il pallino del tecnico da studio, del mixing, del recording, le mie più grandi passioni sono sempre state sound design e mixing. E’ che per la cultura dei tempi non era nemmeno pensabile che tu, da artista, ti occupassi anche di questa parte qua: facevi la tua canzone, cercavi di farla il meglio possibile, poi ti affidavi ai tecnici di studio che erano in giro allora, i professionisti, stop. Al massimo potevi mettere bocca sul mastering del vinile, quando veniva fatto. Ma proprio al massimo. Io già a sedici, diciassette anni avevo iniziato a gravitare su Milano per imparare a mixare e registrare bene in studio. Soprattutto mixare: l’adoravo come cosa, mi faceva impazzire! Quindi ho dovuto fare quasi una forzatura, per poter applicare le nozioni acquisite in fase di mixing: ho iniziato a farlo sui miei dischi, era una cosa vista come molto strana. E’ che solo in quel modo potevo, diciamo così, esercitarmi sul campo. Però ecco, la soddisfazione è che sin dall’inizio capitava spesso che mi dicessero, quando suonavo pezzi miei, “Ehi, ma suona bene ‘sta roba…”. La verità però è che il successo, che è arrivato subito, mi ha impedito di concentrarmi su questo lato più specifico, più tecnico: la priorità era produrre, suonare in giro. Sono stati anni incredibili, quelli, pazzeschi, è stata un’onda travolgente. Assolutamente. Ad un certo punto però ho sentito l’esigenza di uscirne. Sono fatto così, non riesco a costringermi a fare qualcosa in cui non credo veramente. I primi anni però sono stati assurdi, sì: da “Kokko” in poi le cose hanno preso a girare vorticosamente, in modo inarrestabile, una dopo l’altra, ma ad un certo punto invece si è arrivati come ad una… come dire… linea piatta, per tutto quello che riguardava la mia musica. Io per primo non avevo più grande voglia, ecco. E quando a fine anni ’90 è iniziata a balenare questa idea di trasferirsi in America, è stato come trovarsi davanti all’improvviso l’opportunità di avere una nuova vita: una nuova vita dove ripartire da zero, molto più libera quindi, senza dovere giustificazioni a niente e nessuno, con la possibilità di concentrarsi solo ed esclusivamente su quello che più mi interessava. Poi, visto che c’è sempre anche il paradosso del destino, va detto che per certi versi quello che è successo a Las Vegas tra il 2007 e il 2012 – dopo che mi ci ero trasferito, quindi – è in parte assimilabile a quello che accadde in Italia negli anni ’90, per quanto riguarda la scena dance. Sai, quando sono arrivato io negli Stati Uniti, nessuno aveva la benché minima idea di come si facesse un disco dance; io invece un po’ di pratica l’avevo messa su, diciamo così, e in più c’era questa cosa per cui mi interessava non solo la produzione ma anche il mixaggio… In questo modo, mi sono ritrovato a dare una mano a molte persone, da “esterno”: arrivavano colleghi che mi facevano sentire le loro cose da dancefloor e sì, capitava spesso che dicessi “Ok, non male, ma secondo me posso darti una mano a far suonare questa traccia ancora meglio”. E via così. All’epoca erano per lo più artisti che in America non si filava nessuno, se andava bene prendevano 1000 dollari a data; oggi alcuni di questi mettono insieme 25, 30 milioni di dollari all’anno, ma l’amicizia, la fiducia e la collaborazione che si è creata allora è rimasta uguale. Perché io per loro sono Luca, il tipo italiano che gli ha dato una mano con delle dritte interessanti quando loro non erano ancora nessuno. Sì, insomma: sono arrivato a Las Vegas nel momento giusto. Ma non era una cosa pianificata. Non c’era una strategia dietro. C’era solo il voler inseguire quello che più avevo voglia di inseguire, l’avere il coraggio di dedicarmi a quello che veramente volevo fare.
Ok, ma sei arrivato negli Stati Uniti già sapendo che il lavoro da tecnico di studio sarebbe stato il tuo core business, o comunque all’inizio pensavi comunque che la tua identità principale sarebbe rimasta quella dell’artista, del performer – che poi è quella con cui in Italia e in Europa eri diventato conosciuto, ottenendo anche un successo notevole?
Bella domanda. Io negli Stati Uniti da performer ci ero già passato, parliamo del 1992, 1993, suonavo nei rave, i primissimi rave, ma facevo anche tour con gente tipo Prodigy e Moby…
Eh sì, quando negli anni ’90 si è provato a lanciare in grande stile anche negli Stati Uniti questa cosa molto “europea” – per quanto nata paradossalmente in America – della musica elettronica…
Bravo, la situazione era esattamente questa.
Tentativo mai riuscito del tutto, tra l’altro.
Eh sì. C’hanno provato, ma non ha mai realmente funzionato. Però le cose si stavano muovendo, c’erano dei progetti anche abbastanza impegnativi, strutturati, anche per quanto riguarda me in prima persona: la Elektra, una label che ora non esiste più perché poi è stata assorbita dalla Warner, è stata lì lì per prendere o me o i Prodigy. Alla fine, scelsero i Prodigy: perché erano una band, c’era insomma qualcosa di vagamente “rock” e quindi “comprensibile” in loro per come si ragionava ai tempi; io invece lì, da solo, coi miei synth… ero davvero un musicista? Suonavo davvero? Mi si poteva prendere sul serio? Ovviamente la scelta cadde su di loro. Però ecco, come dicevi anche tu è vero che sembrava che le cose si stessero muovendo, all’inizio, perché c’era stato un improvviso interesse, ma è anche vero che si sgonfiò tutto molto in fretta. Almeno a livelli alti. Io, una volta arrivato a Las Vegas, ho anche suonato tanto i primi quattro, cinque anni. In parte aiutato, ma solo in parte, dal fatto che mia moglie era arrivata a gestire la programmazione di sei, sette club in città, facendo anche cose molto significative, è stata ad esempio la prima a portare a Las Vegas il marchio Pacha. Però oh, è successo più volte che io suonassi in club che erano in concorrenza con mia moglie, era fantastica ‘sta cosa… (ride, NdI)
Insomma, tu e lei stavate insieme già da prima del trasferimento negli Stati Uniti, mi pare di capire.
Ormai sono più di vent’anni che stiamo assieme. Sì, negli Stati Uniti ci siamo arrivati già come coppia, non ciascuno per i fatti propri.
Scusa eh, ora però mi spieghi com’è possibile che lei, arrivata da poco negli Stati Uniti, sia riuscita in così poco tempo ad avere un ruolo così strategico ed importante…
Quella che è stata la mia fortuna, beh, è stata anche la sua: lei aveva esperienza nel gestire i club in Italia, ed è arrivata negli Stati Uniti nel momento in cui i club all’improvviso volevano provare a sperimentare un formato “europeo” per le loro serate dance. Il suo primo lavoro per dire è stato in un club a cui ha dato subito un taglio molto “da Ibiza”, con animazione e quant’altro, e per loro, per gli americani, era una novità rivoluzionaria. Io nel frattempo suonavo, ottenevo date con relativa facilità sempre per questa curiosità implicita verso quello che arrivava in Europa; ma ben presto il mio tempo piano piano è iniziato ad essere sempre più rivolto al lavoro in studio invece che andare a suonare in giro, per i motivi che ti spiegavo prima. Anche perché tra l’altro se va nei club a suonare, sei sottoposto ad una pressione sonora che piano piano ti “rovina” l’orecchio, e l’orecchio invece è a dir poco fondamentale se vuoi fare un buon lavoro in studio, come ovvio. E’ stato quindi un processo progressivo, naturale, ad un certo punto ho quasi smesso di andare a suonare in giro.
Non ti è mai mancato il fatto di essere sul palco, di essere “il” protagonista della serata? Perché con questa specie di “ritiro” era qualcosa che inevitabilmente ti ritrovavi a perdere…
No. No. Zero! Davvero. Ti spiego perché: sono sempre stato convinto che nella vita di ognuno di noi ci siano delle fasi, che hanno un inizio e una fine. Se vuoi evolvere davvero, è meglio che sia così. Se fai lo sportivo, l’atleta ad alto livello, è più semplice: passati i 35 anni è chiaro che, insomma, non puoi più essere quello di prima. La musica è invece più strana, è infida. Non so, quando ti ritrovi due milioni di dollari in banca dovresti essere più tranquillo; non dovresti avere l’esigenza di continuare a ripetere all’infinito quello che facevi quando eri giovane ed eri, giocoforza, un po’ un’altra persona. Vedi Paul McCartney che suona per Kanye West: vai su internet, e leggi commenti tipo “Beh, ma chi era quel vecchio che suonava il basso? Da dove spunta fuori?”… capisci? Non volevo e non vorrei mai ritrovarmi in una situazione così, parlo ovviamente per me, per come sono fatto io. La mia esigenza è sempre stata semplicemente quella di fare solo ciò che sentivo naturale per me, in quel preciso istante. Per quanto possibile. Chiaro: stare su un palco mi può divertire ancora. Ma, aggiungo questo aspetto che è importante, non ho voglia di mettermi a fare concorrenza a una persona che è mia cliente, che si è rivolta cioè a me per un aiuto su mixing e mastering. Quando mi metto al servizio di qualcuno, lo faccio al cento per cento. Ma questo significa anche un’altra cosa: significa che quando un pezzo di questa persona viene suonato in giro ed ha successo, io sento la stessa identica soddisfazione che proverei se il pezzo fosse mio, firmato e performato da me.
(Luca Pretolesi in azione in studio; continua sotto)
Ad ogni modo: come hai fatto a mantenere il giusto grado di lucidità e a non perdere la bussola, durante gli anni del successo come Digital Boy? Perché è un successo che è stato violentissimo, molto grande, ed è arrivato in pochissimo tempo.
La lucidità, a dire il vero, non sempre l’ho avuta. Sai, che vuoi che ti dica: hai vent’anni e puoi permetterti di comprare un pezzo di collina in Piemonte (…l’ho fatto!), hai vent’anni e puoi guidare l’unico esemplare in Italia di Chevrolet Camaro Z28 (…comprata! In contanti! 55 milioni delle vecchie lire). Sì, un po’ mi ero montato la testa. Per fortuna è stato tutto in qualche modo “controllato”, sono riuscito cioè a calmarmi e a non perdere del tutto la lucidità, rientrando piano pieno nei ranghi. Mi ha molto aiutato di non essere mai caduto nella dipendenza da droghe o alcool. I soldi ad un certo punto li ho usati non più per cose un po’ così ma per costruire, guarda un po’, uno studio di registrazione molto bello, e lì sì che erano soldi ben investiti. Il successo, che effettivamente è arrivato all’improvviso e all’inizio è stato bello grosso, mi ha anche aiutato a maturare più in fretta: ho capito alcune cose prima di altri proprio perché prima di altri mi ero ritrovato a vivere un certo tipo di esperienze – capendone anche i lati negativi. In questo modo, ho avuto la consapevolezza che compiere uno switch dal ruolo di musicista al lavoro da tecnico di studio era fondamentale per me, era qualcosa di benefico e che facevo bene a perseguire. Non solo: nel momento in cui lo facevo, dovevo farlo con grandissima attenzione e professionalità, non in modo superficiale come se fosse un gioco. Sai, una cosa interessante è che molti dei clienti arrivano oggi da me che sono nella fase del “primo successo”, quello che ero io a vent’anni: lì divento anche un po’ psicologo perché ehi, ci sono passato anche io!, so cosa significa!, e quindi per questo forse posso aiutarti anche sotto questo determinato punto di vista.
Senti, dei protagonisti di quella ondata techno primi anni ’90 in Italia, come mai praticamente nessuno è diventato realmente famoso all’estero? Intendo, proprio nei giochi della grande industria dance e non solo dance. Certo, c’è chi ha uno status di culto più che meritato, vedi Lory D…
…caspita, Lory. Vero.
…o penso pure a Prezioso, a Zappalà.
Giustissimo. Ma i nomi da fare sarebbero più d’uno.
A te invece è capitato di entrare nel giro delle star globali, planetarie, come professionista nell’industria musicale. Bene: come mai tu sì e loro no?
Uno magari non ci pensa, ma la prima cosa da dire è: saper parlare l’inglese. Non solo saperne i basics, ma parlarlo decentemente, di modo da poter costruire un feeling reale con le persone. Devi essere in grado di trovarti, che so, a Los Angeles parlando con le persone con la stessa scioltezza con cui stiamo parlando per dire io e te ora. Deve crearsi un reale canale di comunicazione, approfondito, non solo capirsi approssimativamente: no, non basta. Questo, credimi, fa la differenza. La seconda cosa da dire, invece, è che quando c’è stato quel momento incredibile della scena dei rave di Roma, scena per cui ho sempre provato un rispetto a dir poco enorme, c’era comunque il piglio da “Noi siamo noi, questo è quello che facciamo, degli altri non ci interessa”. In più, in quegli anni non c’erano i social network: ci fossero stati, magari molto artisti avrebbero avuto l’esposizione che meritavano, e avrebbero fatto il salto verso una popolarità enorme, non solo locale, di nicchia. In generale, il grosso della scena di cui stiamo parlando aveva una mentalità strettamente da artisti, tutto il resto non gli interessava. Non sentivano, ad esempio, la necessità di avere un management alle spalle, che li guidasse nel fare scelte efficaci. Ci sta, scelta legittima. Comunque: metti insieme tutto questo, e hai una risposta alla tua domanda.
Però ecco, il talento c’era.
Scherzi? Il talento era enorme, era incredibile! In quegli anni lì a me è capitato molto di andare a suonare all’estero, Scozia, Olanda, Stati Uniti, eccetera, e credimi, lì non c’era il talento che c’era da noi. Il livello medio, da noi, era più alto, e lo era anche e soprattutto grazie a queste eccellenze assolute, che tenevano per tutti l’asticella altissima.
Tu di quel mazzo sei sempre stato il caso un po’ “strano”. Anzi: oggi forse lo sei ancora più. Perché in quegli anni ad un certo punto tu sei stato visto come quello chiaramente “commerciale”; e tra l’altro, è un aggettivo che continua ad accompagnarti, visto che molte delle tue produzioni come mixing e mastering sono legate ad artisti che sono il trionfo della sfera commerciale nella dance contemporanea, a partire da Diplo, ma non solo lui. Però ecco: il grande paradosso è che oggi, a distanza di oltre vent’anni, quello che facevi nei primi anni ’90 ha (ri)acquistato uno status di culto proprio tra molte delle persone che, per l’elettronica di un certo tipo, trovano corretta solo la dimensione dell’undeground.
Ma sai che forse hai ragione? Sai, il punto è che in Italia, tra quelli che facevano techno nei primi anni ’90, io sono quello che è finito in radio prima di altri. “Kokko”, “Gimme A Fat Beat”, “Ok Alright” finivano su Radio Deejay e insomma, se finivi su Radio Deejay automaticamente diventavi “commerciale”. Lo stesso Lory ha smesso di suonare i miei pezzi da quando hanno iniziato a comparire da quelle parti lì, in un certo tipo di contesto – e prima li suonava. Ad ogni modo: dal punto di vista pratico, sono diventato per eccellenza l’artista techno con però un pubblico non di appassionati di techno. E’ che ero entrato come agenzia in Gig Promotion….
…legata appunto a doppio filo con Radio Deejay…
…esatto, e loro mi facevano suonare in posti dove il pubblico non era assolutamente composto da raver, era un po’ il pubblico delle discoteche normali. I miei colleghi quindi ad un certo punto mi hanno visto andare “di là”; in realtà però continuavo a suonare le stesse cose di prima. Di fronte ad un audience diversa, sì; ma la musica era la stessa.
(Digital Boy, foto d’epoca; continua sotto)
Insomma, detto chiaramente: ti è pesato che un certo tipo di scena da un certo momento in poi ti avesse voltato un po’ le spalle o, comunque, guardato con un po’ di sufficienza? O anche un po’ molta sufficienza, a dirla tutta?
Beh, sì. All’inizio sì. Mia moglie si ricorda bene di questa cosa, stavamo già assieme: un sacco di volte me ne sono andato a suonare ad un rave, facendomi tutta la sfacchinata in macchina da solo fino a Roma, per un milione di lire, quando invece avrei potuto fare tre date in tre giorni, a massimo 45 minuti da casa mia, prendendo quattro milioni di lire per ciascuna data. Ma la mia scelta era: Roma. Andiamo al rave. Scegliamo quello. Zero dubbi. Perché mi sentivo di appartenere in primis a quella scena lì. Il paradosso poi è che in Italia ero quello “commerciale”, ma all’estero – e suonavo tanto all’estero – andavo a suonare in posti molto underground. Non mi vedevano certo come quello “commerciale”, a sentire quello che facevo. Ed è così che mi ritrovavo al Parkzicht a Rotterdam, o ai primissimi rave di Los Angeles, lì dove insomma la situazione era piuttosto cruda…
Non ti sei però mai sentito un “soldato dell’undeground”.
No, quello no. Perché se è vero che a lungo tempo sì, era cambiato il pubblico davanti a me ma a me sembrava di fare sempre le stesse cose, di non essermi in alcun modo “venduto”, è anche vero che ad un certo punto qualcosa si è rotto e sì, ho iniziato a fare tracce volutamente più commerciali. Oh, io andavo ad istinto: e in quel momento avevo voglia di fare quella cosa lì. Punto. Sai cosa? C’è stato un momento in cui la scena techno più dura e pura ha avuto un hype pazzesco: ad esempio una delle serate più belle della mia vita è stata a Pantigliate, Capodanno, ho suonato tipo per cinque ore con i miei synth (…e sì, probabilmente ero l’unico sobrio, di fronte a me erano tutti fattissimi). Quella sera fu incredibile, e per la techno c’era un picco di popolarità inimmaginabile, in quel momento. Poi però quando questa popolarità è venuta a cadere, l’impressione era come se all’improvviso fosse crollato quasi tutto. Io però da questo crollo non sono stato colpito, perché ero ormai ero stato trasferito nella parte “commerciale”. Ma davvero, non era stata una scelta intenzionale da parte mia.
Non c’era calcolo, insomma?
No, te l’assicuro.
Senti, da persona sobria e lucida, che effetto faceva avere davanti centinaia, anzi, migliaia di persone palesemente, diciamo così, “sopra le righe”? Perché nei momenti d’oro della techno in Italia la situazione era bella estrema, ci si dava dentro…
Eccome se lo era.
Roba che oggi uno manco se lo immagina, coi parametri di oggi.
Bravo.
E quindi?
Beh, era strano. Era anche bello, eh, sia chiaro: la ricezione della mia musica era ovviamente amplificata dalle droghe e sì, si avvertiva davvero ogni tanto un senso di empatia e di estasi di cui non potevo non godere. Ma quando scendevo dal palco e osservavo il tutto, come dire?, “dall’esterno”, l’impressione era abbastanza surreale. All’estero poi la cosa poteva diventare ancora più estrema, perché in alcuni casi eri in contesti così drogati che avvertivi chiaramente che l’euforia delle persone era in qualche modo del tutto slegata dalla musica e dalla tua proposta artistica. In America invece la situazione era un po’ diversa, perché il pubblico si divideva fra il fronte più estremo, quello dello speed e dell’ecstasy, e quelli che invece fumavano solo marijuana ed avevano, ovviamente, un modo di fare molto più serafico e rilassato.
(Vecchie registrazioni prese all’Immaginazione, a Pantigliate; continua sotto)
Ecco, a proposito di America, ma facciamo un salto più avanti nel tempo, almeno un quindici anni dopo i rave pionieristici di cui si sta parlando qui: stando lì, avevi previsto in anticipo l’esplosione del fenomeno EDM?
No, zero. Però sì, a pensarci bene i segnali c’erano. Col senno di poi, c’erano. Quando ci siamo trasferiti a Las Vegas, quella era veramente la città più “antica” del mondo in quanto a dinamiche di intrattenimento.
Sì, eh?
La svolta si è avverata quando hanno iniziato ad arrivare in maniera potente i social network, che hanno iniziato a mostrare ai ragazzi americani cosa stava avvenendo in Europa – e mi riferisco ovviamente ai contesti più grossi, spettacolari e commerciali, vedi alla voce Tomorrowland e dintorni. A Las Vegas c’è stata da lì in poi un’escalation incredibile: si è passati all’improvviso da un after a settimana in qualche buco scalcinato a serate nei club, dove una volta al mese addirittura si invitava una guest straniera; poi, quasi subito, le serate da mensili diventano settimanali… e lì è partito lo “snowball effect”. Le cose hanno iniziato a crescere, e moltiplicarsi; fino a quando sono arrivati i grandi Casinò a mettere il cappello sulla cosa e lì, beh, lì sai che se entrano in gioco loro, le dinamiche cambiano pesantemente. Non ce n’è. Loro, se investono, lo fanno solo alla grande e su piani che sono pluriennali: ragionano esclusivamente in funzione del lungo termine e di grandi investimenti. Con tutto quel che ne consegue. Nel momento in cui l’MGM ha bookato Tiësto su base triennale ci siamo detti “Ok, basta, ora le cose cambiano, si devono adeguare tutti”. La situazione attuale è che la programmazione dei club riceve addirittura un supporto da parte dei grandi Casinò e, effetto collaterale di tutto ciò, i fee dei dj sono esplosi. Ma questo perché per i grandi player della città un dj oggi è quello che era un Frank Sinatra o un Elvis Presley negli anni ’60, né più né meno. Strapagarlo è normale.
Come bisogna porsi di fronte al fenomeno EDM?
La EDM ha tanti aspetti negativi, potrei parlarne per giorni. Uno dei problemi sta proprio alla base: il termine è stato usato in maniera contraddittoria e confusa. In America “EDM” non era solo la progressive house da big room, era tutto; in Olanda, dove la musica dance elettronica la fanno da trent’anni e insomma la masticano, identificava invece un settore musicale ben specifico. Bene, questo negli anni ha generato tanta confusione. “EDM”, in America, a lungo tempo indicava anche la scena più underground, per dire; una confusione che col passare degli anni ha creato tanti equivoci e tante fratture. Quando poi il brusco calo di qualità nella scena EDM è diventato un dato di fatto – semplicemente perché troppe persone ci si sono buttate dentro contemporaneamente, con l’unica idea di cavalcare il fenomeno del momento – il processo di discesa ha subito una forte accelerazione. Se penso al vero e proprio “core” dell’EDM mi vengono in mente gente come Above & Beyond, che sono pure miei clienti: loro fanno la “loro” musica da sempre, da quindici anni. Ecco, di gente come loro ho massima stima; invece, oggi ci sono troppi producer che cambiano genere ogni tre giorni – non farmi fare nomi – e, insomma, si vede che non si pongono il problema né dell’identità né dell’integrità. Se guardo al mondo tech-house, io devo dire che apprezzo moltissimo i nomi storici: perché sono sempre rimasti fedeli a se stessi. Le mode sono cambiate attorno a loro mille volte, ma loro non sono mai andati ad inseguirle. Però, sempre nel mondo tech-house, sono un po’ perplesso quando vedo quella fetta underground che boh, che vuoi che ti dica, a me pare un po’ snob… Magari mi sbaglio, ma mi pare che paradossalmente proprio in quei contesti certe scelte e certe passioni siano spinte più dalla moda del momento e da una mera questione di coolness: “Ascolto certa musica, ho certi gusti e mi vesto in un certo modo solo perché questo fa di me una persona più intelligente, integra ed interessante”. E’ un fenomeno che vedo arrivare anche in America, in Europa credo ci sia da un po’, ed ecco, non so se mi piace molto…
Ah sì? Pure da voi, lì in America?
Un po’ sì. Per assurdo, nel campo della musica dance elettronica credo che Sud e Centro America siano molto più avanti degli Stati Uniti, del Nord America. Due anno fa sono stato al BPM, in Messico, e l’energia che c’era, la sintonia sincera con la musica, erano davvero strepitose.
A proposito di musica e di sintonia: quando lavori in studio, fino a che punto devi sospendere il tuo personale gusto musicale?
Sai, lavorando al mixing di una traccia o di un intero album ho imparato ad apprezzare degli aspetti che vanno assolutamente al di là del gusto personale. Se ascolto la musica da semplice ascoltatore chiaro che i gusti giocano la partita principale; ma quando lavoro da ingegnere del suono, la mente – e quindi la modalità di ascolto, fruizione ed apprezzamento – ha proprio uno switch.
Ecco. Uno switch è necessario, quindi.
Lo è. Spesso il mio compito è, prima di tutto, tirare fuori il massimo delle potenzialità da un brano. Qualsiasi brano esso sia.
Anche se ti fa cagare.
Eh.
Succede, no?
Succede, sì. A volte, lo switch funziona, parte subito, e cerco di trovare il modo per tirare fuori il meglio da quello che sento; altre volte, semplicemente, rifiuto.
A casa, quando non stai lavorando, cosa ascolti?
In campo dance un po’ di tempo fa ero preso molto bene per quello che arrivava dall’Australia, magari nella commistione fra elettronica ed indie, penso ad esempio al primo Flume…
…ma mi viene da citare anche gli PNAU, se ho capito che intendi.
Esatto! Mi ha affascinato molto la loro capacità di non essere solo puramente elettronici. Comunque ascolto veramente di tutto, fare playlist su Spotify dove mettere un po’ qualunque cosa mi diverte parecchio.
A me sembra che non siano solo le playlist di Spotify a divertirti: sembri veramente il ritratto di una persona soddisfatta e serena, anche nel parlare del tuo passato. Ti chiedo: ma torneresti mai in Italia? Ci hai mai pensato?
In Italia ci torno da turista, molto volentieri, e non mi dispiacerebbe tornarci da pensionato. Ma ora, no. Tornare a viverci adesso no. A maggior ragione ora che sono diventato finalmente americano: sì, finalmente un sei mesi fa ci sono riuscito.
Caspita, solo ora?
Per tanti anni sono andato avanti con la Green Card. Puoi farti anche tutta la vita a colpi i Green Card, ma puoi diventare pure ufficialmente cittadino americano, dopo un po’. Visto che è possibile avere la doppia cittadinanza, abbiamo deciso io e mia moglie che era il caso di diventare anche americani a tutti gli effetti. Però sì, diciamo che da pensionato, tra un quindici anni tipo, non mi dispiacerebbe passare almeno sei mesi all’anno in Italia. Ma ora no.
Ancora oggi c’è molta differenza tra un americano e un europeo? O rispetto agli anni ’80 e ’90, per non parlare dei decenni precedenti quando l’America era proprio un altro mondo, le differenze si sono un po’ limate?
Generalizzando, gli americani sono in qualche modo più superficiali; ma questo gli permette probabilmente di vivere meglio. Noi del Vecchio Continente siamo se vuoi più profondi, ok, ma questo significa anche che ci facciamo un sacco di problemi inutili, di paranoie. In Europa ad esempio, e in Italia in particolar modo, ci si interroga parecchio su cosa gli altri pensano di te, si è preccupatissimi di questo; e se pensiamo alla politica, poi, in Europa e in Italia è molto più influente perché tutto ciò che la riguarda viene costantemente bombardato su di te da parte dei media, senza interruzione, fino a quando non ti deprimi o ti indigni. In America, se vuoi le notizie di politica, te le devi proprio andare a cercare, sennò non ti sfiorano nemmeno.
Comunque allo stile di vita americano ci si può adeguare, non è impossibile, pur mantenendo la propria identità europea. Giusto?
Assolutamente sì. Io negli Stati Uniti mi trovo benissimo.
Anche al di là dei successi e dei grandi traguardi lavorativi?
La qualità della vita, negli USA, sa essere fantastica. E’ l’unico paese in cui sono rimasto per più di dieci anni di fila (sono sedici, ormai): perché anche quando stavo in Italia mi spostavo comunque parecchio. Vivere in una città come Las Vegas è molto interessante: perché è una città nuova, ha solo cent’anni, e quindi tutto è moderno, tutto è rivolto ad essere efficace come funzionamento nella contemporaneità; e comunque c’è una grande facilità di spostamento, l’aeroporto è a dieci minuti da casa mia e da lì, in aereo, fino a Los Angeles sono quaranta minuti, giusto per dire.
Allora, domandona finale, per tornare in parte a dove siamo partiti, con questa chiacchierata: qual è la data più assurda in cui ti è capitato di suonare, se scavi indietro nella memoria?
Ah, ce ne sono un bel po’. Nel mio cuore forse la più assurda è stata una data a Rotterdam, al Parkzicht: suonavamo in una gabbia, e leggenda vuole – ma è anche la pura verità – che non c’abbiano fatto uscire dalla gabbia finché non abbiamo risuonato di nuovo tutto il nostro set appena concluso, dall’inizio alla fine; nel frattempo, la gente si batteva contro le griglie della gabbia, in segno di entusiasmo, fino a sanguinare. E’ come se ce l’avessi ancora davanti ai miei occhi, questa scena, da quanto il ricordo è nitido: noi in una gabbia, di fronte a noi gente drogata ed esaltatissima, noi che ripetiamo a forza lo stesso set due volte. Altro ricordo? Direi, il mio primo rave a Los Angeles: fu incredibile. Terzo ricordo da conservare, il primo rave fatto a Roma: ero veramente un ragazzino, c’ero io, c’era anche Adamski…
…con cui poi ti sei addirittura ritrovato a fare un tour assieme, poco più in là.
Ma come fai a saperle, queste cose? Pensavo non se lo ricordasse più nessuno…